Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 974 del 17/01/2020

Cassazione civile sez. VI, 17/01/2020, (ud. 18/09/2019, dep. 17/01/2020), n.974

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7170-2019 proposto da:

C.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RIMINI

14/B, presso lo studio dell’avvocato NICOLETTA CARUSO, rappresentato

e difeso dall’avvocato VINCENZA CARBONE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositato il

21/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

18/09/2019 dal Consigliere Dott. SCARPA ANTONIO.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

C.F. propone ricorso articolato in due motivi avverso il decreto n. 72/2019 reso il 21 gennaio 2019 dalla Corte d’Appello di Messina.

L’intimato Ministero della Giustizia si difende con controricorso. Il decreto impugnato, in accoglimento dell’opposizione della L. n. 89 del 2001, ex art. 5 ter, proposta avverso il decreto del magistrato designato, ha accolto la domanda di equa riparazione formulata in data 13 luglio 2018 da C.F. in relazione alla durata non ragionevole, stimata in sette anni, di un giudizio possessorio instaurato davanti al Tribunale di Messina nel maggio 2003 e definito dalla Corte di Cassazione nel gennaio 2018, liquidando la somma di Euro 1.400,00. La Corte di Messina ha evidenziato che la domanda di reintegrazione nel possesso di C.F. riguardava un fondo agricolo di mq. 40 e di valore irrisorio, ciò inducendo a derogare alla misura normale dell’indennizzo.

Il primo motivo di ricorso di C.F. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 6, par. 1, CEDU, nonchè della L. 4 marzo 2001, n. 89, artt. 2 e 2 bis, e degli artt. 1226 e 2056 c.c.. Il ricorrente contesta l’assunta irrisorietà del valore della lite e lamenta la mancata considerazione del comportamento del convenuto in reintegra, nonchè le inutili lungaggini del giudizio. Il secondo motivo di ricorso deduce il “difetto di motivazione” quanto alla liquidazione di un indennizzo al di sotto del minimo fissato dal legislatore.

Su proposta del relatore, che riteneva che il ricorso potesse essere dichiarato manifestamente fondato, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

Le due censure vanno esaminate congiuntamente in quanto connesse ed il ricorso deve essere accolto nei sensi di seguito precisati.

Della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2-bis, comma 1, come risultante dalle sostituzioni operate dalla L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 777, prevede: “Il giudice liquida a titolo di equa riparazione, di regola, una somma di denaro non inferiore a Euro 400 e non superiore a Euro 800 per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo. La somma liquidata può essere incrementata fino al 20 per cento per gli anni successivi al terzo e fino al 40 per cento per gli anni successivi al settimo”. Dell’art. 2-bis, comma 1-ter dispone invece: “La somma può essere diminuita fino a un terzo in caso di integrale rigetto delle richieste della parte ricorrente nel procedimento cui la domanda di equa riparazione si riferisce”.

Va osservato come la L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 777, non contemplasse alcun regime transitorio per il sostituito dalla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2-bis, comma 1, e per l’introdotto art. 2-bis, comma 1-ter. Trattandosi di nuova disciplina di diritto sostanziale, che conforma il potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa ai sensi dell’art. 2056 c.c., in forma di jus superveniens costituente parametro normativo dei valori di aestimatio dell’indennizzo, e non avendo la L. n. 208 del 2015 derogato alla regola generale dell’irretroattività della legge, posta dall’art. 11 preleggi, comma 1, la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2-bis, comma 1 (indennizzo annuo di Euro 400,00) e comma 1-ter (diminuzione di un terzo), ben possono essere applicate a domande di equa riparazione (quale quella in esame) proposte dopo tale data, ancorchè relative ad indennizzi di irragionevole durata preesistente, atteso che, ai fini della disciplina sulla misura dell’indennizzo disposta dalla nuova legge, tali norme devono essere prese in considerazione in se stesse, restando escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore del danno (arg. da Cass. Sez. U, 12/12/1967, n. 2926).

La L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 bis, originariamente inserito dal D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012, che aveva inizialmente limitato la misura dell’indennizzo in una somma di denaro, non inferiore a 500 Euro e non superiore a 1.500 Euro per anno di ritardo, era stato viceversa accompagnato da un espresso regime transitorio, il quale rendeva operante la nuova disciplina per i soli ricorsi depositati a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione.

L’interpretazione data da questa Corte chiarì subito, allora, che le disposizioni in tema di misura dell’indennizzo di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, introdotte dal D.L. n. 83 del 2012, non avevano natura di interpretazione autentica nè efficacia retroattiva, pur escludendone l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 6, par. 1, della CEDU, atteso che la derogabilità dei criteri ordinari di liquidazione e la ragionevolezza del criterio di 500 Euro per anno di ritardo recepivano comunque, nella sostanza, le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte E.D.U. e della stessa Corte di cassazione (Cass. Sez. 2, 22/09/2014, n. 19897; Cass. Sez. 2, 27/10/2014, n. 22772).

Invero, l’indennizzo calcolato in Euro 500,00 per anno di ritardo, come fatto nell’originaria formulazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 bis, non poteva essere di per sè considerato irragionevole, e quindi lesivo dell’adeguato ristoro per violazione del termine di durata ragionevole del processo, essendosi più volte affermato in passato, nei precedenti di questa Corte, che la quantificazione del danno non patrimoniale dovesse essere, di regola, non inferiore ad Euro 750,00 per i primi tre anni di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata, e salire per il periodo successivo ad Euro 1.000,00, e che, tuttavia, la valutazione dell’entità della pretesa patrimoniale azionata (c.d. posta in gioco) potesse giustificare l’eventuale scostamento, in senso sia migliorativo che peggiorativo, dai parametri indennitari fissati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, non legittimandosi unicamente il riconoscimento di un importo irragionevolmente inferiore a quello risultante dall’applicazione dei predetti criteri, dal momento che solo la liquidazione di un indennizzo poco più che simbolico o comunque manifestamente inadeguato contrasterebbe con l’esigenza, posta a fondamento della L. n. 89 del 2001, di assicurare un serio ristoro al pregiudizio subito dalla parte per effetto della violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione (Cass. Sez. 2, 24/07/2012, n. 12937; Cass. Sez. 1, 24/07/2009, n. 17404; Cass. Sez. 2, 27/10/2014, n. 22772; Cass. Sez. 1, 02/09/2011, n. 18086; Cass. Sez. 1, 22/12/2011, n. 28453; Cass. Sez. 6 – 2, 13/11/2015, n. 23326).

La L. n. 89 del 2001, art. 2-bis, nello stabilire la misura ed i criteri di determinazione dell’indennizzo a titolo di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, rimette, quindi, al prudente apprezzamento del giudice di merito – sindacabile in sede di legittimità nei soli limiti ammessi dall’art. 360 c.p.c., n. 5 – la scelta del moltiplicatore annuo, compreso tra il minimo ed il massimo ivi indicati, da applicare al ritardo nella definizione del processo presupposto, orientando il “quantum” della liquidazione equitativa sulla base dei parametri di valutazione, tra quelli elencati nel comma 2 della stessa disposizione, che appaiano maggiormente significativi nel caso specifico (Cass. Sez. 6 – 2, 16/07/2015, n. 14974; Cass. Sez. 6 – 2, 01/02/2019, n. 3157).

Il giudice, nel determinare la quantificazione del danno non patrimoniale subito per ogni anno di ritardo, può dunque scendere al di sotto del livello di “soglia minima” soltanto là dove, in considerazione del carattere bagatellare o irrisorio della pretesa patrimoniale azionata nel processo presupposto, parametrata anche sulla condizione sociale e personale del richiedente, l’accoglimento della pretesa azionata renderebbe il risarcimento del danno non patrimoniale del tutto sproporzionato rispetto alla reale entità del pregiudizio sofferto (Cass. Sez. 2, 24/07/2012, n. 12937; Cass. Sez. 1, 12/07/2011, n. 15268). La valutazione dell’entità della pretesa patrimoniale azionata (c.d. posta in gioco), alla quale occorre procedere per accertare l’impatto dell’irragionevole ritardo sulla psiche della parte richiedente, al fine di giustificare l’eventuale scostamento, in senso sia migliorativo che peggiorativo, dai parametri indennitari fissati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, postula perciò l’effettuazione di un giudizio di comparazione con la situazione socioeconomica dell’istante, tale da evidenziare la reale portata dell’interesse di quest’ultimo alla decisione, in ordine al quale il giudice di merito è tenuto a fornire una puntuale motivazione. Dunque, la soglia minima L. n. 89 del 2001, ex art. 2-bis, è tendenziale, vale cioè “di regola”, essendo consentito al giudice di merito nella valutazione equitativa del pregiudizio concreto subito dal cittadino a causa del ritardo del servizio giustizia – scendere al di sotto di quel livello là dove, in considerazione del carattere bagatellare o irrisorio della pretesa patrimoniale azionata nel processo presupposto, parametrata anche sulla condizione del richiedente, vi sia l’esigenza di evitare sovracompensazioni. Nel caso in esame, la Corte d’Appello di Messina è pervenuta alla liquidazione di un indennizzo di Euro 200,00 per ciascuno dei sette anni di ritardo del giudizio possessorio presupposto argomentando dalla sola estensione di “appena 40 mq” del fondo agricolo in contesa e dal “valore irrisorio” dello stesso.

Manca qualsiasi comparazione con la situazione socioeconomica dell’istante, idonea ad evidenziare la reale portata dell’interesse del ricorrente in possessorio alla decisione. Lo stesso limite quantitativo dell’indennizzo, previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3 (nel testo introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2102), presuppone che il giudice dell’equa riparazione individui l’esatto valore della vicenda oggetto del giudizio presupposto (Cass. Sez. 6 – 2, 21/12/2015, n. 25711).

Il decreto impugnato va perciò cassato per nuovo esame della causa, che si uniformerà all’enunciato principio e terrà conto dei rilievi svolti.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato nei limiti delle censure accolte e rinvia alla Corte d’Appello di Messina, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il nella camera di consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 18 settembre 2019.

Depositato in cancelleria il 17 gennaio 2020

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