Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9755 del 04/05/2011

Cassazione civile sez. I, 04/05/2011, (ud. 02/03/2011, dep. 04/05/2011), n.9755

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 28597/2007 proposto da:

LARGO CONSUMO S.P.A. (c.f. (OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

LUNGOTEVERE MELLINI 24, presso l’avvocato GIACOBBE Giovanni, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARROZZA PIETRO, giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

G.D.M. S.P.A. (c.f./p.i. (OMISSIS)), già G.D.M. – GRANDE

DISTRIBUZIONE MERIDIONALE S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

SISTINA 42, presso l’avvocato GIORGIANNI Francesco, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato DANOVI REMO, giusta

procura speciale per Notaio dott. FRANCO BORGHERO di NOVI LIGURE –

Rep. n. 52720 del 27.11.07

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 13/2007 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 09/01/2007;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

02/03/2011 dal Consigliere Dott. SALVATORE SALVAGO;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato GIACOBBE che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato MARIO BATTAGLIA, per

delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO Immacolata, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con lodo del 6 ottobre 2001 il Collegio arbitrale previsto dalla scrittura stipulata il 27 luglio 1999 tra la s.p.a. Grande Distribuzione meridionale (GDM) e la s.p.a. Largo Consumo (LC), denominata lettera di intenti,dichiarava che quest’ultima società era rimasta inadempiente alle obbligazioni assunte con il menzionato accordo che dichiarava risoluto per inadempimento della LC, condannandola al risarcimento del danno nella misura di L. 4.050.311.000.

L’impugnazione della soc. L.C. è stata respinta dalla Corte di appello con sentenza del 9 gennaio 2007, che ha osservatola) seppure gli arbitri non avevano provveduto ad armonizzare la clausola dell’art. 4 che poneva un’obbligazione a carico della LC con quella dell’art. 9 che esonerava le parti da ogni responsabilità, ciò malgrado avevano correttamente interpretato la prima al lume della loro reale intenzione, come disvelata dalla clausola compromissoria e da altre disposizioni comprovanti la loro effettiva volontà di porre un vincolo a carico della s.p.a. LC: senza il quale peraltro tutte le restanti clausole divenivano ultronee; b) in ogni caso le parti avevano dato vita ad un contratto atipico, sicchè correttamente gli arbitri ne avevano accertato l’inadempimento da parte della LC con motivazione congrua e non sindacabile nel merito; c) era corretta anche la valutazione equitativa del danno, nel caso consistente nel lucro cessante, poichè la prova del suo ammontare risultava estremamente difficoltosa, ed anzi impossibile.

Per la cassazione della sentenza la s.p.a. LC ha proposto ricorso per 9 motivi,illustrati da memoria; cui resiste la soc. GDM con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

2. Con il primo motivo,la soc. LC, deducendo violazione degli artt. 112, 115, 823 ed 829 cod. proc. civ., censura la sentenza impugnata per avere premesso sia pure come direttiva da seguire nella disamina dei motivi di impugnazione del lodo che la competenza della Corte di appello si arrestava a quelli di legittimità e non comprendeva quelli di motivazione: invece denunciabili al pari degli altri come risultava dal combinato disposto dell’art. 829 cod. proc. civ., n. 3, art. 823 cod. proc. civ. e art. 111 Cost., che altrimenti una interpretazione restrittiva della normativa sarebbe risultata in contrasto con il suddetto precetto costituzionale.

Con il secondo motivo L.C., deducendo violazione dell’art. 1331 c.c., e segg., nonchè art. 1362 cod. civ., e segg., censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che la scrittura privata 27 luglio 1999 contenesse un vero e proprio contratto,con sole obbligazioni, peraltro a carico di essa società senza considerare: a) il nomen iuris attribuitole dalle parti – lettera di intenti – peraltro corrispondente al suo contenuto costituito da una serie di puntuazioni di successivi e futuri patti,perciò rientranti nell’ambito di meri atti di trattativa; b) le clausole di esenzione di responsabilità delle parti in caso di inadempimento poste dalle clausole n. 4 e 9, di cui pure la sentenza impugnata aveva dato atto riconoscendo che non potevano armonizzarsi con l’obbligazione posta a carico di essa società; c) la reale volontà delle parti da ricercare attraverso una interpretazione complessiva di tutte le clausole di detta scritturarle une per mezzo delle altre, postulata dagli artt. 1362 e 1363 cod. civ.: invece ridotta all’esame della sola espressione per cui essa LC “si obbligava” e conclusa dimenticando del tutto proprio la definitiva esenzione posta dalla menzionata clausola di esenzione; d)il carattere tautologico degli elementi considerati di riscontro alla asserita “obbligazione” e l’apodittica conclusione che trattavasi di contratto, costituente proprio ciò che si doveva dimostrare.

Con il terzo motivo, deducendo ulteriori violazioni delle menzionate norme, nonchè degli artt. 829 ed 830 cod. proc. civ., si duole che la Corte di appello si sia data carico di verificare a quale risultato avrebbe condotto una interpretazione diversa che avesse escluso la sussistenza del contratto,senza considerare che ciò poteva essere oggetto esclusivamente del giudizio rescissorio,e che lo stesso presupponeva necessariamente l’accoglimento dell’impugnazione e la declaratoria di nullità del lodo:non essendo consentito al giudice di merito utilizzare gli accertamenti di detta seconda fase per verificare, o contraddire possibili interpretazioni peculiari della fase rescindente,ovvero per colmarne le lacune.

Con il quarto si duole del carattere superficiale ed incongruo con cui sono stati condotti gli accertamenti della volontà delle parti nella peculiare fase rescissoria utilizzata dopo averne condotto l’interpretazione esclusivamente sulla lettera dell’espressione “si obbliga” atomisticamente considerata perfino al di fuori della sua stessa proposizione: ritenendo inspiegabili i termini apposti dalle parti per cadenzare le rispettive attività, e ricorrendo all’ultima disposizione contenente la clausola compromissoria, avente tutt’altra funzione, quale elemento di conferma del risultato raggiunto;con il risultato di introdurre circostanze o ipotesi non prospettate dalle parti,se non da esse smentite, come l’ipotesi di errori nella compilazione della menzionata clausola n. 9 che li esonerava da ogni responsabilità.

Considerazioni analoghe sono contenute nei motivi successivi fino al 9, con cui LC ribadisce l’erroneità dell’interpretazione della lettera sia dove la Corte territoriale ha ravvisato la sussistenza di un’opzione a favore della controparte,sia dove ha definito l’accordo di cui alla clausola n. 4 un contratto atipico,e comunque un accordo derivante dalle trattatative, ma unilateralmente vincolante; sia in relazione alle mere ipotesi formulate per spiegare la presenza nella lettera della clausola n. 9 di cui la stessa sentenza aveva riconosciuto l’assoluta incompatibilità con la prima contenente l’assunzione di un’obbligazione nei confronti di GDM. 3. Il ricorso è fondato nei limiti appresso precisati.

La sentenza impugnata non ha considerato affatto il lodo arbitrale impugnabile per i soli vizi di legittimità ricavabili dall’art. 360 cod. proc. civ., n. 3 e con esclusione quindi di quelli inerenti alla motivazione ex art. 360 cod. proc. civ., n. 5; ma ha preliminarmente ribadito il principio generale seguito dalla più qualificata dottrina e dalla giurisprudenza, che il giudizio di impugnazione di un lodo ha ad oggetto unicamente la verifica della legittimità della decisione resa dagli arbitri, non il riesame delle questioni di merito ad essi sottoposte. Per poi passare alla enunciazione, opposta a quella attribuitagli dalla società ricorrente, che anche il difetto di motivazione, quale vizio riconducibile all’art. 829 cod. proc. civ., n. 5, è censurabile nelle ipotesi più volte indicate da questa Corte, in cui la motivazione del lodo manchi del tutto ovvero sia a tal punto carente da non consentire l’individuazione della “ratio” della decisione adottata o, in altre parole, da denotare un “iter” argomentativo assolutamente inaccettabile sul piano dialettico, si da risolversi in una non – motivazione (Cass. 13511/2007; 6986/2007; 5371/2001).

E d’altra parte,siffatta premessa era funzionale alla delimitazione della potestas iudicandi della Corte di appello in relazione alla interpretazione di un atto negoziale ad opera degli arbitri:

correttamente individuata (in linea astratta) nel solo accertamento della denunciata violazione dei canoni ermeneutici di cui all’art. 1362 cod. civ., e segg., con esclusione, dunque della ricostruzione della volontà delle parti: censurabile, per quanto si è appena detto, nel solo caso in cui la motivazione sia così inadeguata da non consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito dagli arbitri per giungere ad attribuire al negozio un determinato contenuto (Cass. 25623/2007; 2717/2007; 12550/2000).

4. Sennonchè, la Corte di appello, dopo avere premesso che la denominazione attribuita alla scrittura del 1997 “Lettera di intenti” non era decisiva per qualificarne il contenuto, ha osservato che con tale nomen iuris nell’ambito dei rapporti commerciali si designano sinteticamente numerose tipologie di accordi, il cui denominatore comune è costituito dal riferimento ad una trattativa in corso:

includendo in una prima categoria le indicazioni provenienti dalle parti nella fase meramente preliminare (delle trattative) rivolta esclusivamente ad individuare e circoscrivere fasi e contenuti dei punti da trattare (c.d. puntuazioni di successivi e futuri patti); in una seconda più specifiche indicazioni dei punti sui quali l’accordo è stato raggiunto, e di quelli ancora da trattare; e rappresentando la terza infine quale categoria nella quale “l’accordo è stato raggiunto su tutti i punti,ma che nondimeno il contratto non è stato ancora concluso e non vincola le parti”.

Malgrado anche l’ultima di dette categorie rimanesse all’evidenza , nell’ambito delle trattative, disciplinate,quindi, dall’art. 1337 cod. civ., e la sentenza confermasse che anche nel caso concreto la lettera di intenti implicava “necessariamente che il contratto cui si riferisce non è concluso” , pur se da essa potevano ben sorgere tra le parti “vincoli di natura contrattuale se pure di carattere secondario e strumentale in quanto finalizzati alla conclusione del contratto principale”, a Corte territoriale, contraddicendo in modo palese la suddetta premessa, ha inopinatamente concluso l’indagine confermando per un verso l’interpretazione del lodo che la clausola n. 4 della scrittura conteneva un’opzione ex art. 1331 cod. civ., a favore di GDM la cui accettazione aveva comportato per ciò stesso la conclusione del contratto: senza specificare quale fosse la proposta irrevocabile di LC, cui corrispondeva la facoltà della controparte di accettarla, e quali gli elementi dell’ulteriore fattispecie a formazione progressiva che avrebbero dato luogo al successivo regolamento definitivo del rapporto, non individuato neppure nelle sue linee generali (Cass. 15142/2003; 2692/1997). E subito dopo smentito, unitamente al risultato ermeneutico degli arbitri, dalla considerazione che, mentre per effetto dell’opzione l’accettazione della proposta comporta di per sè sola la conclusione del contratto, “nel caso in esame è espressamente prevista una ulteriore contrattazione (consistente nella redazione di una scrittura a sua volta prodromica rispetto alla stipula di successivi contratti preliminari)”.

Siffatta evidenziata divergenza tra le due fattispecie superava,infatti, definitivamente la ricostruzione arbitrale incentrata sull’opzione, ritenuta dalla stessa Corte territoriale insufficiente senza le scritture ed i preliminari successivi; e nel contempo istituiva un collegamento tra questi ultimi e l’asserito accordo, ponendo il problema di definirne il rapporto, secondo la giurisprudenza di legittimità, necessariamente sottoposto alla seguente alternativa: A) O nessun contratto poteva ritenersi concluso prima della negoziazione “ulteriore” in quanto “ai fini della configurabilità di un definitivo vincolo contrattuale, è necessario che tra le parti sia raggiunta l’intesa su tutti gli elementi dell’accordo, non potendosene ravvisare la sussistenza là dove, raggiunta l’intesa solamente su quelli essenziali ed ancorchè riportati in apposito documento, risulti rimessa ad un tempo successivo la determinazione degli elementi accessori”; B) Ovvero si intendeva derogare a tale regola in base al generale principio dell’autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 cod. civ., che non impedisce comunque “di ritenere concluso un contratto, con gli effetti di cui all’art. 1372 cod. civ., allorchè, alla stregua della comune intenzione delle parti, si possa ritenere che queste hanno inteso come vincolante un determinato assetto, anche se per taluni aspetti siano necessarie ulteriori specificazioni, il cui contenuto sia però da configurare come mera esecuzione del contratto già concluso, potendo costituire oggetto di un obbligo che trova la sua fonte proprio nel contratto stipulato” (Cass. 11371/2010; 23949/2008;

14267/2006). Ma in tal caso occorreva dimostrare la ricorrenza di tutti gli elementi appena indicati costitutivi di quest’ultima fattispecie, laddove la sentenza impugnata non si è posta neppure il problema di stabilire quale intesa e quale specifico assetto negoziale le parti avessero raggiunto in base all’asserito accordo e quale ne fosse il rapporto con la prevista contrattazione successiva.

Ha cercato invece di evitarlo attraverso la prospettazione di una serie di conclusioni tanto apodittiche, quanto incompatibili l’una con l’altra in quanto: a) ha dichiarato anzitutto di confermare la ricostruzione del lodo del quale aveva dimostrato l’insufficienza ad abbracciare il programma esposto dalle parti nella lettera; b) ha subito dopo dato nuovamente atto che quest’ultima appariva “certamente discutibile”; c) è ritornata poi nel successivo G al risultato che l’obbligazione in oggetto inducesse a ritenere che “le parti anzicchè limitarsi ad indicare i punti sui quali era già stato raggiunto l’accordo ed a renderli vincolanti per il caso in cui il contratto fosse stato stipulato, avevano posto in essere una stipulazione immediatamente vincolante per la LC”: non già in base all’esame del suo obbiettivo contenuto, bensì per esclusione, ritenendo inconfigurabile sia l’ipotesi del contratto meramente preparatorio,che quella assolutamente incerta in dottrina e giurisprudenza del preliminare di preliminare; d) ha affermato,infine, che si trattava “plausibilmente… di un contratto atipico” (di cui non occorreva stabilire la qualificazione) attese le “difficoltà di ricondurre la pattuizione in questione ad una fattispecie tipizzata”: in tal modo mostrando di ritenere che il ricorso a siffatta qualifica valesse a superare le problematiche poste e poi rimaste senza risposta onde stabilire se (anche) la clausola n. 4 avesse natura contrattuale o precontrattuale ed in quest’ultimo caso se contenesse mere puntuazioni o accordi preliminari, ovvero accordi normativi per la conclusione di futuri contratti; e) pur comportando la soluzione del contratto innominato la sua soggezione alla disciplina dell’art. 1322 cod. civ., e segg., la Corte ha invece dichiarato di confermare quella del contratto – opzione ex art. 1331 cod. civ., dal quale ha tratto la responsabilità per inadempimento di LC: in tal modo incorrendo proprio nella fattispecie avanti ipotizzata, di motivazione che non consente l’individuazione dell’iter argomentativo, nè della ratio della decisione.

Si deve aggiungere che ciascuna di queste opzioni è stata prospettata senza comprendere appieno l’ambito dell’impugnazione proposta dalla LC, la quale non aveva lamentato soltanto che il lodo avesse trascurato la clausola n. 9 della scrittura in base alla quale “le parti non avevano nulla a pretendere reciprocamente a nessun titolo o causa in caso di mancata stipula, allo scadere della presente scrittura, per come previsto nel precedente art. 4”; bensì che gli Arbitri l’avessero interpretato arrestandosi alla espressione “LC si obbliga” in esso contenuta, trascurando non solo tutte le altre clausole della complessa proposizione, ma più in particolare proprio il contesto delle disposizioni della clausola suddetta e di quelle successive, fra cui l’esenzione conclusiva di responsabilità pattuita nella clausola n. 9 proprio in relazione alle attività a loro carico specificate in quella suddetta.

E, pur muovendo da tale ottica riduttiva la Corte territoriale non ha mancato di riconoscere immediatamente che il collegio arbitrale “non si è preoccupato di armonizzare le due clausole in questione” (pag.

14) e di ribadire successivamente l’addebito osservando che lo sforzo di armonizzarle “era stato totalmente omesso dagli arbitri: anzi si è totalmente taciuto dell’esistenza della clausola di esenzione di responsabilità” (pag. 16). Ma poi non ne ha tratto la logica conseguenza in merito alla mancata applicazione dei canoni di cui agli artt. 1362 e 1363 cod. civ., cercando, invece di dimostrare che malgrado tali omissioni il lodo si era attenuto egualmente al criterio sistematico: con la conseguenza di reiterarne l’errore di trarre sostanzialmente dalla sola espressione “Largo consumo…. si obbliga” contenuta nella clausola n. 4 della complessa ed articolata iniziativa concordata dalle parti nella scrittura, la loro volontà di addivenire ad un contratto, senza saperne individuare lo specifico contenuto, nè le attività che ciascun contraente era tenuto ad espletare (ed in particolar modo quelle della GDM), nè tanto meno le conseguenze previste nella lettera in caso di rispettivo inadempimento.

Confermando siffatta interpretazione, infatti, la sentenza non ha anzitutto considerato che la complessa “lettera di intenti” (interamente trascritta in ricorso, nonchè riassunta nella parte iniziale della sentenza) conteneva una lunga premessa che si articola in numerose clausole che individuavano, ciascuna, prerogative e comportamenti di ognuna delle parti, nonchè attività a carico di esse; e continuava con una parte successiva dedicata agli “intenti concordati” che si svolgeva pur essa attraverso tre articolate clausole che li illustravano e li ponevano in successione cronologica e logica,significativamente concludendo che ove il programma convenuto non avesse potuto attuarsi entro il 15 ottobre 1999, ovvero a seguito di proroga entro il 15 novembre successivo, la scrittura doveva considerarsi scaduta (senza alcuna conseguenza a carico di ciascuna delle parti): l’una e l’altra invece totalmente trascurate dalla Corte di appello.

Nè gli errori di questo percorso ermeneutico possono trovare giustificazione nel potere discrezionale attribuito al giudice del merito, nell’interpretazione di un contratto, di privilegiare il criterio c.d. letterale, per primo menzionato dall’art. 1362 cod. civ.; anzitutto perchè la stessa Corte territoriale ha escluso l’inequivocità della proposizione in esame (“si obbliga”) ed in tale situazione ha ritenuto “inevitabile” il ricorso al criterio sistematico (pag. 15). Quindi perchè quello letterale, di fatto prescelto, è stato erroneamente applicato isolando l’espressione “LC si obbliga” dal contesto della proposizione di cui costituiva invece parte integrante ed inscindibile, e su di essa soltanto costruendo il ricordato accordo vincolante nonchè la responsabilità per inadempimento della società obbligata; laddove secondo la giurisprudenza di legittimità l’espressione “senso letterale delle parole” di cui all’art. 1362 cod. civ., comma 1, deve intendersi come riferita all’intera formulazione letterale della dichiarazione negoziale in ogni sua parte e in ogni parola che la compone, e non già limitata ad una parte soltanto o addirittura a singole parole;

per cui il giudice non può arrestarsi ad una considerazione atomistica delle singole proposizioni o frasi di essa, neppure quando la loro interpretazione possa essere compiuta, senza incertezze, ma deve collegarle e raffrontarle tra loro al fine di chiarirne il significato e di desumerlo dal loro contenuto complessivo (Cass. 6953/2002; 805/2000; 1877/1995; 3439/1990).

E tale operazione si rivelava a maggior ragione necessaria in quanto la clausola non si esauriva nella previsione dell’obbligo in questione in capo ad LC, ma proseguiva disciplinando in maniera articolata e compiuta tanto l’ipotesi in cui dette autorizzazioni fossero state ottenute,quanto quella opposta del loro mancato conseguimento: in relazione alla quale non si faceva questione delle cause che non lo avevano consentito, nè di eventuali responsabilità o inerzie in cui fosse incorsa detta società (disciplinate appunto nella non esaminata clausola n. 9), ma veniva attribuita a GDM esclusivamente la “facoltà di ritenere priva di effetti la predetta scrittura privata e le parti nulla avranno a pretendere reciprocamente”.

I giudici dell’impugnazione, invece non hanno tenuto in alcun conto nessuna di dette disposizioni, così come di quelle precedenti; ed hanno interamente pretermesso anche l’esame di quelle successive malgrado proprio l’invocato criterio sistematico posto dall’art. 1363 cod. civ., imponesse di procedere al loro coordinamento e di interpretarle complessivamente le une per mezzo delle altre,attribuendo a ciascuna il senso risultante dall’intero negozio;

e perciò necessariamente comprendendo anche la clausola n. 9 che prevede l’esonero di ogni responsabilità per ciascuna delle parti, che la stessa sentenza impugnata ha più volte dichiarato assolutamente incompatibile con l’interpretazione della scrittura propugnata dagli arbitri: ciò malgrado confermandola. Sicchè è incorsa (anche) in una palese violazione del principio d’interpretazione complessiva delle clausole contrattuali, configurabile non soltanto nell’ipotesi appena evidenziata della loro omessa disamina, ma anche quando il giudice utilizza esclusivamente frammenti letterali della clausola da interpretare e ne fissa definitivamente il significato in base alla sola lettura di questi per poi esaminare “ex post” le altre clausole onde ricondurle ad armonia con il senso dato aprioristicamente alla parte letterale considerata come primaria e delucidativa dell’intento delle parti;

ovvero espungerle ove con esso risultino inconciliabili (Cass. 1257/1983; 3853/1985; 6953/2002 cit.).

Il che la Corte territoriale ha fatto, dichiarando per un verso di trovare conferma alla ritenuta obbligazione contrattuale assunta da LC (ed in tale considerazione esaurendo il criterio sistematico) nella (sola) disposizione con cui le parti hanno pattuito la clausola compromissoria: invece per la sua stessa funzione resa palese dall’art. 808 cod. proc. civ., del tutto neutra al riguardo, manifestando essa soltanto la preferenza dei contraenti per il giudizio arbitrale (rispetto alla giurisdizione ordinaria). Al quale può essere devoluto l’accertamento non soltanto di responsabilità contrattuali,come mostra di ritenere la sentenza questa volta ignorandone il tenore letterale (“Per ogni controversia che dovrebbe sorgere….”) “ma anche di quelle eventualmente nascenti ex art. 1337 cod. civ. da trattative e perfino di stabilire l’esclusione di entrambe le categorie. E per altro verso eliminando dalla disamina la menzionata clausola di esonero della responsabilità di cui la stessa decisione aveva riconosciuto l’incompatibilità assoluta con l’interpretazione condivisa, in base alla mera supposizione che la stessa fosse stata introdotta per mero errore materiale, o comunque per mero errore mantenuta dopo che le parti l’avevano superata, introducendo nella lettera accordi sopravvenuti: supposizione questa che finisce per inserire nel processo realtà fattuali estranee a quelle prospettate dalle parti (redazione della scrittura in tempi successivi, accordi sopravvenuti, dimenticanze e/o errori materiali commessi nella redazione), e da nessuna di esse avallate neppure dopo la menzionata sentenza. Oltre a violare il limite posto al giudice dell’impugnazione di non introdurre nel tema controverso nuovi elementi di fatto, o addirittura elementi di fatto esclusi dalle parti (Cass. 8142/2009; 19090/2007; 4008/2006).

Assorbiti, pertanto, gli altri motivi del ricorso, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di appello di Messina che in diversa composizione provvederà a riesaminare ex professo i motivi di impugnazione di L.C. attenendosi ai principi esposti, nonchè a liquidare le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità alla Corte di appello di Messina in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 2 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2011

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