Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 977 del 17/01/2020

Cassazione civile sez. lav., 17/01/2020, (ud. 20/03/2019, dep. 17/01/2020), n.977

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALESTRIERI Federico – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6398-2015 proposto da:

ATAC S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA POMPEO MAGNO 23/A, presso lo

studio dell’avvocato GIAMPIERO PROIA, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MAURO PETRASSI;

– ricorrente –

contro

D.G.T., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COSSERIA

2, presso lo studio dell’avvocato RICCARDO FARANDA, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1624/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 28/02/2014 R.G.N. 3082/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/03/2019 dal Consigliere Dott. DE GREGORIO Federico;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato MATTEO SILVESTRI per delega verbale Avvocato

GIAMPIERO PROIA;

udito l’Avvocato RICCARDO FARANDA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso del 30 marzo 2010 ATAC S.p.A., quale incorporante TRAMBUS S.p.a., appellava la sentenza (n. 19722/08), pronunciata dal giudice del lavoro di Roma e pubblicata il 30 marzo 2009, con la quale era stata dichiarata ai sensi della L. n. 1369 del 1960, art. 1 la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra la società ATAC e l’appellato D.G.T. dal 2 novembre 1998, nonchè per l’effetto anche la nullità del contratto di formazione e lavoro stipulato tra le parti il 28 febbraio 2000, con diritto all’inquadramento del lavoratore nel sesto livello c.c.n.l. autoferronvieri (parametro 158) e aveva condannato la società convenuta al pagamento delle differenze retributive dal 18 dicembre 2000 sino alla data della domanda, da liquidarsi in separato giudizio.

La Corte d’Appello di Roma con sentenza n. 1624 in data 18 – 28 febbraio 2014 rigettava l’interposto gravame, condannando, inoltre, parte appellante al pagamento delle relative spese.

Avverso l’anzidetta pronuncia d’appello ha proposto ricorso per cassazione ATAC S.p.A. con atto del 27 febbraio 2015, affidato a quattro motivi, cui ha resistito il D.G. mediante controricorso del due – tre aprile 2015.

Le parti hanno poi depositato memorie illustrative ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso è stata denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360, n. 3 cit. codice, per omessa integrazione del contraddittorio nei confronti della società appaltatrice (TURISMO F.C. s.a.s.) al fine di una compiuta e completa istruzione del giudizio, nonchè violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 111 Cost., nella parte motiva del capo di sentenza in cui era stata respinta la richiesta di integrazione del contraddittorio nei confronti della società appaltatrice, tanto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. La sentenza impugnata, quindi, secondo la ricorrente, era anche viziata per non aver spiegato le ragioni in base alle quali l’intervento processuale della F. non era stato ritenuto necessario, così come dedotto dalla ATAC, con ciò violando, quindi, anche le norme a presidio della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali.

Con il secondo motivo la società ricorrente ha lamentato violazione e falsa applicazione della L. 23 ottobre 1960, n. 1369, art. 1 nonchè degli artt. 1362 c.c. e ss. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 – nonchè violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. in ordine alla valutazione delle risultanze istruttorie. Non erano stati applicati i principi di diritto vigenti in materia, secondo cui il divieto di intermediazione e d’interposizione nelle prestazioni di lavoro, sancito dalla L. 23 ottobre 1960, n. 1369, art. 1 opera nel caso in cui l’appalto abbia ad oggetto la messa a disposizione di una prestazione lavorativa, attribuendo all’appaltatore soli compiti di gestione amministrativa del rapporto in assenza di una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo, la cui esistenza peraltro non può essere esclusa avuto riguardo alla natura delle prestazioni in concreto affidate, ove la predisposizione dell’organizzazione del lavoro non sìa supportata da mezzi e capitali propri.

Nel caso di specie, invece, l’appalto doveva considerarsi assolutamente lecito, avendo ad oggetto non già la mera fornitura di manodopera, bensì di un’opera o di un servizio per la cui realizzazione l’appaltatore si avvaleva anche di prestazioni di lavoro da egli autonomamente dirette ed organizzate attraverso la propria struttura imprenditoriale. Vi era stato, inoltre, il conseguimento di un risultato produttivo autonomo. La corretta interpretazione del contratto di appalto nella specie non si era avuta, in quanto tale contratto aveva ad oggetto la fornitura di un servizio per la cui esecuzione e realizzazione era completamente rimessa l’appaltatore l’autonoma organizzazione, tra l’altro, delle prestazioni di lavoro dei propri dipendenti occupati nell’appalto medesimo. Risultava pacifico, per di più, trattandosi di circostanza mai contestata, il fatto che la società Turismo F.C. era un’impresa senz’altro genuina, in quanto dotata di una propria e autonoma organizzazione di capitali e di mezzi, funzionali all’esercizio proprio dell’attività di trasporto con autobus di persone. Nella fattispecie l’ATAC era rimasta del tutto estranea alla gestione di servizi appaltati, non avendo esercitato alcuna ingerenza volta colmare eventuali lacune dell’organizzazione dell’appaltatrice, sicchè la responsabilità della concreta ed effettiva esecuzione di servizi dipendeva esclusivamente dall’appaltatrice stessa, che aveva inoltre assunto su di sè il rischio della gestione di servizi ricevuti in appalto dall’altra. Dalle evidenziate emergenze risultava come la prestazione di lavoro dei conducenti dell’appaltatrice, lungi dal rappresentare l’oggetto dell’appalto, costituiva soltanto una delle molteplici attività che la F. era obbligata a fornire per la corretta esecuzione del servizio commissionatole in appalto, attraverso tutto il suo personale, diversamente impiegato nelle attività appaltate in relazione alle loro diverse competenze e mansioni. Inoltre, la Corte d’Appello aveva omesso completamente di considerare il fatto che la F.C. aveva assunto su di sè il rischio della gestione dei servizi avuti in appalto dall’ATAC (a suo carico infatti erano i costi per la pulizia giornaliera, per l’assicurazione obbligatoria e per il rimessaggio degli automezzi. Peraltro, quanto alla validità del contratto di formazione e lavoro, andava ribadito che le pregresse esperienze lavorative del D.G., limitate al servizio di trasporto diurno dei disabili e, solo in parte, al trasporto pubblico notturno di linea, non avrebbero mai potuto giustificare l’immediata assegnazione del lavoratore a mansioni di conducente di linea dell’azienda convenuta, preposta alla gestione dell’intero sistema di pubblico trasporto operante nella città di Roma) senza un preventivo ed adeguato periodi di formazione.

Come terzo motivo di ricorso è stata lamentata la violazione falsa applicazione dell’art. 1321 c.c., art. 1362 c.c. e ss., in relazione all’accordo collettivo aziendale dell’11 luglio 2000 e al verbale di accordo sindacale 24 marzo 2005, ciò in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, con riferimento all’elemento di riordino del sistema retributivo, c.d. E.R.S., che in base all’art. 2 dell’accordo sindacale 11-07-2000 era stato istituito per il solo personale in forza a tempo indeterminato alla data di stipula dello stesso accordo attuativo di quanto previsto dall’art. 3 dell’accordo nazionale 2 marzo 2000, laddove era stata ravvisata la necessità di procedere alla riclassificazione degli istituti salariali aziendali, nella prospettiva di realizzarne una semplificazione e razionalizzazione; per cui sarebbe stata definita a livello aziendale la quota delle voci salariali aziendali da riservare ai nuovi assunti, escludendo prioritariamente quelle non collegate a prestazioni effettivamente svolte e al premio di risultato di cui all’art. 6 del vigente c.c.n.l.. Ed era poi evidente che la concorde ricostruzione del significato e della portata dell’accordo 11 luglio 2000, a cura delle stesse parti che lo avevano stipulato, risultava determinante ai fini dell’individuazione della comune intenzione espressa nell’accordo stesso ai sensi dell’art. 1362 c.c., contrariamente, quindi, a quanto opinato al riguardo dalla Corte territoriale. Infatti, la volontà univocamente manifestata dalle parti, dalle stesse chiaramente confermata, era nel senso che nessuna assunzione successiva al due marzo 2000 poteva prevedere il riconoscimento dell’elemento mensile consolidato in quanto i lavoratori assunti dopo tale data non percepivano, di fatto, il trattamento retributivo aziendale confluito nell’ERS (accordo 24-3-2005). Ne derivava pure una gravissima alterazione del sinallagma e dell’equilibrio voluto dalle medesime parti, in contrasto anche con i principi di cui agli artt. 1366 e 1369 c.c..

Con il quarto motivo è stata inoltre denunciata la violazione e falsa applicazione del c.c.n.l. 23 luglio 1976 e dell’accordo collettivo nazionale del 12 luglio 1985, nonchè dell’art. 2126 c.c., tanto in relazione alla domanda riconvenzionale a suo tempo spiegata da essa società convenuta, avuto riguardo alla sentenza di questa Corte, n. 12661 in data 8 luglio 2004, che aveva affermato la nullità della contrattazione aziendale che, in deroga a quella nazionale, aveva previsto la riduzione dell’orario di lavoro settimanale dei dipendenti, da 39 a 37 ore, orario quest’ultimo pacificamente osservato anche dal D.G. durante il periodo successivo alla sua assunzione a tempo indeterminato, in epoca posteriore al contratto di formazione e lavoro. Di conseguenza in riconvenzionale, parte convenuta aveva chiesto, previa declaratoria di nullità della contrattazione aziendale circa le 37 ore settimanali, in luogo delle dovute 39, la condanna dell’attore alla restituzione di quanto per l’effetto indebitamente percepito, domanda però respinta in base ad erronea applicazione dell’art. 2126 c.c., “nè le conclusioni di primo grado risultanti riferite anche a prestazioni future, essendo l’accertamento richiesto funzionale alla domanda di restituzione, laddove inoltre l’art. 2126 riguarderebbe la sola retribuzione ordinaria, mentre la maggiorazione per il lavoro straordinario spetta soltanto ove in effetti sia stata resa una prestazione oltre il normale orario di lavoro. Dunque, l’Azienda aveva diritto di ripetere un vero e proprio pagamento indebito oggettivo.

Le anzidette censure vanno disattese.

Invero, la domanda dell’attore muoveva dall’assunto secondo cui il contratto di appalto, stipulato il 15 ottobre 1998 con la TURISMO F.C. s.a.s., avente ad oggetto i servizi di trasporto di disabili e di trasporto notturno nel Comune di Roma, in realtà andava qualificato in termini di interposizione fittizia di manodopera, vietata ai sensi della L. n. 1369 del 1960, art. 1 sicchè dal 2 novembre 1998 si era instaurato tra le parti un rapporto subordinato di lavoro tra il ricorrente e la società convenuta. Ne derivava che, licenziato il lavoratore dall’appaltatrice il 22 febbraio 2000, per essere immediatamente riassunto con lettera del 28 febbraio dello stesso anno dall’Atac, mediante contratto di formazione lavoro sino al 17 dicembre 2000, data di trasformazione del contratto in rapporto a tempo indeterminato, ed essendo emerso che le mansioni oggetto del nuovo contratto risultavano le stesse del precedente, in realtà andava dichiarata la sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato con la società Atac, sin dalla data di formale assunzione ad opera della F.C.. La sentenza appellata, inoltre, aveva rigettato la domanda riconvenzionale della società convenuta, che aveva chiesto la condanna dell’attore alla restituzione di quanto percepito indebitamente in virtù della illegittima riduzione dell’orario ordinario di lavoro da 39 a 37 ore settimanali, e ciò per effetto della nullità della contrattazione aziendale sull’orario di lavoro, la quale prevedeva un limite di 37, anzichè di 39 ore, entità per contro indicata dal contratto collettivo nazionale di lavoro.

Secondo la Corte capitolina, l’appello risultava infondato sulla base della corretta ed approfondita motivazione del primo giudicante, che collegio condivideva integralmente. In primo luogo, non sussisteva il litisconsorzio necessario dell’appaltatore, ipotizzato dall’appellante, trattandosi di cause scindibili.

Risultava poi immune da censure la valutazione del materiale probatorio acquisito, compiuta dalla sentenza appellata, avuto riguardo alle dichiarazioni rese in particolare dai testi C.R. e G.P.. Costoro avevano concordemente confermato il fatto che era lo stesso personale dell’azienda convenuta a stabilire e a comunicare i turni di lavoro agli autisti della appaltatrice TURISMO F.C. s.a.s., nonchè a decidere i periodi di ferie. Inoltre, il C. aveva precisato che sulla base delle esigenze degli utenti direttamente comunicava agli autisti eventuali variazioni del piano. In tale contesto era emerso, chiaramente, che la società appellante gestiva il rapporto di lavoro dell’appellato, direttamente impartendo al predetto le direttive datoriali e determinando il contenuto concreto della prestazione dal medesimo dovuta. Correttamente, inoltre, il Tribunale aveva affermato che il teste indicato dalla resistente, L.M., non essere pienamente, nè direttamente, a conoscenza dei fatti di causa. Costui, infatti, aveva dichiarato di non aver il compito di controllare il servizio disabili, ma che il controllo era affidato ad altro collega, cui il teste L. chiedeva conto.

Sulla scorta delle anzidette risultanze istruttorie, così sintetizzate nella sentenza di secondo grado, la Corte distrettuale riteneva di dover riconoscere prevalente rilievo alle modalità di svolgimento in concreto del rapporto, piuttosto che al dato formale del tenore delle clausole del contratto di appalto, sicchè risultava corretta la decisione impugnata, in punto di accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti, sin dalla data della formale assunzione dell’appellato ad opera della F..

Inoltre, il motivo di appello, relativo alla corresponsione dell’E.R.S., ex accordo dell’anno 2000, andava respinto, in quanto l’appellato, in base all’accertamento giudiziale con effetto ex tunc, rientrava tra il personale a tempo indeterminato all’epoca dell’accordo. Nè poteva darsi rilievo al successivo accordo del 2005, che non aveva natura interpretativa, provvedendo a modificare un accordo precedente di chiara lettura. Per giunta, I’ERS aveva sostituito precedenti indennità, “che spetterebbero ai lavoratori in caso di esclusione della nuova indennità”.

Andava, infine, respinto il motivo di gravame, relativo alla domanda riconvenzionale di restituzione delle somme percepite in più per effetto della nullità della contrattazione aziendale sull’orario di lavoro (37 ore anzichè 39), trovando piena applicazione nel caso in esame il principio di irripetibilità per effetto dell’art. 2126 c.c., visto inoltre che le conclusioni di primo grado non apparivano riferite anche alla prestazione futura, essendo funzionale l’accertamento richiesto alla domanda di restituzione.

Tanto premesso, il primo motivo è inammissibile, oltre che infondato. L’inammissibilità deriva dall’irrituale denuncia degli ipotizzati errores in procedendo, a parte ogni altra considerazione circa l’autosufficienza della doglianza ex art. 366 c.p.c., comma 1, avvenuta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, e non già univocamente in termini di nullità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 L’infondatezza dipende poi dal fatto che la censura è contraria alla prevalente giurisprudenza in materia, secondo cui nella specie non sussiste, comunque, alcun litisconsorzio necessario, che imponga l’integrazione del contraddittorio ex artt. 102 o 331 c.p.c. (Cass. sez. lav. n. 6214 del 23/06/1998: nelle controversie aventi ad oggetto situazioni di interposizione fittizia nella prestazione di lavoro, nelle quali il rapporto di lavoro intercorre apparentemente con l’appaltatore di manodopera – soggetto interposto -, ma sostanzialmente con l’appaltante, non sussiste litisconsorzio necessario tra interponente ed interposto; pertanto, nell’ipotesi in cui il giudizio vertente sulle richieste dei lavoratori nei confronti dell’interponente si sia svolto nei gradi di merito in contraddittorio anche con il soggetto interposto, la notificazione tardiva del ricorso in Cassazione a quest’ultimo non impone l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c..

Cass. sez. un. civ. n. 14897 del 22/10/2002: nel caso di domanda del lavoratore intesa ad accertare un’intermediazione illecita di manodopera e la sussistenza del rapporto lavorativo con il committente, quale effettivo datore di lavoro, deve escludersi la necessità dell’estensione del contraddittorio all’appaltatore, soggetto interposto, ai sensi dell’art. 102 c.p.c.. In tal caso, infatti, il lavoratore, agendo in giudizio, afferma l’esistenza di un rapporto con un certo datore di lavoro e ne nega uno diverso con altro soggetto, senza dedurre alcun rapporto plurisoggettivo nè alcuna situazione di contitolarità, mentre l’accertamento negativo del rapporto fittizio con il datore di lavoro interposto costituisce oggetto di questione pregiudiziale, conosciuta dal giudice in via soltanto incidentale, ovvero senza vincolare il terzo attraverso la cosa giudicata e senza alcuna lesione del suo diritto di difesa.

Conformi Cass. sez. un. civ. n. 15564 del 6/11/2002, Cass. lav. n. 81 in data 8/1/2003, n. 11795 del 2/8/2003, n. 13373 in data 11/9/2003, n. 15907 del 14/8/2004, n. 17643 del 29/7/2009.

V. ancora Cass. lav. n. 14510 del 23/12/1999, secondo cui nelle controversie aventi ad oggetto situazioni di interposizione fittizia nella prestazione di lavoro non sussiste litisconsorzio necessario tra interponente ed interposto, perchè la domanda del lavoratore diretta a fare accertare la sussistenza del rapporto di lavoro con il committente non comporta necessariamente anche una pronuncia di accertamento negativo, con efficacia di giudicato, nei confronti del soggetto interposto; pertanto, nell’ipotesi in cui il giudizio vertente sulle richieste dei lavoratori nei confronti dell’interponente si sia svolto nei gradi di merito in contraddittorio anche con il soggetto interposto, l’omessa notificazione a quest’ultimo del ricorso per cassazione non impone l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c..

Parimenti, secondo Cass. lav. n. 1733 del 16/2/2000, nel caso di domanda di un lavoratore avente ad oggetto differenze retributive e obblighi contributivi connessi ad un’interposizione fittizia nelle prestazioni di lavoro L. n. 1369 del 1960, ex art. 1 – domanda rivolta contro l’effettivo datore di lavoro -, il contraddittorio non deve essere esteso anche all’appaltatore o soggetto interposto. In tale ipotesi, infatti, le prestazioni previdenziali e retributive gravano solo sull’appaltante e non sull’appaltatore, poichè per legge – art. 1, u.c. Legge citata – ed a seguito della nullità, per illiceità dell’oggetto e della causa, del contratto fra committente ed appaltatore i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’imprenditore che ne abbia utilizzato le prestazioni.

Cass. lav. n. 10841 del 16/08/2000: l’accertamento incidentale della simulazione soggettiva del contratto non impone l’integrazione del contraddittorio; infatti, potendo tale accertamento compiersi e produrre i suoi effetti tra le parti del processo senza necessità di chiamare in giudizio il terzo, non ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario.

Cfr. altresì Cass. III civ. n. 10490 in data 8/5/2006, secondo cui la fattispecie della simulazione – assoluta o relativa – integra ipotesi di litisconsorzio necessario solamente nel caso in cui il relativo accertamento risulti proposto in via principale, e non anche quando debba ad esso procedersi in via meramente incidentale -nella specie ivi esaminata, nell’ambito di procedimento volto all’accertamento della nullità del contratto, in tal caso pertanto non imponendosi la necessità di eventuale integrazione del contraddittorio.

Cfr. ancora Cass. sez. un. civ. n. 22910 del 26/10/2006: nelle prestazioni di lavoro cui si riferiscono – prima dell’intervenuta abrogazione ad opera del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 85, comma 1, lett. c) – la L. 23 ottobre 1960, n. 1369, art. 1, primi tre commi (divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego della manodopera negli appalti di opere e di servizi), la nullità del contratto fra committente ed appaltatore (o intermediario) e la previsione dello stesso articolo, u.c. – secondo cui i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’imprenditore che ne abbia utilizzato effettivamente le prestazioni – comportano che solo sull’appaltante (o interponente) gravano gli obblighi in materia di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro, nonchè gli obblighi in materia di assicurazioni sociali, non potendosi configurare una (concorrente) responsabilità dell’appaltatore (o interposto) in virtù dell’apparenza del diritto e dell’apparente titolarità del rapporto di lavoro, stante la specificità del suddetto rapporto e la rilevanza sociale degli interessi ad esso sottesi. Cass. lav. n. 2372 del 5/2/2007).

Per completezza, inoltre, va ricordato che la chiamata del terzo disposta, ex art. 106 c.p.c., ad istanza di parte è rimessa alla esclusiva valutazione discrezionale del giudice del merito, sicchè l’esercizio del relativo potere non può formare oggetto d’impugnazione, nè, tantomeno, è sindacabile nel giudizio di appello e in quello di legittimità (Cass. II civ. n. 984 del 19/01/2006, conformi Cass. n. 3759 del 1993, n. 12506 del 29/05/2007, nonchè Sez. lav. n. 15693 del 3/7/2009).

Anche il secondo motivo va disatteso, tenuto conto in primo luogo che con lo stesso inammissibilmente si pretende, in effetti, riesaminare le valutazioni delle risultanze istruttorie acquisite agli atti del giudizio in senso difforme da quanto al riguardo invece apprezzato dalla Corte di merito, la quale alla stregua di quanto devolutole con l’interposto gravame, perciò nei limiti dei motivi all’uopo addotti (così come correttamente puntualizzati nella sentenza qui impugnata, – considerato, peraltro, come è ormai ben noto, l’appello quale revisio prioris instatiae e non già novum judicium), senza pretermettere l’esame di alcuna circostanza fattuale e decisiva, ha ritenuto motivatamente di condividere le valutazioni in proposito svolte dal primo giudicante circa la riconosciuta prevalenza di quanto in concreto verificatosi in sede di esecuzione del rapporto di lavoro de quo, piuttosto che al dato formale emergente dalle clausole del contratto d’appalto, donde l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti (attore e società convenuta). La contestata valutazione di merito, peraltro, trova riscontro in punto di fondatezza in altri analoghi precedenti esaminati da questa Corte, pressochè identici a quello oggetto della causa di cui è processo in questa sede, pienamente condivisi da questo collegio giudicante (cfr. in part. Cass. lav., sentenza n. 11534 del in data 13/03 – 14/05/2013, che rigettava il ricorso per cassazione di TRAMBUS S.p.a., dichiarando peraltro inammissibile l’intervento di ATAC S.p.a., avverso la pronuncia n. 5078/07, della CORTE D’APPELLO di ROMA, pubblicata il 19/11/2007. Nella specie, il giudice del lavoro della capitale aveva dichiarato, ai sensi della L. n. 1369 del 1960, art. 1, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra l’Atac – Aziende Tramvie e Autobus del Comune di Roma e i ricorrenti, condannando la parte datoriale al pagamento delle retribuzioni globali di fatto maturate dal 13.7.1999 alla data di ripristino del rapporto, oltre accessorie, nonchè alla regolarizzazione previdenziale e assicurativa. Quindi, con sentenza del 22.6 – 19.11. 2007, la Corte d’Appello, pronunciando sui gravami proposti dalla Atac spa e dalla Trambus spa, società originatesi dalla scissione dell’Atac, dichiarò inammissibile quello dell’Atac spa e rigettò quello della Trambus spa. A sostegno del decisum la Corte territoriale rilevava che: – gli originari ricorrenti avevano allegato di essere stati assunti dalla Turismo F.C. sas e di avere prestato la propria attività come autisti addetti ai servizi di linea notturni ed al servizio diurno di trasporto dei disabili, appaltato dall’Atac alla prima società dalla quale erano stati formalmente assunti; – dalle emergenze istruttorie era emerso che la gestione organizzativa del servizio appaltato veniva effettuata interamente dall’Atac, la cui centrale operativa predisponeva i turni dei ricorrenti, i quali durante il servizio rimanevano costantemente collegati via cellulare con essa, dalla quale provenivano altresì le indicazioni su eventuali modifiche di percorso e sui disabili da prelevare e accompagnare; i piani ferie erano predisposti dall’Atac per conto della F., tenendo presenti le esigenze del servizio; era sempre l’addetto Atac, inoltre, che in caso di guasti dei mezzi – di proprietà dell’azienda e non della Turismo F.C. – a predisporre la sostituzione delle autovetture da adibire al servizio; – F. decideva chi mandare a svolgere il servizio, ma non interveniva per la gestione operativa del servizio stesso, mentre le intrinseche modalità di esecuzione del servizio facevano invece capo all’Atac; – alla ditta appaltatrice era infatti riservata la gestione amministrativa dei rapporti di lavoro in oggetto; – quanto al rischio economico a carico dell’impresa appaltatrice, lo stesso era risultato fortemente ridimensionato dalla circostanza che gli strumenti fondamentali – di obiettiva maggiore incidenza di costi e cioè gli autobus – erano forniti dall’Atac, mentre la società appaltatrice si occupava della manutenzione, del rifornimento, dell’assicurazione e del rimessaggio; -in tale contesto non era dirimente la circostanza che la società appaltatrice avesse comunque un’organizzazione autonoma di capitali e mezzi, poichè anche in presenza di un’effettiva realtà imprenditoriale, l’appalto può in concreto atteggiarsi come mera intermediazione di mano d’opera, laddove, con riferimento agli appalti cosiddetti endoaziendali, caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo ad esso i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto, ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo; -doveva quindi confermarsi l’accertamento di prime cure in ordine all’esistenza dell’illecita intermediazione di mano d’opera di cui alla L. n. 1369 del 1960, art. 1 e, quindi, la sussistenza originaria e la persistenza dei rapporti di lavoro in capo alla società appaltante.

Avverso la suddetta sentenza della Corte territoriale, la S.p.a. Trambus aveva, quindi, proposto ricorso per cassazione fondato su quattro motivi. La soc. Atac si era costituita con controricorso aderendo ai motivi di impugnazione, sicchè in quanto meramente adesivo al ricorso, andava qualificato come ricorso incidentale di tipo adesivo. Previa riunione con quello principale ai sensi dell’art. 335 c.p.c., ne era preliminarmente rilevata l’inammissibilità per carenza di interesse, non essendo stata impugnata la declaratoria della sentenza impugnata di inammissibilità del gravame proposto dalla stessa Atac spa, siccome “non diretta destinataria del comando della sentenza ovviamente di prime cure, nè succeduta alla originaria convenuta” e, come tale, non portatrice di “alcun interesse a rimuovere una statuizione priva di riflessi nei suoi confronti”.

Quindi, nel merito, circa l’asserita violazione della L. n. 1369 del 1960, su cui vertevano i primi due motivi di ricorso, questa Corte rilevava che, alla luce della elaborazione giudiziale di legittimità formatasi sul tema, era possibile individuare, specie nella produzione più recente, l’elemento comune rappresentato sostanzialmente dal rilievo che l’appalto di cui si discute è illecito tutte le volte in cui non è l’appaltatore a gestire concretamente il rapporto di lavoro, bensì l’appaltante. Infatti, secondo Cass. nn. 14996/2005, 11120/2006, 18281/2007, il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro, sancito dalla L. n. 1369 del 1960, art. 1, opera nel caso in cui l’appalto abbia ad oggetto la messa a disposizione di una prestazione lavorativa, attribuendo all’appaltatore i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto, senza una reale organizzazione della prestazione stessa finalizzata ad un risultato produttivo autonomo. Inoltre, richiamate le pronunce di Cass. nn. 7089/2000, 14302/2002, 12363/2003 e 16016/2007 – veniva ricordato che il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro, in riferimento agli appalti endoaziendali, opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore – datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto, ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo.

Ancora, sempre in base alla giurisprudenza di questa Corte, non occorreva, per aversi intermediazione vietata, che l’impresa appaltatrice fosse una impresa fittizia, essendo invece sufficiente che la stessa non fornisca una propria organizzazione di mezzi in relazione al particolare servizio appaltato (cfr. ex plurimis, Cass., nn. 5087/1998; 11120/2006); al contempo, una volta accertata l’estraneità dell’appaltatore all’organizzazione e direzione dei prestatori di lavoro nell’esecuzione dell’appalto, era del tutto ultronea qualsiasi questione inerente al rischio economico e all’autonoma organizzazione dell’appaltatore medesimo, rimanendo comunque esclusa, da parte di quest’ultimo, per la rilevata estraneità, una reale organizzazione della prestazione stessa finalizzata ad un risultato produttivo autonomo, se del caso anche relativamente ad un solo segmento del complessivo servizio appaltato (Cass. 12363/2003). Dunque, doveva ritenersi, secondo la giurisprudenza di legittimità, che, in tema di cosiddetti appalti endoaziendali, il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro, di cui alla L. n. 1369 del 1960, art. 1, opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore – datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto, senza una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo, non essendo necessario, per realizzare un’ipotesi di intermediazione vietata, che l’impresa appaltatrice sia fittizia, atteso che, una volta accertata l’estraneità dell’appaltatore all’organizzazione e direzione del prestatore di lavoro nell’esecuzione dell’appalto, rimane priva di rilievo ogni questione inerente al rischio economico e all’autonoma organizzazione del medesimo (Cass., nn. 11720/2009; 17444/2009). La Corte territoriale, nei termini già diffusamente esposti nello storico di lite, si era sostanzialmente conformata a tali principi, onde deve essere esclusa la fondatezza dei primi due motivi di ricorso. In ordine al terzo e al quarto motivo, con i quali erano stati denunciati vizi di motivazione, andava osservato che: secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, il compito di valutare le prove e di controllarne l’attendibilità e la concludenza, nonchè di individuare le fonti del proprio convincimento scegliendo tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti, spetta in via esclusiva al giudice del merito; di conseguenza, la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove, non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, restando escluso che le censure concernenti il difetto di motivazione possano risolversi nella richiesta alla Corte di legittimità di una interpretazione delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito (tra le tante, Cass., nn. 27464/2006; 3994/2005; 11933/2003; 5231/2001; 9716/2000; 6023/2000); -non sussisteva la contraddittorietà denunciata, avendo la Corte territoriale spiegato in termini del tutto lineari ed intelligibili che la ditta appaltatrice non interveniva tuttavia nella gestione operativa del servizio stesso, laddove le intrinseche modalità di esecuzione del quale facevano invece capo all’Atac; – ininfluente ai fini di configurare il preteso vizio di motivazione, anche alla luce dei già ricordati orientamenti giurisprudenziali in tema di intermediazione illecita nell’ambito degli appalti endoaziendali, doveva ritenersi la denunciata mancata considerazione, da parte della Corte territoriale, di talune specifiche circostanze fattuali – quali il dedotto esercizio da parte dell’appaltatrice di taluni poteri direttivi e disciplinari -, non trattandosi di elementi dotati, di per sè, di rilevanza decisiva, ma, piuttosto, di fatti valutabili soltanto nell’ambito di un più complesso percorso argomentativo; -considerazioni analoghe valevano anche per la dedotta omessa considerazione di specifiche circostanze inerenti all’individuazione dei margini di rischio gravanti sull’appaltatrice, essendo riconducibile al notorio la maggiore incidenza del valore dei mezzi impiegati nel caso di specie rispetto ai costi relativi alla loro manutenzione, al rimessaggio e al rifornimento del carburante, e, al contempo, costituendo le circostanze dedotte elementi in sè privi di portata decisiva nel senso già precisato, una volta ritenuta, come nella specie, la mancanza, nell’attività dell’appaltatrice, di una reale organizzazione della prestazione finalizzata ad un risultato produttivo autonomo. In definitiva il ricorso principale andava rigettato, mentre veniva dichiarato inammissibile il ricorso incidentale adesivo della S.p.a. ATAC).

Le anzidette precedenti argomentazioni, pertanto, ben si attagliano alle doglianze espresse con il secondo motivo della ricorrente ATAC S.p.a., di guisa che le relative censure vanno senz’altro disattese.

Analogamente va detto per quanto concerne il terzo ed il quarto motivo, concernente I’E.R.S. di cui agli accordi sindacali in data 11 luglio 2000 e 24 marzo 2005, laddove la Corte capitolina rigettava il gravame mediante richiamo dei principi già enunciati sull’argomento da questa Corte, sezione lavoro, citando espressamente la sentenza n. 18553/2012, che infatti in data 26/09 – 29/10/2012 aveva respinto analogo ricorso di ATAC S.p.a. (quale incorporante di TRAMBUS S.p.a.), avverso altra pronuncia della Corte d’Appello di Roma n. 1346/10, pubblicata il 30/03/2010, la quale confermando la sentenza di primo grado, accoglieva la domanda di G. M., proposta nei confronti della società TRAMBUS, avente ad oggetto la declaratoria della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin dall’assunzione, avvenuta nel marzo del 2000, con contratto di formazione lavoro e tanto per difetto di formazione con conseguente condanna del datore di lavoro al pagamento delle relative differenze retributive. La stessa Corte distrettuale, inoltre, aveva rigettato la domanda riconvenzionale, volta ad ottenere la declaratoria dell’obbligo del lavoratore istante ad osservare un orario di lavoro di 39 ore settimanali in luogo delle 37 ore prestate, con condanna del lavoratore restituire quanto indebitamente percepito a titolo di lavoro straordinario. Infatti, la Corte di merito aveva posto a base del decisum, innanzitutto, il rilievo secondo il quale la formazione era mancata del tutto, sicchè, in applicazione dell’orientamento di Cass. n. 2247/2006, aveva dichiarato la trasformazione, fin dall’inizio, del rapporto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Inoltre, aveva ritenuto dovuta la corresponsione dell’ERS, di cui all’accordo del 2000, in quanto, per effetto della rilevata trasformazione del rapporto con effetto ex tunc, il G. rientrava tra il personale a tempo indeterminato all’epoca della stipula del detto accordo. Nè, poteva darsi rilievo al successivo accordo del 2005, avendo questo natura innovativa.

Respingeva, infine, la Corte territoriale, la domanda riconvenzionale di restituzione delle somme corrisposte in più per effetto della nullità del contratto aziendale sull’orario di lavoro, trovando piena applicazione il principio dell’irrepetibilità di cui all’art. 2126 c.c.. Nè, per la Corte capitolina, le conclusioni di primo grado erano riferibili anche alla prestazione futura, essendo funzionale l’accertamento richiesto alla domanda riconvenzionale.

Di conseguenza, ATAC, quale incorporante della Trambus, aveva proposto ricorso per cassazione sulla base di tre censure. Orbene, con il primo motivo la ricorrente, deducendo violazione dell’art. 12 disp. gen. in relazione al D.L. n. 726 del 1984, art. 3 convertito nella L. n. 863 del 1984, criticava la sentenza impugnata per non aver tenuto della ratio legis in base alla quale il contratto di formazione lavoro, non mira tanto a fornire ai giovani una formazione, quanto a favorire la costituzione di rapporti di lavoro, come dimostrato anche dal D.Lgs. n. 276 del 2003 dove è stato previsto, appunto, il contratto d’inserimento, donde la non essenzialità della formazione e, quindi, la non correttezza giuridica della sentenza impugnata. Cass. n. 18533/12 richiamava, quindi, quanto ripetutamente affermato da questa Corte in tema di contratto di formazione e lavoro, per cui l’inadempimento degli obblighi di formazione determina la trasformazione, fin dall’inizio, del rapporto in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, qualora l’inadempimento abbia un’obiettiva rilevanza, concretizzandosi nella totale mancanza di formazione, teorica e pratica, ovvero in una attività formativa carente o inadeguata rispetto agli obiettivi indicati nel progetto di formazione e quindi trasfusi nel contratto. In questa seconda ipotesi il giudice deve valutare in base ai principi generali la gravità dell’inadempimento, giungendo alla declaratoria di trasformazione del rapporto (tra le altre, Cass. 1 febbraio 2006 n. 2247, Cass. 7 agosto 2004 n. 15308; Cass. 4 ottobre 2004 n. 19846). La gravata sentenza che, sul rilievo della totale mancanza di formazione, aveva ritenuto la gravità dell’inadempimento e conseguentemente dichiarato la trasformazione del rapporto di lavoro, era, pertanto, corretta in diritto. Nè poteva indurre a diverse conclusioni il richiamo al contratto d’inserimento – di cui alla legge D.Lgs. n. 276 del 2003 – riguardando la fattispecie esaminata un contratto del tutto diverso. Con la seconda censura, poi, la società ricorrente, denunciando violazione dell’art. 1321 c.c., dell’art. 1362 c.c. e segg. in relazione all’accordo aziendale 11 luglio 2000 ed al verbale di accordo 24 marzo 2005, aveva sostenuto che la Corte del merito aveva erroneamente ritenuto, quanto alla spettanza dell’ERS – elemento di riordino del sistema retributivo, che l’accordo d’interpretazione autentica del 24 marzo 2005 – in base al quale veniva esclusa la corresponsione di detto ERS a coloro i quali, come il G., al momento della stipula del precedente accordo del 2000 non erano lavoratori subordinati a tempo indeterminato – aveva natura innovativa. La censura non era condivisibile. Il decisum sul punto della sentenza impugnata si fondava, essenzialmente, sulla considerazione che, in conseguenza della trasformazione del rapporto a tempo indeterminato con efficacia ex tunc, il G. era all’epoca dell’accordo a tutti gli effetti giuridici ed economici dipendente a tempo indeterminato e come tale rientrante nel “personale in forza a tempo indeterminato alla data della stipula dell’accordo” al quale, secondo detto accordo, spettava la corresponsione del c.d. ERS. Per contro, secondo l’appellante, al dipendente G. non sarebbe spettato l’ERS, poichè con successivo accordo del 2005 le parti, interpretando in via autentica, la precedente intesa del 2000, avevano escluso dalla corresponsione dell’ERS coloro i quali non erano formalmente dipendenti a tempo indeterminato all’epoca della stipula dell’accordo del 2000. Orbene, secondo Cass. n. 18533/12, la stessa prospettazione della società confermava l’esattezza dell’affermazione della Corte d’Appello, secondo la quale l’accordo del 2005 non aveva natura interpretativa, bensì innovativa. Infatti, affinchè un negozio giuridico successivo possa ritenersi interpretativo di un precedente negozio giuridico è necessario, al di là delle espressioni qualificatorie utilizzate dalle parti, che la volontà esplicitata nell’ultimo negozio sia desumibile anche dal precedente, viceversa la nuova intesa è innovativa e non interpretativa. Avuto riguardo al caso di specie, il Collegio non riteneva che la volontà di limitare la corresponsione dell’ERS solo ai lavoratori che al marzo del 2000 risultanti formalmente dipendenti a tempo indeterminato, con esclusione di quelli divenuti tali per effetto di successivo riconoscimento giudiziale, fosse desumibile dall’accordo del 2000, non essendovi alcuna clausola contrattuale che legittimasse una siffatta ricostruzione della volontà delle parti. Nè la società ricorrente l’aveva indicata, essendosi limitata a tal fine a prospettare le ragioni storiche che avevano indotto le parti alla previsione dell’ERS. Tanto, tuttavia, non era sufficiente, atteso che la volontà l’esplicitata nell’intesa del 2005 non trovava alcun riscontro nè nella specifica previsione, nell’accordo del 2000, dell’ambito di applicazione del contratto – dove si faceva riferimento al “personale in forza a tempo indeterminato alla data di stipula del presente accordo” – nè in altre clausole collettive. La ratio posta a base dell’accordo del 2005, come prospettata dalla stessa società ricorrente era, all’evidenza, del tutto estranea all’accordo del 2000 ed era funzionale all’esigenza di far fronte ad una situazione venutasi a creare dopo l’accordo del 2000. Tutte le ulteriori questioni di cui alla memoria difensiva non erano esaminabili perchè inerenti ad accertamento di fatti sottratti come tali al sindacato del giudice di legittimità e riguardanti profili, comunque, non censurati con il ricorso.

Infine, con la terza critica la società, allegando violazione del c.c.n.l. 23 luglio 1976, dell’accordo collettivo 12 luglio del 1985 e dell’art. 2126 c.c. aveva dedotto che, stante la nullità, ex sentenza n. 12661 del 2004 di questa Corte, della contrattazione aziendale (accordo 18 luglio 1983) – la quale aveva previsto una riduzione dell’orario di lavoro da 39 ore settimanali a 37 ore – erroneamente la Corte del merito aveva ritenuto l’errata applicazione dell’art. 2126 c.c. nonchè l’irripetibilità di quanto corrisposto al G. per lavoro straordinario in relazione alle ore lavorate tra la 37 e la 39, nonchè l’infondatezza della declaratoria dell’obbligo di prestare per il futuro attività lavorativa per 39 ore. Anche tale doglianza veniva però disattesa dalla succitata pronuncia n. 18555/12, per giunta pure richiamata nella sentenza de qua (n. 1624/14), poichè non era condivisibile, innanzitutto, che l’art. 2126 c.c. fosse riferibile alla sola retribuzione ordinaria, e non anche quella corrisposta per lavoro straordinario. La norma in parola, infatti, mirava a salvaguardare tutti gli effetti economici della prestazione lavorativa già eseguita e non solo, quindi, quella afferente all’lavoro prestato durante l’orario ordinario. In secondo luogo, a fronte di un’interpretazione della domanda riconvenzionale da parte del giudice del merito -secondo il quale le conclusioni di primo grado non erano riferibili anche alla prestazione futura “essendo funzionale l’accertamento richiesto alla domanda di restituzione”- la società ricorrente, per correttamente investire la Corte di legittimità dell’asserita erroneità dell’interpretazione, avrebbe dovuto dedurre sul punto un difetto di motivazione della sentenza impugnata, richiamando in proposito i principi di diritto affermati da Cass. 6 ottobre 2005 n. 19475, 6 febbraio 2006n. 2467, nonchè in particolare Cass. 12 ottobre 1998 n. 10101 – seguita da Cass. 25 settembre 2002 n. 13945, in tema di vizio di motivazione, peraltro secondo la formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 ratione temporis all’epoca vigente.

Sulla base delle esposte considerazioni, pertanto, il ricorso di ATAC veniva respinto dalla più volte richiamata pronuncia di Cass. n. 18553/26.9 – 29.10.12, i cui orientamenti interpretativi, inoltre, sono stati ribaditi da varie pronunce di questa Corte (v. tra le altre Cass. nn. 20598/12, 20761/12, 16445/13, 17606/14, 21707/14, 27383/14, nonchè da Cass. VI civ. – L n. 4876/23 feb. – 11 mar. 2016), rese in fattispecie del tutto analoghe a quella di cui è processo in questa sede, qui pure condivise ed alle quali per l’effetto integralmente si rimanda.

Peraltro, circa la questione dell’ERS di cui al terzo motivo, va pure osservato come la sentenza di primo grado (v. il dispositivo trascritto alle pagine 8 e 9 del ricorso per cassazione), confermata mediante il rigetto dell’interposto gravame, in ordine al quantum spettante all’attore per differenze retributive, dovute dal 18 dicembre 2000 sino al momento del deposito del ricorso introduttivo del giudizio, si fosse limitata a rinviare la loro liquidazione ad un separato giudizio, nel corso del quale evidentemente viene in rilievo, specificamente ed in concreto, il riconoscimento, o meno, di apposito diritto di credito sul punto. Al riguardo, inoltre, va rilevato che parte ricorrente, pur avendo ritualmente prodotto ex art. 369 c.p.c. la documentazione occorrente (cfr. pagg. 12 e 13 del ricorso: contratto aziendale 11-7-2000, accordo sindacale 24 marzo 2005, c.c.n.l. 23 luglio 1976, accordo collettivo nazionale 12 luglio 1985, accordo collettivo nazionale 16 giugno 2003 e contratto di appalto tra ATAC e F.C. del 15 ottobre 2008), non ha tuttavia compiutamente riprodotto, ai sensi e per gli effetti dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, gli accordi sindacali per i quali si assume la violazione degli artt. 1321 nonchè 1362 c.c. e ss. (in part. per l’accordo di luglio 2000 sono riportate unicamente le parole “per il solo personale in forza a tempo determinato alla data di stipula del presente accordo” – v. altresì le parziali e poco significative citazioni a pag. 42 per l’art. 3 dell’accordo 2 marzo 2000, a pag. 43 per l’art. 1 dell’accordo aziendale 11-7-2000, nonchè per il successivo art. 2 “fermo restando quanto previsto dal precedente art. 1, a decorrere dal mese di agosto 2000 viene istituito, per il solo personale in forza a tempo determinato alla data di stipula del presente accordo, un emolumento mensile consolidato denominato Elemento di Riordino del Sistema Retributivo (ERS)”, nonchè a pag. 46 per il verbale sindacale del 24 marzo 2005 di pretesa interpretazione autentica con riferimento all’accordo 11-7-2000 e alla clausola n. 3 dell’accordo nazionale 2 marzo 2000, da parte di FILT CGIL, FIT CISL, UIL TRASPORTI, FAISA CISAL e UGL TRASPORTI, cioè dei sindacati dei soli lavoratori, che avevano sottoscritto l’accordo di luglio 2000).

Nè si vede come atti negoziali intervenuti (peraltro successivamente, nel caso qui in esame negli anni 2000 e 2005) tra soggetti privati, quali sono anche le organizzazioni sindacali, possano limitare, o pregiudicare, gli effetti di una pronuncia di accertamento giudiziale, in termini di nullità, quindi con portata retroattiva (nella specie fin dal novembre 1998, ancorchè poi con mera decorrenza economica posteriore, da dicembre 2000), emessa nei confronti di altri soggetti di diritto.

Quanto, infine, segnatamente in relazione al quarto e ultimo motivo di ricorso, ad integrazione degli argomenti svolti dai succitati precedenti giurisprudenziali di legittimità, in base ai quali analoghe censure venivano disattese, va segnalato che – a parte ogni altra questione di stretto merito circa la prova, nello specifico caso qui in esame, del pagamento asseritamente corrisposto a titolo di straordinario di cui veniva chiesta la restituzione – irritualmente è stata denunciata la violazione di legge e di contrattazione collettiva, ex art. 360 c.p.c., n. 3 (v. art. 52 e ss. del ricorso de quo) per la parte in cui la società istante si duole in effetti di una errata interpretazione della sua domanda spiegata in via riconvenzionale (contestando quindi l’argomentazione secondo cui le conclusioni di tale riconvenzionale non risultavano riferite anche alla prestazione futura, essendo funzionale l’accertamento richiesto alla domanda di restituzione).

Posto, dunque, che la cesura al riguardo mossa inerisce, chiaramente, ad un eventuale error in procedendo per falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., la stessa, peraltro verso, nemmeno è sussumibile nell’ipotesi contemplata dall’art. 360 c.p.c., n. 5, secondo il testo attualmente vigente in relazione alla sentenza impugnata, pronunciata e pubblicata nel febbraio dell’anno 2014. La censura, quindi, andava debitamente formulata univocamente in termini di nullità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ciò che non risulta avvenuto neanche dalla illustrazione della doglianza, perciò inammissibile per come invece dedotta (cfr. Cass. II civ. n. 10862 del 7/5/2018: il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 con riguardo all’art. 112 c.p.c., purchè il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge. V. analogamente Cass. sez. un. civ. n. 17931 del 2013, nonchè II civ. n. 24247 del 29/11/2016.

V., inoltre, Cass. Sez. 6 – 3, ordinanza n. 22598 del 25/09/2018, secondo cui in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6, e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione – per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile – e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. In senso conforme, tra le altre, Cass. III civ. n. 23940 del 12/10/2017 e Sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014).

Pertanto, il ricorso va respinto con conseguente condanna della parte rimasta soccombente al rimborso delle relative spese. Atteso l’esito negativo dell’impugnazione, – sussistono i presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore di parte controricorrente nella misura di complessivi Euro 4500,00 (quattromilacinquecento/00), per compensi ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge, con attribuzione all’avv. Riccardo Faranda, antistatario. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 20 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2020

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA