Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9796 del 04/05/2011

Cassazione civile sez. II, 04/05/2011, (ud. 10/03/2011, dep. 04/05/2011), n.9796

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. MATERA Lina – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

VILLA SAN CARLO BORROMEO (già Kolonos s.r.l.), in persona

dell’amministratore unico e legale rappresentante V.

A., rappresentata e difesa, anche disgiuntamente, in forza di

procura speciale in calce al ricorso, dagli Avv.ti TABELLINI Paolo

Maria, Carmine Punzi e Attilio Toppan, ed elettivamente domiciliato

presso lo studio del secondo, in Roma, viale Bruno Buozzi, n. 99;

– ricorrente –

contro

D.P.S. – ditta individuale, rappresentato e

difeso dagli Avv.ti Bologna Giuliano e Emilio Di Natale, in virtù di

procura speciale in calce al controricorso (contenente ricorso

incidentale) ed elettivamente domiciliato presso lo studio del primo,

in Roma, alla v. Merulana, n. 234;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

E sul ricorso (iscritto al N.R.G. 14349/05) proposto da:

D.P.S. – ditta individuale, rappresentato e

difeso dagli Avv. Giuliano Bologna e Emilio Di Natale, in virtù di

procura speciale in calce al controricorso (contenente ricorso

incidentale) ed elettivamente domiciliato presso lo studio del primo,

in Roma, alla v. Merulana, n. 234;

– ricorrente incidentale –

contro

VILLA SAN CARLO BORROMEO (già Kolonos s.r.l.). in persona

dell’amministratore unico e legale rappresentante V.

A., rappresentata e difesa, anche disgiuntamente, in forza di

procura speciale in calce al ricorso, dagli Avv. Tabelloni Paolo

Maria, Carmine Punzi e Attilio Toppan, ed elettivamente domiciliato

presso lo studio del secondo, in Roma, viale Bruno Buozzi, n. 99;

– controricorrente al ricorso incidentale –

Avverso la sentenza della Corte di appello di Milano n. 5/2005,

depositata il 3 gennaio 2005;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 10

marzo 2011 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

uditi gli Avv.ti Antonio D’Alessio, per delega, nell’interesse della

ricorrente principale e Massimiliano Rossi, per delega,

nell’interesse del ricorrente incidentale;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per l’accoglimento del

primo, quarto e settimo motivo del ricorso principale; per il

rigetto, nel resto, dello stesso ricorso principale e per il rigetto

integrale del ricorso incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con decreto ingiuntivo emesso in data 19 luglio 1997 il Presidente del Tribunale di Milano intimava alla Kolonos s.r.l. di pagare a D.S., quale titolare dell’omonima impresa edile, la somma di L. 1.599.596.000, oltre accessori, a titolo di residuo corrispettivo di opere da questi eseguite nell’ambito di un contratto di appalto concluso il 22 aprile 1984.

A seguito di opposizione da parte della società ingiunta, espletata la fase istruttoria (nel corso della quale era anche esperita c.t.u.) i Tribunale di Milano, con sentenza n. 224 del 2002, l’accoglieva parzialmente rideterminando il residuo credito spettante in favore del suddetto appaltatore nella misura di L. 796.484.000, revocando il decreto monitorio e condannando la società opponente al pagamento della predetta somma, oltre al maggior danno ex art. 1224 c.c., comma 2, e agli interessi legali, compensando per metà le spese di lite.

Interposto rituale appello da parte della s.r.l. Villa S. Carlo Borromeo (nuova ragione sociale della s.r.l. Spirali, incorporante la s.r.l. Kolonos) avverso il quale l’appellato formulava appello incidentale, la Corte di appello dì Milano, con sentenza n. 5 del 2005, depositata il 3 gennaio 2005, in parziale riforma della decisione impugnata, disponeva che la somma capitale di L. 796.484.000 (pari a Euro 413.251,28) spettante al D. a titolo di residuo corrispettivo dell’appalto, venisse progressivamente rivalutata di anno in anno (dal gennaio 1986) e che su di essa dovessero decorrere gli interessi legali sino alla data della decisione impugnata (18 dicembre 2001), e da tale data sull’importo così risultante i soli interessi legali fino al soddisfo; confermava nel resto la sentenza di primo grado e condannava la società appellante a rifondere all’appellato i 4/5 delle spese del grado, dichiarando compensato il residuo quinto.

A sostegno dell’adottata sentenza la predetta Corte territoriale rilevava l’infondatezza dell’appello con riferimento alla dedotta ammissibilità della querela di falso avverso alcuni aspetti contenuti nella relazione del c.t.u. e alla supposta mancata prova del credito azionato, mentre riteneva fondato (nei sensi appena richiamati) l’appello incidentale con riferimento alla determinazione degli accessori sul capitale residuo riconosciuto in favore del D..

Avverso la suddetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione (notificato il 5 maggio 2005 e depositato il successivo 23 maggio) la s.r.l. Villa San Carlo Borromeo (già Kolonos s.r.l.), basato su sette distinti motivi, al quale ha resistito l’intimato D.P.S. con controricorso contenente ricorso incidentale (notificato il 3 giugno 2005 e depositato l’11 giugno successivo), fondato su quattro motivi. Avverso tale ricorso incidentale ha formulato controricorso ex art. 371 c.p.c., comma 4, la ricorrente principale, i cui difensori hanno depositato anche memoria illustrativa.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare bisogna disporre la riunione di entrambi i ricorsi in quanto proposti avverso la stessa sentenza (art. 335 c.p.c.).

2. Con il primo motivo la ricorrente principale deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 287 c.p.c. e segg., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

3. Con il secondo motivo la s.r.l. Villa San Carlo Borromeo censura la sentenza impugnata prospettando la violazione e falsa applicazione degli artt. 2699 e 2700 c.c., nonchè degli artt. 221, 222 e 223 c.p.c. e la conseguente nullità del procedimento e della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, unitamente all’insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, in ordine all’art. 360 c.p.c., comma n. 5.

4. Con il terzo motivo la suddetta ricorrente impugna la sentenza della Corte di appello di Milano in questione rappresentando la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115, 183 e 184 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, congiuntamente all’insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, in ordine all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

5. Con il quarto motivo la ricorrente principale lamenta la violazione e falsa, applicazione degli artt. 1660 e 1661 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè l’insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

6. Con il quinto motivo la s.r.l. Villa San Carlo Borromeo censura la sentenza impugnata deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 1421 c.c. e la violazione degli artt. 112 e 183 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, congiuntamente all’insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

7. Con il sesto motivo la ricorrente principale prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1224 c.c. e la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè la carenza di motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

8. Con il settimo ed ultimo motivo la ricorrente principale deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1224 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè l’insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

9. Con il primo motivo il ricorrente incidentale D.P. S. censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e degli artt. 112 e 324 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè l’omessa motivazione e delibazione su un punto decisivo della controversia in ordine all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

10. Con il secondo motivo del ricorso incidentale il D. prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1418 c.c. in relazione agli artt. 1325-1346 c.c., anche in nesso con gli artt. 1661 e 1362 e segg. c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè l’omessa e/o carente motivazione su un punto decisivo della controversia in ordine all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

11. Con il terzo motivo il ricorrente incidentale assume la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè l’insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

12. Con il quarto ed ultimo motivo del ricorso incidentale il D. deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 133 c.p.c., in riferimento al delibato ex art. 1224 c.c., comma 2, avuto riguardo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

13. Rileva il collegio che, per un’evidente ragione di pregiudizialità, deve essere esaminato in via prioritaria il primo motivo del ricorso incidentale in quanto involge la supposta formazione del giudicato esterno in virtù della produzione degli effetti della sentenza, dedotta come intervenuta tra le stesse parti e relativa alla medesima pretesa creditoria, del Tribunale di Milano n. 5016 del 1991, confermata con sentenza della Corte di appello di Milano n. 1040 del 1996, passata in giudicato a seguito del rigetto del relativo ricorso per cassazione intervenuto con sentenza di questa Corte n. 10062 del 1999.

13.1. Posto che su tale eccezione occorre pronunciarsi sulla scorta degli atti comunque prodotti nel corso del giudizio di merito (cfr, da ultimo, Cass. 16 marzo 2010, n. 6326, e Cass. 23 dicembre 2010, n. 26041) e che questo giudice di legittimità è legittimato ad accertare direttamente l’esistenza e la portata dell’eventuale giudicato esterno, con cognizione piena, che si estende al riesame degli atti del processo e alla valutazione ed interpretazione degli stessi (anche mediante indagini di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice del merito: v.

Cass., SU, 28 novembre 2007, n. 24664, e Cass. 5 ottobre 2009, n. 21200), il collegio rileva che l’eccezione è infondata e deve, pertanto, essere respinta.

Dall’esame delle richiamate sentenze riguardanti l’altro giudizio intercorso tra le parti e culminato nella sentenza definitiva di questa Corte n. 10062 del 1999 (depositata il 17 settembre 1999 e comportante il rigetto del ricorso proposto), si desume, infatti, che sia in primo grado (con la sentenza del Tribunale di Milano n. 5016 del 1991) che in secondo grado (con la sentenza confermativa della Corte di appello di Milano n. 1040 del 1996) i giudici di merito non si erano affatto pronunciati sulla pretesa creditoria allora avanzata dal D. (afferente il pagamento del corrispettivo dell’appalto oggetto della controversia poi decisa con la sentenza della Corte di appello di Milano n. 5 del 2005), avendo solo statuito (respingendola) sulla domanda riconvenzionale in quella sede esperita dall’allora Kolonos s.r.l. in ordine all’applicazione della penale per la ritardata esecuzione dei lavori appaltati. Con la sentenza di primo grado n. 5016 del 1991 del Tribunale di Milano (confermata integralmente in appello) fu, invece, dichiarata l’improcedibilità (per il sopravvenuto fallimento della Kolonos s.r.l.) della domanda principale del D. di accertamento e pagamento del preteso credito relativo al saldo del corrispettivo dell’appalto, con il solo rilievo, formulato in motivazione in via meramente incidentale, che dalle risultanze della c.t.u. si sarebbe potuti risalire all’esistenza di un credito residuo dell’attore di L. 1.599.596.000.

Tuttavia, dalla sentenza in questione non risulta emessa alcuna statuizione di merito, suscettibile di passare potenzialmente in giudicato, in ordine all’esistenza e all’entità del credito assunto come vantato dal D., poichè il Tribunale stesso, nel “decisum” finale coincidente con il dispositivo, si era limitato, con riferimento alla domanda del D., ad adottare una pronuncia di mero rito implicante la declaratoria di improcedibilità della domanda medesima per la suddetta ragione impeditiva (poichè l’accertamento del credito sarebbe dovuto necessariamente avvenire nelle forme concorsuali di cui alla c.d. L. Fall., art. 93 e segg., alla luce del disposto dell’art. 52, comma 2, della stessa legge).

Conseguentemente, non essendo intervenuta una decisione propriamente di merito sulla fondatezza della domanda del D. ed essendosi formato il giudicato su ciò che ha costituito effettivamente oggetto di decisione (v., ad es. Cass. 20 aprile 2007, n. 9468, e Cass. 10 ottobre 2007, n. 21266), l’eccezione del ricorrente incidentale è priva di pregio. Del resto, alcuna statuizione di merito in ordine all’esistenza e alla misura del credito dedotto dal D. può ritenersi implicitamente riconducibile alla pronuncia di rigetto della domanda riconvenzionale (intervenuta con la stessa sentenza del Tribunale di Milano n. 5016 del 1991, confermata “in toto” in appello, con successivo rigetto del ricorso per cassazione, come già sottolineato) proposta dalla s.r.l. Kolonos in ordine alla condanna dell’appaltatore al pagamento della penale per la ritardata esecuzione dei lavori, non costituendo l’accertamento del suddetto credito del D. un suo antecedente logico-giuridico necessario.

Il rigetto (in via definitiva) della indicata domanda riconvenzionale presuppone, invero, solo che il giudice abbia accertato il rispetto del termine di ultimazione delle opere o l’esistenza di ragioni giustificative del ritardo e, perciò, è solo su questi aspetti di merito che è venuto effettivamente a cadere il giudicato fra le parti, in relazione alla previsione dell’art. 2909 c.c.. Non può ritenersi affatto indispensabile, invece, che, per pervenire al rigetto della citata domanda riconvenzionale, il giudice debba accertare anche l’esistenza e, tanto meno, anche l’entità del credito eventualmente ancora spettante all’appaltatore nei confronti del committente, con la conseguenza che, anche ove nella sentenza fossero inserite affermazioni incidentali relative a tali aspetti, le stesse (da considerarsi eccedenti la necessità logico-giuridica della decisione sulla domanda giudiziale effettivamente adottata nel merito) non potrebbero considerarsi suscettibili di acquistare forza di giudicato, in difetto – come già evidenziato – di qualsiasi statuizione di merito sulla domanda relativa al credito assunto come vantato dall’appaltatore (cfr., altresì, Cass. 21 maggio 2007, n. 1172, secondo la quale l’operatività degli effetti del giudicato sostanziale deve intendersi limitata alle statuizioni necessarie ed indispensabili per giungere alla decisione, non estendendosi, invece, alle enunciazioni puramente incidentali, nonchè alle considerazioni prive di relazione causale e non indissolubilmente dipendenti con quanto abbia formato oggetto della pronuncia, ovvero di collegamento con il contenuto del dispositivo e, perciò, prive di efficacia decisoria).

14. Riprendendo, ora, l’ordine logico dei motivi complessivamente proposti con i due ricorsi, si può passare all’esame del primo motivo del ricorso principale, con il quale la s.r.l. Villa S. Carlo Borromeo ha dedotto, in primo luogo, l’illegittimità della sentenza impugnata relativamente alla parte corretta dall’ordinanza pronunciata in data 20 aprile 2005, con la quale la stessa Corte di appello, su ricorso formulato dal D. ai sensi degli artt. 287 e segg. c.p.c., ha disposto l’inserimento nel dispositivo della sentenza n. 5 del 2005, dopo la frase “venga progressivamente rivalutata di anno in anno (dal gennaio 1986)”, della locuzione “secondo l’indice ISTAT costo della vita”.

14.1. La doglianza è fondata e deve, quindi, essere accolta.

E’ risaputo, in generale, che il procedimento per la correzione degli errori materiali di cui all’art. 287 c.p.c. è esperibile per ovviare ad un difetto di corrispondenza fra l’ideazione del giudice e la sua materiale rappresentazione grafica, chiaramente rilevatale dal testo stesso del provvedimento mediante il semplice confronto della parte del documento che ne è inficiata con le considerazioni contenute in motivazione, senza che possa incidere sul contenuto concettuale e sostanziale della decisione (cfr. Cass. 19 gennaio 1985, n. 177, e Cass. 25 gennaio 2000, n. 816). Orbene, proprio sulla base di tale presupposto, questa Sezione, con la specifica sentenza n. 6768 del 20 luglio 1994, alla quale il collegio intende aderire, ha statuito che “non è emendabile con il procedimento di correzione l’omessa specificazione nella motivazione e nel dispositivo di una sentenza di condanna al pagamento di una somma di denaro del tipo e categoria di indice ISTAT da assumere in concreto a parametro della disposta rivalutazione della somma capitale, implicando simile individuazione un’integrazione del contenuto della decisione, attraverso l’esercizio di poteri cognitivi e di valutazione”. Entro questi termini e con riferimento al riportato principio, perciò, il primo motivo del ricorso principale va accolto, salvo quanto si dirà, di seguito, con riguardo al settimo motivo dello stesso ricorso principale in ordine al profilo della denunciata illegittimità della sentenza della Corte territoriale nella parte in cui ha riconosciuto al D., sulla somma capitale, sia gli interessi legali che la rivalutazione monetaria (che produrrà, in sostanza, un effetto necessariamente da coordinare alla statuizione adottata in merito al primo motivo ora affrontato).

15. Con il secondo motivo la ricorrente principale ha denunciato l’illegittimità della sentenza impugnata, per assunta violazione e falsa applicazione degli artt. 2699, 2700 c.c., degli artt. 221, 222 e 223 c.p.c., oltre che per insufficiente motivazione circa un punto della controversia, con riferimento alla parte in cui la Corte milanese ha escluso l’ammissibilità della querela di falso che essa società aveva proposto all’udienza del 10 luglio 2001 avanti a giudice istruttore del Tribunale di Milano e che aveva riproposto anche nel giudizio di appello nei riguardi della relazione peritale dell’ing. C.S. del 22 dicembre 1986, svolta in altro giudizio precedente intercorso tra le parti (ovvero in quello conclusosi con la sentenza in relazione alla quale è stata svolta l’eccezione di giudicato esterno dal ricorrente incidentale, già dichiarata infondata). La ricorrente Villa S. Carlo Borromeo s.r.l.

aveva, infatti, inteso contestare alcune dichiarazioni e determinati risultati di accertamenti tecnici ritenuti non rispondenti al vero che avevano spiegato un’effettiva finalità probatoria nel processo, cosicchè il giudice di appello avrebbe dovuto rilevare la nullità in cui era incorso il giudice di prima istanza che non aveva dato adito alla fase preliminare dell’interpello e che, solo successivamente alla formalizzazione della dichiarazione di volersi avvalere della relazione peritale da parte dell’interessato, avrebbe dovuto valutare la rilevanza del documento impugnato e, in caso positivo, autorizzare la presentazione della querela, rimettendo la decisione al competente Tribunale, sospendendo il giudizio di appello.

15.1. Il motivo (ancorchè rispettoso del requisito dell’autosufficienza, essendo corredato del richiamo del contenuto dell’atto di proposizione di querela di falso) è infondato e va respinto.

Come correttamente evidenziato dalla Corte territoriale la querela di falso non è ammissibile con riferimento alla relazione di c.t.u.

(peraltro, nella specie, conseguente alle operazioni peritali esperite in altro giudizio), dal momento che essa non riveste la natura di atto pubblico secondo la definizione di cui all’art. 2699 c.c. e non è idonea ad acquisire l’efficacia propria prevista dall’art. 2700 c.c., poichè essa inerisce la raccolta di valutazioni tecniche espresse sulla scorta di accertamenti connotati da una determinata specificità che costituiscono la risposta ad un mandato giudizialmente assegnato all’ausiliario, le cui risultanze possono essere contestate liberamente dalle parti e alle quali – come è noto – il giudice non necessariamente si deve conformare quando non le ritiene convincenti ed adeguatamente sviluppate, potendosene, perciò, anche discostare, purchè con l’esternazione di un percorso motivazionale congruo e logico, e potendo, in alternativa, anche determinarsi nel senso della rinnovazione delle operazioni tecniche mediante il ricorso ad altra consulenza (in ipotesi anche collegiale).

Anche la più recente giurisprudenza di questa Corte (che si condivide) ha confortato l’esattezza di detto principio tenuto presente dalla Corte territoriale, essendo stato specificamente asserito che, in tema di querela di falso, l’idoneità del documento impugnato ad assumere efficacia di fede privilegiata costituisce comunque il presupposto necessario del procedimento di verificazione giudiziale a norma dell’art. 221 c.p.c. e segg., con la conseguente inammissibilità della querela avverso la “consulenza tecnica d’ufficio”, che si distingue nettamente dalla prova documentale e che, riguardo alle affermazioni, constatazioni o giudizi in essa contenuti, non è munita di pubblica fede, potendo essere contrastata con tutti i mezzi di prova diversi dalla querela di falso, nè vincola il giudice, che può liberamente disattenderla (cfr. Cass. 29 settembre 2004, n. 19539). Ancora più nettamente è stato statuito (v. Cass. 24 maggio 2007, n. 12086) che la querela di falso civile in via incidentale o principale è consentita contro l’atto pubblico o le scritture private, cioè in genere contro le prove documentali precostituite, in quanto facciano fede ai sensi egli artt. 2699 e 2702 c.c., ed è diretta a togliere ai medesimi la fede che dovrebbero avere o hanno nel giudizio; pertanto essa non è ammissibile contro il contenuto di una consulenza tecnica d’ufficio, la quale, pur se redatta per iscritto, si distingue dalla prova documentale e non è assistita da pubblica fede con riguardo alle affermazioni o constatazioni o giudizi in essa contenuti, potendo essere confutata con tutti i mezzi di prova senza necessità dell’esperimento della querela di falso, nè impegnando il giudice, che può – come già sottolineato – approvarla o disattenderla. In definitiva, considerato che con la censura in esame la ricorrente principale ha insistito per l’ammissibilità della querela di falso in ordine al contenuto in senso ampio di una determinata relazione peritale (e non con riferimento alla proponibilità dell’esperimento di tale rimedio con riferimento a specifici verbali attestanti l’esecuzione di appositi accertamenti avvenuti in presenza del c.t.u., assunti come non rispondenti al vero: per questa distinzione v., ancora, la citata Cass. n. 12086 del 2007), la doglianza deve essere respinta.

16. Con il terzo motivo la ricorrente principale ha censurato la sentenza della Corte di appello di Milano in relazione all’erronea applicazione dell’art. 2697 c.c. in materia di ripartizione dell’onere della prova applicato al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, in cui spetta al creditore ricorrente l’onere di provare la sussistenza del suo credito, onere che la suddetta Corte aveva ritenuto assolto, con motivazione da valutarsi insufficiente, ponendo riferimento all’omessa specifica contestazione da parte dell’allora Kolonos s.r.l. della circostanza di aver commissionato le opere per il cui pagamento il D. aveva agito in via monitoria.

16.1. Anche questo motivo non è meritevole di pregio e deve, perciò, essere rigettato.

La Corte di appello, dopo aver accertato che le opere commissionate al D. riguardavano la realizzazione di “opere di risanamento conservativo e di ristrutturazione interne ed esterne” alla villa Borromeo, nonchè la sistemazione di due piccoli edifici con relativa fissazione del prezzo “a corpo”, ha evidenziato che, in effetti, sulla scorta del pregresso giudizio intercorso tra le parti (basato sul medesimo “thema decidendum”, in ordine al quale – come visto – è stata proposta l’eccezione di giudicato esterno, peraltro dichiarata infondata) sfociato nella sentenza del Tribunale di Milano n. 5016 del 1991, che aveva respinto la domanda riconvenzionale della Kolonos s.r.l. relativa all’applicabilità della penale per il ritardo nell’adempimento (con statuizione confermata in appello e in Cassazione), si era proceduto, con apposita c.t.u. dell’ing. C., proprio all’accertamento della qualità e quantità, oltre che della valutazione delle suddette opere realizzate (quantificate nell’ordine della somma di L. 1.599.596.000, poi posta a fondamento della richiesta monitoria che ha prodotto, una volta subentrata nella posizione della Kolonos s.r.l. la s.r.l. Villa S. Carlo Boroormeo, l’instaurazione del giudizio successivo). La stessa Corte territoriale, con motivazione sintetica ma sufficiente, ha attestato, altresì, che, in sede di precisazione delle conclusioni rassegnate all’esito del giudizio di primo grado, l’odierna ricorrente principale Villa S. Carlo Borromeo s.r.l. si era limitata a dedurre l’inutilizzabilità della relazione del suddetto c.t.u., senza, però, contestare la mancata commissione delle opere eseguite dal D.. Del resto, osserva la stessa Corte milanese, le emergenze della precedente c.t.u. con riferimento alle specificate circostanze (riguardanti anche i lavori extracontrattuali eseguiti) avevano trovato conferma anche nella relazione successivamente redatta da altro ausiliario (l’ing. S.) nell’ambito del giudizio conseguente alla successiva azione monitoria intentata dal D., ragion per cui, valorizzate le risultanze del pregresso giudizio (certamente utilizzabili a fini probatori) unitamente a quelle ulteriormente raccolte e che avevano avvalorato quelle acquisite in precedenza (e pur non potendosi escludere che la contestazione della s.r.l. Villa S. Carlo Borromeo vi fosse stata, ancorchè formulata in senso non del tutto specifico e, comunque, univoco, tenendo conto anche della sua condotta osservata nel precedente processo), non può dirsi che la sentenza impugnata sia incorsa nella denunciata violazione di legge (relativa alla ripartizione dell’onere probatorio) e nel dedotto vizio motivazionale.

17. Con il quarto motivo la ricorrente principale ha denunciato l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale aveva respinto anche la subordinata censura con la quale essa società aveva lamentato l’erroneità della sentenza di primo grado per aver assunto come parametro di riferimento, al fine di valorizzare gli asseriti lavori extracontrattuali, i prezzi determinati alla stregua dei listini della C.C.I.A.A., mentre avrebbe dovuto tener conto, anche per questi lavori, dei prezzi determinati dall’ing. S. secondo la volontà delle parti desumibile dal contratto di appalto.

17.1. Anche questa ulteriore censura si prospetta infondata e va, pertanto, respinta. La Corte territoriale, infatti, sul presupposto dell’avvenuta individuazione delle opere extracontrattuali conseguenti a sopravvenute varianti in corso d’opera, ha adeguatamente motivato che, in difetto di un successivo accordo sul prezzo applicabile a queste ulteriori opere che potesse essere ragguagliabile a quello già applicato per i lavori oggetto della convenzione contrattuale, il giudice di prima istanza aveva legittimamente applicato il prezzo desunto dal listino della Camera di commercio del secondo trimestre del 1984, avvalendosi del potere (rapportabile al legittimo esercizio di una valutazione di merito) conferitogli dall’art. 1660 c.c.. In tal modo, il giudice di appello si è conformato al principio stabilito da questa Corte (v. Cass. 22 marzo 1993, n. 3353), alla stregua del quale, nel caso in cui il corrispettivo dell’appalto, secondo un progetto che non preveda l’esecuzione di determinate opere, sia stato stabilito senza alcun riferimento alle opere ulteriormente sopravvenute (e realizzate), il prezzo delle necessarie variazioni integrative, a meno che non risulti una contraria volontà delle parti (nella specie non provata), non può considerarsi compreso in quello previsto nell’appalto e, anche quando il progetto sia stato predisposto dall’appaltatore, deve essere determinato dal giudice ai sensi del citato art. 1660.

18. Con il quinto motivo del suo ricorso la ricorrente principale lamenta che la Corte milanese ha illegittimamente confermato la statuizione del Tribunale di primo grado relativa alla dichiarazione d’ufficio della nullità della clausola contrattuale riguardante l’esecuzione dei lavori previsti dalla voce n. 68 del computo metrico allegato al contratto di appalto per indeterminatezza dell’oggetto, affermando che le censure della stessa società in ordine alla non rilevabilità d’ufficio della nullità non sarebbero state pertinenti, sia perchè la nullità del contratto è rilevabile d’ufficio anche per la prima volta in appello, sia perchè il D. aveva costantemente sostenuto la nullità dell’intero regolamento contrattuale per sopravvenuta indeterminatezza dell’oggetto. 18.1. Pure questo motivo è destituito di fondamento e va respinto. Anche relativamente a questo aspetto il giudice di appello ha correttamente confermato la statuizione di primo grado con la quale era stata dichiarata la nullità della suddetta clausola contrattuale in considerazione della sua indeterminatezza (in virtù della estrema incertezza della consistenza del lavoro prevista dalla corrispondente voce, accertata con adeguata valutazione di merito), applicando il principio statuito da questa Corte (v., soprattutto, Cass., S.U., 4 novembre 2004, n. 21095; Cass. 13 ottobre 2005, n. 19882, e Cass. 23 agosto 2006, n. 18374), secondo cui la nullità può essere rilevata d’ufficio, in qualsiasi stato e grado del giudizio (e senza soggiacere, perciò, ad alcun regime preclusivo), indipendentemente dall’attività assertiva delle parti e, quindi, anche per una ragione diversa da quella espressamente dedotta, nel caso in cui sia in contestazione l’applicazione o l’esecuzione del contratto, la cui validità rappresenta, quindi, un elemento costitutivo della domanda.

19. Con il sesto motivo la ricorrente principale censura la decisione di appello nella parte in cui aveva provveduto al riconoscimento della rivalutazione della somma capitale in favore del D., malgrado nell’atto di appello fosse stata contestata la legittimità di tale attribuzione.

19.1. Anche questa doglianza non coglie nel segno e deve essere rigettata. Invero, confrontando il “decisum” della Corte di appello con le conclusioni precisate dal D., quale appellato incidentale, si evince che, sulla scorta del complessivo “petitum” definitivamente indicato, era stato chiesto anche il riconoscimento della rivalutazione monetaria (sulla cui spettanza, però, si rimanda all’esame del successivo motivo).

20. Con il settimo motivo, infatti, la ricorrente principale ha prospettato l’illegittimità dell’impugnata sentenza nella parte in cui aveva riconosciuto al D., sulla somma capitale, sia gli interessi legali sia la rivalutazione monetaria, pur avendo dedotto con l’atto di appello che la controversia ineriva il saldo del corrispettivo dell’appalto, ovvero un credito di valuta, ragion per cui si sarebbe dovuto ritenere inapplicabile, nel caso di specie, il principio dettato da questa Corte con la sentenza a Sezioni unite n. 1712 del 1995 riguardante, invero, una fattispecie di liquidazione di un danno da fatto illecito extracontrattuale (al quale aveva, invece, posto riferimento la Corte territoriale).

20.1. Questo motivo è fondato e deve, quindi, trovare accoglimento con l’adozione della conseguente pronuncia di annullamento della statuizione impugnata sul punto. La Corte territoriale, infatti, decidendo nei riportati termini, è incorsa nel duplice vizio dedotto, apparendo, innanzitutto, contraddittoria la sua valutazione laddove, rispetto al riconoscimento della natura di debito di valuta e non di valore del credito (di natura contrattuale) azionato dal D., ha fatto applicazione di un principio relativo alla liquidazione di un danno di origine extracontrattuale (e, quindi, ad un tipico credito di valore); inoltre, l’attribuzione cumulativa di rivalutazione ed interessi, a titolo di risarcimento del “maggior danno” ex art. 1224 c.c., comma 2, è certamente illegittima, perchè in tema di risarcimento del maggior danno nelle obbligazioni pecuniarie vale il principio secondo il quale, ai sensi della disposizione normativa appena citata, non è consentito il cumulo degli interessi e della rivalutazione monetaria. A tal proposito, pertanto, la Corte territoriale avrebbe dovuto applicare il diverso principio adattabile ai crediti di valuta (ai quali è riconducibile il prezzo dell’appalto: v. Cass. 8 aprile 1999, n. 3393), in dipendenza del quale “in tema di obbligazioni di valuta, il fenomeno inflattivo non consente un automatico adeguamento dell’ammontare del debito, nè costituisce di per sè un danno risarcibile, ma può implicare, in applicazione dell’art. 1224 c.c., comma 2, solo il riconoscimento in favore del creditore, oltre che degli interessi, del maggior danno che sia derivato dall’impossibilità di disporre della somma durante il periodo della mora, nei limiti in cui il creditore medesimo deduca e dimostri che un pagamento tempestivo lo avrebbe messo in grado di evitare o ridurre quegli effetti economici depauperativi che l’inflazione produce a carico di tutti i possessori di denaro, posto che gli interessi moratori accordati al creditore dall’art. 1224 c.c., comma 1 hanno funzione risarcitoria, rappresentando il ristoro, in misura forfettariamente predeterminata, della mancata disponibilità della somma dovuta, rimanendo comunque esclusa la possibilità del cumulo tra rivalutazione monetaria ed interessi compensativi ” (cfr., da ultimo, Cass. 3 giugno 2009, n. 12828, e Cass. 10 novembre 2009, n. 23744; per una pronuncia di più ampio respiro sulla questione generale in discorso v. Cass., S.U., 16 luglio 2008, n. 19499). 21. Occupandoci, a questo punto, dell’esame degli altri motivi articolati con il ricorso incidentale formulato dal D., bisogna evidenziare che con la seconda doglianza il ricorrente incidentale ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui non era stata accolta l’eccezione di nullità del contratto del 22 aprile 1986 per originaria e/o sopravvenuta indeterminatezza dell’oggetto ai sensi degli arti 1325-1346 e 1418 c.c..

21.1. Tale motivo è privo di pregio e va rigettato.

Al di là del profilo relativo alla supposta tardività della proposizione dell’eccezione in discorso (siccome formulata solo in comparsa conclusionale nel giudizio di primo grado), che è superato dalla sua possibile rilevabilità d’ufficio (ai sensi dell’art. 1421 c.c.), la doglianza è infondata sia perchè in contrasto con le risultanze del pregresso giudizio avente ad oggetto lo stesso “thema decidendum” nel quale le pretese contrapposte delle parti presupponevano la incontestata validità del contratto di appalto nella sua interezza sia per l’inconferenza, a tal fine, del richiamo all’operatività dell’art. 1661 c.c..

Innanzitutto, deve osservarsi che le norme previste dagli artt. 1659, 1660 e 1661 c.c., nei casi rispettivamente regolati, non prevedono effetti di sorta sulla validità ed efficacia del contratto di appalto “originario”, ma le stesse disciplinano le varie ipotesi nelle quali, nel corso dell’esecuzione di una convenzione di appalto, può farsi luogo a “varianti” rispetto ai lavori originariamente concordati, le quali costituiscono una modificazione (mediante sostituzione di lavori già previsti o aggiunta di nuovi lavori a quelli originariamente pattuiti) dell’oggetto originario dell’appalto ma certamente non sono idonee a rendere tale oggetto “indeterminato” (nè indeterminabile). Il D., nel motivo in questione, ponendo riferimento al disposto dell’art. 1661 c.c., comma 2 sembra sostenere che detta norma sancisca la disapplicazione del contratto di appalto nella sua totalità nel caso – in essa contemplato – che le “varianti” richieste dal committente, pur essendo contenute nei limiti del sesto del prezzo complessivo originariamente pattuito, comportino, tuttavia, “notevoli modificazioni della natura dell’opera e dei quantitativi nelle singole categorie di lavori previsti nel contratto” e l’instaurazione, di fatto, di un nuovo regolamento contrattuale che, con riferimento ai corrispettivi, dovrebbe trovare riscontro negli usi tabellari della C.C.I.A.A. (in difetto di quelli negoziali).

Tale prospettazione non è coerente con l’impianto normativo codicistico. Ai sensi del citato art. 1661 c.c. è previsto, per un verso, che il committente ha il potere di chiedere all’appaltatore l’esecuzione di “varianti” il cui ammontare non superi il sesto del prezzo originario e l’appaltatore è obbligato ad eseguirle con “diritto al compenso per i maggiori lavori eseguiti” e, per altro verso, risulta stabilito che siffatto potere del committente non sussiste, con la conseguente inconfigurabilità di un obbligo di esecuzione a carico dell’appaltatore, nei casi di richiesta da parte dello stesso committente sia dì varianti” comportanti le notevoli modificazioni contemplate dal comma 2. Da questo inquadramento si ricava, dunque, come le previsioni evinciteli dall’art. 1661 c.c. non siano idonee ad sortire alcune incidenza sulla validità del contratto originario. Oltretutto, l’impostazione del motivo dedotto dal D. appare ancor più irrilevante laddove si consideri che il disposto dell’art. 1661 c.c., comma 2, è in grado di rilevare unicamente nel caso in cui venga in discussione tra le parti (e costituisca oggetto di contenzioso) la sussistenza del diritto del committente a pretendere l’esecuzione di “varianti” e del correlato obbligo dell’appaltatore di eseguirle, ma non produce alcuna incidenza nel caso in cui l’appaltatore assume -come avvenuto nella specie sulla base della stessa prospettiva del D. – di avere eseguito “varianti” richieste dal committente e di avere diritto al riconoscimento di corrispettivi ulteriori rispetto al prezzo dell’appalto originariamente concordato.

22. Con il terzo motivo il ricorrente incidentale ha contestato la sentenza impugnata sotto il profilo del vizio motivazionale e dell’assunta violazione dei canoni normativi di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c. in tema di valutazione delle risultanze probatorie con riferimento al criterio di lavoro adottato dal c.t.u. ing. S..

22.1. Questo motivo (che, peraltro, investe una tipica valutazione in fatto del giudice di merito) è inammissibile.

La giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. 5 maggio 2003, n. 6735; Cass. 28 marzo 2006, n. 7078, e Cass. 13 giugno 2007, n. 13845) è univoca nell’affermare che, in tema di ricorso per cassazione per vizio di motivazione e per violazione dei criteri normativi generali attinenti alla valutazione delle prove, la parte che si duole di carenze o lacune nella decisione del giudice di merito che abbia sostanzialmente basato il proprio convincimento sull’accertamento tecnico eseguito in giudizio, non può limitarsi a censure apodittiche d’erroneità e/o inadeguatezza della motivazione od anche di omesso approfondimento di determinati temi di indagine, prendendo in considerazione emergenze istruttorie asseritamente suscettibili di diversa valutazione e traendone conclusioni difformi da quelle alle quali è pervenuto il giudice “a quo”, ma, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed il carattere limitato di tale mezzo di impugnazione, è tenuta ad indicare le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità e adeguatezza al fine di consentire l’apprezzamento causale del difetto di motivazione, richiamando le difese svolte al riguardo e disattese dal giudice, riportando per esteso le pertinenti parti della consulenza tecnica ritenute insufficientemente od erroneamente valutate e svolgendo concrete e puntuali critiche alla contestata valutazione. Nel caso in esame, il D., pur individuando una serie di critiche avverso i criteri di indagine dell’ing. S., ha omesso di riportare i necessari passaggi contestati della relazione peritale così venendo meno all’obbligo del pieno assolvimento del richiamato onere dell’autosufficienza del ricorso incidentale, al quale consegue l’inammissibilità della formulata doglianza.

23. Con il quarto ed ultimo motivo il ricorrente incidentale ha dedotto la violazione dell’art. 133 c.p.c. in relazione a quanto statuito dalla Corte territoriale in applicazione dell’art. 1224 c.c., comma 2, avendo essa riferito il termine “a quo” del computo della forma di risarcimento riconducibile a detta norma a quello della sottoscrizione della sentenza da parte del giudice di primo grado (18 dicembre 2001) anzichè a quello dell’effettiva pubblicazione della decisione stessa (sopravvenuta il 10 gennaio 2002).

23.1. Questo ultimo motivo è fondato, perchè il riconoscimento del maggior danno ex art. 1224 c.c., comma 2, (qualora provato o dovuto in relazione alla natura dei crediti ai quali accede) deve essere computato fino al momento in cui la decisione che lo ammette viene effettivamente ad esistenza con la sua pubblicazione (con la conseguenza che, nella fattispecie, esso – se dovuto – deve essere esteso fino a tale momento, coincidente con la data del 10 gennaio 2002, in cui, appunto, la sentenza di primo grado era stata depositata, non rilevando, a tal fine, il momento antecedente – meramente interno – dell’avvenuta deliberazione della decisione).

24. In definitiva, alla stregua delle complessive argomentazioni operate, deve pervenirsi all’accoglimento dei primo e settimo motivo del ricorso principale oltre che del quarto motivo del ricorso incidentale, con il rigetto di entrambi i ricorsi con riferimento agli altri motivi rispettivamente formulati. Conseguentemente la sentenza impugnata deve essere cassata in ordine ai motivi accolti (e nei sensi esplicitati) con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano, che si atterrà ai principi di diritto indicati in relazione ai suddetti motivi (rispettivamente sub 14.1, 20.1 e 23.1) e provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

LA CORTE riuniti i ricorsi, accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il primo e settimo motivo del ricorso principale, nonchè il quarto motivo del ricorso incidentale; rigetta nel resto entrambi i ricorsi.

Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, ad altra Sezione della Corte di appello di Milano.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 10 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2011

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