Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9767 del 04/05/2011

Cassazione civile sez. lav., 04/05/2011, (ud. 15/12/2010, dep. 04/05/2011), n.9767

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. AMOROSO Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 329/2007 proposto da:

I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI

INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE N. 144,

presso lo studio degli avvocati OTTOLINI Teresa, VUOSO LUCIO, che lo

rappresentano e difendono giusta, delega in atti;

– ricorrente –

contro

S.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO 50,

presso lo studio dell’avvocato COSSU Bruno, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato CESTER CARLO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 813/2005 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 17/12/2005 R.G.N. 703/03;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

15/12/2010 dal Consigliere Dott. GIOVANNI AMOROSO;

udito l’Avvocato PONTONE MICHELE per delega OTTOLINI TERESA;

udito l’Avvocato COSSU BRUNO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con ricorso depositato il 6.2.2002 S.B. adiva il Giudice Unico del Lavoro del Tribunale di Treviso chiedendo dichiararsi la nullità, l’inefficacia o l’illegittimità del licenziamento intimatogli con lettera ricevuta il 5.1.2001 e condannarsi l’Inail, Istituto datore di lavoro, a reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro presso la sede di Vicenza e a versare allo stesso tutte le retribuzioni maturate dalla data del licenziamento alla reintegra.

Esponeva il ricorrente che il licenziamento disciplinare impugnato era nullo per vizi formali, ed in principalità per inosservanza dei termini per l’irrogazione della sanzione. Deduceva che in ogni caso il licenziamento non era sorretto da giusta causa o giustificato motivo.

L’Inail si costituiva in giudizio sostenendo la piena legittimità formale e sostanziale del licenziamento, motivato in base a sentenza di condanna penale del dipendente.

All’udienza del 14.2.2003 il giudice unico del lavoro del Tribunale di Treviso decideva la causa con sentenza 14.2.2003/28.3.2003 n. 60 dichiarando l’illegittimità del licenziamento impugnato, disponendo la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro e condannando l’Inail a risarcire al ricorrente il danno L. n. 300 del 1970, ex art. 18, con rifusione delle spese di causa nei confronti dell’Istituto soccombente. Il giudice di primo grado riteneva sussistente il vizio formale del procedimento disciplinare costituito dall’inosservanza dei termini per l’irrogazione della sanzione, ai sensi dell’art. 27, comma 3, del c.c.n.l. per i dipendenti degli enti pubblici non economici nonchè dell’art. 6, comma 1, del Regolamento di disciplina adottato dall’Inail. Specificatamente, il procedimento disciplinare non si era concluso nel termine di trenta giorni dalla data fissata per l’audizione del dipendente.

2. Con ricorso depositato il 13.10.2003 l’Inail ha proposto appello avverso la citata sentenza.

L’appellante ha addotto, a motivi di impugnazione, l’errata interpretazione, da parte del giudice di primo grado, delle norme del cit. c.c.n.l. e del codice disciplinare richiamate nella sentenza impugnata. Ha sostenuto che il termine di trenta giorni (quindici per infliggere la sanzione, oltre quindici dalla data fissata per l’audizione a difesa) trovava applicazione solo nell’ipotesi in cui il lavoratore non si fosse presentato ovvero non avesse svolto attività defensionale. Nel caso di specie, il dipendente, pur non presentandosi all’audizione, aveva fatto pervenire in un momento successivo le proprie deduzioni, talchè risultava applicabile la regola generale secondo cui il procedimento disciplinare doveva concludersi entro 120 giorni dalla data di contestazione dell’addebito. Ha altresì dedotto l’Istituto appellante che la sentenza impugnata era censurabile nella parte in cui aveva ritenuto determinante, ai fini del rispetto del termini per a chiusura del procedimento disciplinare, la comunicazione al dipendente del provvedimento sanzionatorio, senza attribuire rilievo alla data di adozione dello stesso da parte della Pubblica Amministrazione.

Si è costituito il S. mediante deposito di memoria difensiva chiedendo nel merito la conferma integrale della sentenza impugnata.

L’appellato ha rilevato che l’interpretazione accolta dal Giudice di primo grado era pienamente corretta e che nel corso del giudizio di primo grado l’Inail non aveva mai richiamato il termine di 120 giorni; sotto tale ultimo profilo, eccepiva che si trattava di nuova prospettazione in fatto, da ritenersi inammissibile, e che in ogni caso la prospettazione in diritto era infondata. Infine l’appellato richiamava le argomentazioni espresse in primo grado, circa la sussistenza di tutti gli altri vizi formali e sostanziali del licenziamento dedotti con il ricorso ex art. 414 c.p.c. e non esaminati nella sentenza impugnata perchè ritenuti assorbiti.

Con sentenza del 27 settembre – 29 novembre 2005 la Corte d’appello di Venezia ha rigettato l’appello condannando l’Istituto appellante al pagamento delle spese di lite.

3. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione l’INAIL con tre motivi.

Resiste con controricorso la parte intimata che ha depositato anche memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso è articolato in tre motivi.

Con il primo motivo l’Istituto ricorrente denuncia la violazione dell’art. 27, comma 3, del c.c.n.l. del comparto del personale dipendente degli enti pubblici non economici del 6 luglio 1995.

Secondo l’istituto ricorrente non può ritenersi che il procedimento disciplinare in oggetto abbia alcuno dei termini posti a tutela del dipendente dalla contrattazione collettiva di riferimento sia per la tempestiva notifica degli atti in questione sia comunque per la non perentorietà dei termini stessi. Ha quindi formulato il seguente quesito di diritto: “dica la Corte se il termine previsto dall’art. 27, comma 3, del contratto collettivo del comparto del personale dipendente degli enti pubblici non economici, sottoscritto in data 6 luglio 1995 e pubblicato sul supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale serie generale n. 211 del 9 settembre 1995, debba essere considerato perentorio per cui se la sanzione disciplinare non viene applicata entro il termine di 15 giorni decorrente dal 15 giorno successivo alla data di convocazione del dipendente interessato il procedimento disciplinare si estingue”.

Con il secondo motivo l’Istituto ricorrente denuncia la violazione dell’art. 12 disp. gen. e dei canoni legali di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362, 1363, 1364 e 1371 c.c.. Contesta in particolare l’affermazione del giudice d’appello secondo cui il tenore letterale della norma regolamentare in questione è da considerare inequivocabile con riferimento alla perentorietà del termine dalla stessa prevista; affermazione che non trova alcun conforto nel menzionato art. 27, comma 3, della contratto collettivo.

Ha quindi formulato il seguente quesito: “dica la Corte se le citate norma del Regolamento di disciplina Inail del 1995 (art. 4, comma 1, e art. 6, comma 1) possono o meno essere interpretate in deroga alle clausole di riferimento del contratto collettivo di comparto del 1995 e in particolare all’art. 27, comma 3, che non contiene alcuna previsione di perentorietà”.

Con il terzo motivo l’Istituto ricorrente denuncia l’insufficiente motivazione circa un fatto controverso decisivo in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5. Deduce in particolare l’Istituto ricorrente che nessuna chiara locuzione al riguardo è contenuta nella normativa collettiva da cui possa desumersi il carattere perentorio dei termini in questione.

In sintesi ritiene l’Istituto essere destituita di fondamento la censura relativa alla presunta illegittimità del provvedimento disciplinare impugnato per essere stato comunicato il 3 gennaio 2000 e cioè oltre 30 giorni dalla data fissata per l’audizione (30 novembre 1999).

2. Il ricorso – i cui tre motivi possono essere esaminati congiuntamente – è infondato.

3. Questa Corte ha più volte affermato che l’intimazione del licenziamento disciplinare – al pari, più in generale, dell’irrogazione delle sanzione disciplinari – deve essere connotata dal carattere di “tempestività”, non diversamente dalla contestazione dell’addebito (Cass. 12 novembre 2003 n. 17058). Il difetto di tale requisito è infatti significativo della volontà del datore di lavoro di accettare le eventuali giustificazioni del lavoratore, al quale l’addebito sia stato contestato, o comunque di valutare la condotta del lavoratore stesso come non di gravità tale da legittimare il licenziamento.

Il carattere della “tempestività” può poi tradursi, più puntualmente, in una specifica garanzia procedimentale prevista dalla contrattazione collettiva che è abilitata anche ad introdurre un termine perentorio per l’esercizio del potere disciplinare. Cfr.

Cass., sez. lav., 9 dicembre 1994, n. 10547, che ha fatto riferimento all’art. 23, comma 4, c.c.n.l. 18 gennaio 1987 per i lavoratori dell’industria metalmeccanica privata, che prevedeva che le giustificazioni fornite dal lavoratore incolpato si intendevano accolte dal datore di lavoro che non comminasse la sanzione disciplinare entro sei giorni successivi.

Quindi è ben possibile che la contrattazione collettiva introduca dei termini di decadenza per l’intimazione del licenziamento disciplinare. Del resto l’art. 2965 c.c., prevede espressamente la possibilità che le parti nell’esercizio dell’autonomia privata – e quindi anche, e a maggior ragione, nell’esercizio dell’autonomia collettiva – pattuiscano termini di decadenza.

Anche nel lavoro pubblico contrattualizzato – qual è quello oggetto della presente controversia – la disciplina legale (D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 55 prima del D.Lgs. n. 150 del 2009) può essere integrata dalla contrattazione collettiva, la quale è finanche espressamente facoltizzata ad introdurre, in questa materia, procedure di conciliazione ed arbitrato (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 56).

Peraltro il cit. art. 55, comma 5, nella formulazione vigente al momento de 1 licenziamento disciplinare in esame, recava una previsione in tutto analoga a quella dell’art. 27, comma 3, del c.c.n.l. del comparto del personale dipendente degli enti pubblici non economici del 6 luglio 1995. Prevedeva infatti che “trascorsi inutilmente quindici giorni dalla convocazione per la difesa del dipendente, la sanzione viene applicata nei successivi quindici giorni”.

Il D.Lgs. n. 150 del 2001, art. 55 bis, aggiunto dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 69, comma 1, ha dettato una disciplina più puntuale dei termini per la contestazione dell’addebito per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari, da una parte prevedendola a carattere imperativo, perchè è stabilito che “è esclusa l’applicazione di termini diversi o ulteriori rispetto a quelli stabiliti nel presente articolo”; d’altra parte stabilendo che “la violazione dei termini … comporta, per l’amministrazione, la decadenza dall’azione disciplinare …”.

Quindi è confermato il principio della tempestività, tra l’altro, dell’irrogazione della sanzione disciplinare e quindi anche dell’intimazione del licenziamento disciplinare; però il legislatore ha da ultimo definito i termini del procedimento disciplinare in modo uniforme con il fatto di attraine la regolamentazione esclusivamente alla normativa di legge.

4. Il licenziamento disciplinare in esame si colloca però ben prima della riforma del 2009 e quindi occorre considerare il D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 55 e 56 (ed in parte anche la L. n. 300 del 1970, art. 7) come riferimenti normativi della contrattazione collettiva e della regolamentazione interna dell’Istituto; ciò di cui peraltro le parti non dubitano.

Nella specie è avvenuto che un termine per l’irrogazione della sanzione disciplinare e quindi per l’intimazione del licenziamento è stato previsto sia dalla contrattazione collettiva applicabile al rapporto di impiego (art. 27, comma 3, del c.c.n.l. del comparto del personale dipendente degli enti pubblici non economici del 6 luglio 1995), sia dal Regolamento di disciplina dell’Inail che integra la disciplina collettiva (e segnatamente dagli artt. 4 e 6).

Va subito precisato che la censura che la difesa dell’Istituto muove alla sentenza impugnata ha una duplice valenza. Da una parte viene denunciata direttamente l’interpretazione della norma di un contratto collettivo di livello nazionale; ciò che l’Istituto poteva fare, già prima della modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in ragione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 5, che prevede che “il ricorso per cassazione può essere proposto anche per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di cui all’art. 40” del medesimo D.Lgs.. D’altra parte l’Istituto censura – non più direttamente, ma per il tramite dell’esatta applicazione dei criteri legali di ermeneutica negoziale – l’interpretazione degli artt. 4 e 6 del suo Regolamento di disciplina, interpretazione questa che è invece demandata ai giudici di merito senza che sia attivabile il controllo di legittimità.

5. Orbene nella specie è sì vero che la censura mossa dalla difesa dell’Istituto alla lettura dell’art. 27, comma 3, del c.c.n.l. 6 luglio 1995, cit., quale quella che di tale disposizione ha dato la sentenza impugnata, non appare destituita di fondamento perchè effettivamente la Corte distrettuale, in sostanza, legge la norma senza dare alcun significato all’avverbio “inutilmente”, che peraltro appare (oltre che nell’art. 27, comma 3, cit.) anche nella stessa formulazione nel comma 5 del cit. D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55.

Invece in tanto il decorso del termine di quindici giorni dalla convocazione per la difesa del dipendente può considerarsi come trascorso “inutilmente” in quanto il dipendente non abbia svolto le sue difese ad es. argomentando giustificazioni della condotta addebitatagli. Se il dipendente non si giustifica nel termine suddetto, allora l’Amministrazione datrice di lavoro può – e deve – procedere rapidamente – nei quindici giorni successivi – all’irrogazione della sanzione. Ma se il dipendente comunica le sue giustificazioni, allora il termine di quindici giorni dalla convocazione non può considerarsi come decorso “inutilmente” e quindi non trova applicazione l’ulteriore termine di quindici giorni per l’irrogazione della sanzione; la ragione di ciò risiede nel fatto che le giustificazioni del lavoratore possono implicare una verifica o una valutazione ulteriore e perciò richiedere un più ampio lasso di tempo pur nel rispetto del criterio generale della “tempestività” dell’irrogazione della sanzione (che ad es. l’art. 27, comma 6, del c.c.n.l. 6 luglio 995, cit., assicura con la previsione di un termine di 120 giorni dalla data della contestazione dell’addebito entro cui il procedimento disciplinare deve concludersi).

Nella specie però ciò che è determinante ai fine del decidere è in realtà la disposizione del Regolamento di disciplina dell’Istituto che – per quanto si è detto sopra – ben poteva dettare – come in effetti è stato – una disciplina integrativa in melius (in termini di maggiori garanzie procedimentali per il dipendente) e di dettaglio del procedimento disciplinare, anche di maggior rigore quanto ai termini della procedura. Tale funzione del Regolamento interno di disciplina, integrativo (in melius, come si è detto) della regolamentazione contrattuale collettiva, lo qualifica – nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato – come atto di autonomia privata di gestione del rapporto di impiego e lo sottopone, quanto all’interpretazione, all’art. 1362 c.c., e segg., dovendo escludersi invece l’interpretazione diretta da parte di questa Corte come nell’ipotesi dei contratti e accordi collettivi nazionali di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 40 (ex art. 63, comma 5) ed in generale dei regolamenti amministrativi aventi natura di fonte subprimaria.

La Corte d’appello, dopo aver ricordato che l’art. 4, comma 1, del Regolamento di disciplina recava una disposizione identica a quella dell’art. 27, comma 3, del c.c.n.l. 6 luglio 1995, cit., ha trascritto il disposto del successivo art. 6, comma 1: “il procedimento disciplinare si estingue quando non si concluda entro trenta giorni dalla data fissata per l’audizione del dipendente”.

L’interpretazione di questa disposizione fatta dalla Corte d’appello – che ha evidenziato come il suo tenore letterale è chiaro ed inequivocabile nel senso che il termine di trenta giorni è perentorio, dato che determina l’estinzione del procedimento disciplinare, e decorre dalla data fissata per l’audizione del dipendente – non è censurabile direttamente con ricorso per cassazione e si sottrae alla censura di violazione dei canoni legali di esegesi negoziale perchè correttamente la Corte distrettuale ha rilevato la portata decisiva del criterio letterale dell’interpretazione negoziale (art. 1362 c.c.): se il procedimento disciplinare si estingue ove non si concluda entro trenta giorni dalla data fissata per l’audizione del dipendente vuoi dire che tale termine è previsto a pena di decadenza del potere disciplinare come più accentuata forma di garanzia procedimentale in favore dei dipendenti dell’Istituto.

Di ciò è in realtà consapevole anche la difesa dell’Istituto che non si affida tanto ad un’interpretazione diversa da quella fatta palese dal “senso letterale delle parole” (art. 1362 c.c., comma 1) in mancanza di elementi per ritenere una diversa intenzione delle parti (disposizione da adattarsi, con maggior rigore, all’interpretazione di un atto unilaterale qual è il Regolamento di disciplina), quanto prospetta l’inderogabilità della norma contrattuale collettiva, letta in termini diversi dalla sentenza impugnata (come si è appena visto sopra); prospettazione questa che in realtà è meramente assertiva – e quindi inammissibile – perchè la difesa dell’Inail non indica alcuna disposizione del contratto collettivo che sia preclusiva di una disciplina integrativa (in melius per i dipendenti) e di dettaglio posta con Regolamento interno di disciplina; laddove invece il principio generale – come sopra posto in evidenza – è quello del riconoscimento, in questa materia, dell’autonomia collettiva in cui si colloca anche una fonte negoziale unilaterale, quale il Regolamento di disciplina dell’Istituto, nei limiti in cui pone norme di maggior tutela per il lavoratore.

6. Infine, l’Inail ha dedotto che la perentorietà del termine per l’irrogazione della sanzione andava comunque riferita al momento della irrogazione della sanzione stessa e non a quello della comunicazione.

Correttamente la Corte d’appello ha osservato che nella specie sia l’invio della raccomandata recante la lettera di licenziamento (3 gennaio 2000), sia la ricezione della medesima (5 gennaio 2000) erano successive alla scadenza del suddetto termine di trenta giorni (30 dicembre 1999), mentre non poteva considerarsi – perchè meramente interna all’Istituto e sfornita del carattere di data certa – l’indicazione nella lettera di licenziamento della data del 24 dicembre 1999.

7. Il ricorso va quindi rigettato con l’affermazione, ex art. 384 c.p.c., comma 1, del seguente principio di diritto: “Nel regime precedente il D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, la regolamentazione di fonte legale del procedimento disciplinare nel rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato (D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, artt. 55 e 56) poteva essere integrata dalla contrattazione collettiva nonchè dall’eventuale Regolamento di disciplina dell’amministrazione pubblica datrice di lavoro quanto al termine per l’intimazione del licenziamento disciplinare dalla convocazione per la difesa del dipendente (nella specie fissato in trenta giorni dall’art. 4, comma 1, e art. 6, comma 1, del Regolamento di disciplina dell’Inail a pena di estinzione del procedimento disciplinare e quindi di decadenza dell’Amministrazione dall’esercizio del potere stesso)”.

Alla soccombenza consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali di questo giudizio di cassazione nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione liquidate in Euro 22,00, oltre Euro 3.000,00 (tremila) per onorario d’avvocato ed oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2011

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