Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9761 del 04/05/2011

Cassazione civile sez. I, 04/05/2011, (ud. 11/04/2011, dep. 04/05/2011), n.9761

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –

Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – rel. Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30996/2005 proposto da:

MAZZON COSTRUZIONI GENERALI S.N.C. (C.F. (OMISSIS)), in persona

dei legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA DEL VIMINALE 43, presso l’avvocato LORENZONI Fabio, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato in SARTORATO GUIDO,

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

T.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

ILDEBRANDO GOIRAN 23, presso l’avvocato GEROMEL DONATELLA,

rappresentato e difeso dall’avvocato BETTANIN Giuseppe, giusta

procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

PROGRAMMA CASA S.R.L.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2055/2004 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 25/11/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

11/04/2011 dal Consigliere Dott. CARLO DE CHIARA;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato GUIDO MELONI, per delega, che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per il controricorrente, l’Avvocato GEROMEL, per delega, che

ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il sig. T.G.B. impugnò davanti alla Corte d’appello di Venezia, con citazione del 27 giugno 1992, il lodo arbitrale rituale pronunciato il 19 aprile 1992 in controversia che lo opponeva alle società Mazzon Costruzioni Generali s.n.c. e Programma Casa s.r.l.. Gli arbitri avevano respinto la sua pretesa di restituzione del doppio della caparra di L. 130.000.000 a seguito di recesso da contratto preliminare di compravendita immobiliare.

La Corte d’appello, con sentenza non definitiva, accolse l’impugnazione e dichiarò la nullità del lodo. Ritenne che, pur avendo le parti, alla prima riunione davanti al collegio arbitrale, concordato, su proposta degli arbitri, di seguire le regole del processo del lavoro, tuttavia poi gli arbitri avevano emesso il lodo in violazione dell’art. 429 c.p.c., non essendovi stata udienza di discussione con lettura del dispositivo della decisione.

La s.n.c. Mazzon Costruzioni Generali ha quindi proposto ricorso per cassazione per quattro motivi, cui il solo intimato sig. T. ha resistito con controricorso. La ricorrente ha presentato anche memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione dell’art. 829 c.p.c., comma 1, n. 7, in relazione all’art. 816 c.p.c., comma 2, si deduce che, stando al testo del verbale della prima riunione con gli arbitri – che recita: “si propone alle parti di osservare (…) le regole dettate dal codice di procedura civile per il rito del lavoro” – quelle regole dovevano valere soltanto per l’attività delle parti, non anche per gli atti degli arbitri, qual è la lettura del dispositivo in udienza.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

La questione dei destinatari della regola dell’applicazione del rito del lavoro è questione di interpretazione del relativo accordo. La Corte d’appello ha interpretato l’accordo nel senso che quella regola era riferita anche agli arbitri. La critica di tale affermazione avrebbe richiesto l’articolazione di puntuali censure di violazione dei criteri ermeneutici dei negozi o di vizio di motivazione, che invece la ricorrente non svolge.

2. – Con il secondo motivo, denunciando violazione dell’art. 829 c.p.c., comma 1, n. 1, in relazione all’art. 816 c.p.c., commi 2 e 3, si deduce (a) che la decisione di applicare le norme del rito del lavoro era stata presa dagli arbitri, non dalle parti, e comunque (b) era successiva all’inizio del procedimento arbitrale, diversamente da quanto stabilito dal cit. art. 816, comma 2.

2.1 – Il motivo è inammissibile sotto il primo profilo, dato che la Corte d’appello ha ritenuto invece l’esistenza di un accordo fra le parti, e la contestazione di tale statuizione in fatto avrebbe richiesto la deduzione – ancora una volta mancante – di una censura di vizio di motivazione.

Sotto il secondo profilo è infondato, perchè deve ritenersi, accogliendo il suggerimento di parte della dottrina, che l’accordo delle parti sulle norme da osservare nel procedimento arbitrale possa intervenire anche dopo l’inizio del procedimento stesso, purchè ricorra anche l’assenso degli arbitri.

E’ affermazione generalmente condivisa, infatti, che il limite temporale dell’inizio del procedimento sia posto dall’art. 816 c.p.c., comma 2, nell’interesse degli arbitri, i quali è giusto che sappiano prima di accettare l’incarico – momento cui generalmente si fa risalire, appunto, l’inizio del procedimento arbitrale – quali regole procedurali sono chiamati ad applicare, essendo tale informazione rilevante in vista della decisione se accettare o meno.

Se così è, dunque la norma richiamata ha carattere dispositivo, è cioè derogabile con l’assenso degli interessati, ossia degli arbitri.

Nel caso in esame questo assenso ricorreva, dato che furono gli stessi arbitri a proporre alle parti, che accettarono, di seguire le regole del processo del lavoro.

3. – Con il terzo motivo, denunciando vizio di motivazione, si deduce che l’accordo faceva comunque “salve le modifiche al rito del lavoro ritenute necessarie dal Collegio”, e si censurano le seguenti affermazioni della Corte d’appello: a) l’affermazione secondo cui l’inciso in questione “fa probabile riferimento a quelle modifiche che nella stessa frase vengono successivamente introdotte dalla locuzione “in particolare” ossia alla “concessione di termini per il deposito di ben quattro memorie”, che “è evidente modifica delle norme che governano il processo del lavoro”; b) l’affermazione secondo cui “non v’è traccia nella fattispecie di un divisamento del Collegio che abbia ritenuto necessario, non si vede in vista di quale cogente esigenza, omettere la discussione orale e la lettura del dispositivo in udienza, che sono tra l’altro peculiarità particolarmente qualificanti del rito del lavoro”.

La ricorrente coglie una contraddizione fra la prima e la seconda affermazione, e comunque uno scarso approfondimento da parte dei giudici, dato che già nel regolamento di cui trattasi, stabilito alla prima udienza, era prevista la possibilità di una memoria di replica alla conclusionale (“Verrà in ogni caso concesso, alla chiusura della fase istruttoria, un termine per la precisazione delle conclusioni, nonchè ulteriori termini per il deposito di memorie conclusionali e di replica”, si legge nell’accordo): il che renderebbe all’evidenza chiara l’esclusione, sin da allora, della discussione orale, espressamente sostituita dalla conclusionale di replica.

3.1. – Il motivo è inammissibile perchè contiene una censura di merito. Lo scambio di memorie di replica alle conclusionali, infatti, non è in contrasto logico con la celebrazione dell’udienza di discussione, tanto che entrambi i passaggi processuali erano previsti nel rito ordinario (art. 190 c.p.c.) anteriore alle modifiche introdotte dalla L. 24 novembre 1990, n. 353.

4. – Con il quarto motivo, denunciando violazione dell’art. 829 c.p.c., comma 1, n. 7, in relazione all’art. 816, c.p.c., si sostiene che l’obbligo di seguire le regole del processo del lavoro non era comunque previsto a pena di nullità, tanto più che quelle regole potevano addirittura essere modificate dagli arbitri nel corso del procedimento.

4.1. – Il motivo è inammissibile alla stessa maniera del primo.

Anche a questo proposito, invero, il giudice di merito ha ritenuto che la volontà delle parti era di prevedere il rispetto del rito del lavoro comprese le sanzioni di nullità in esso rientranti;

occorreva, dunque, per contrastare tale accertamento in fatto, la deduzione della violazione di criteri ermeneutici dei contratti o una censura di vizio di motivazione, che invece mancano.

5. – Il ricorso va in conclusione respinto. Le spese processuali, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 4.000,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 11 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2011

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