Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9720 del 14/04/2021

Cassazione civile sez. trib., 14/04/2021, (ud. 11/01/2021, dep. 14/04/2021), n.9720

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 23554/2016 R.G. proposto da:

S.V., rappresentato e difeso dall’avv. Vittorio Giordano,

del Foro di Roma, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio,

denominato “Ludovici Piccone & Partners”, in Roma, Via Sicilia

n. 66, p.e.c. vittoriogiordanoordineavvocatiroma.org;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro-tempore,

rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato,

presso i cui uffici è domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, n.

12

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio,

n. 1241/29/2016, pronunciata il 27.1.2016 e depositata l’8.3.2016;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’11 gennaio 2021 dal consigliere Giuseppe Saieva.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. S.V. (titolare della ditta omonima, esercente attività nel campo della recitazione) impugnava l’avviso di accertamento con cui era stato rettificato il reddito dichiarato per l’anno di imposta 2007, per costi non deducibili ai fini delle imposte dirette pari ad Euro 35.324,00, con conseguenti maggiori imposte IRPEF ed IVA, oltre addizionali regionali e comunali. La rettifica del reddito di lavoro autonomo dichiarato era scaturita dal disconoscimento, ai fini IRPEF ed IVA, dei componenti negativi riconducibili alle fatture emesse da tal ” F.F.” esercente varie attività (tecniche, commerciali e di servizi vari) risultato essere evasore totale. In particolare, avuto riguardo all’anno 2007, il contribuente, oltre a detrarre la corrispondente IVA a credito, aveva decurtato dai propri compensi derivanti dall’attività artistica una quota del 20% (per complessivi Euro 35.324,00) dell’imponibile delle fatture emesse nei suoi confronti dalla ditta F. nel 2006 e 2007 per complessivi Euro 176.620,00 (Euro 96.920.00 per il 2006 ed Euro 79.700,00 per il 2007).

2. La Commissione tributaria provinciale di Roma accoglieva il ricorso del contribuente, in quanto l’avviso anzidetto non risultava preceduto dal necessario contraddittorio preventivo.

3. La Commissione tributaria regionale del Lazio, con sentenza depositata l’8.3.2016, accoglieva l’appello proposto dall’Ufficio finanziario, escludendo che il mancato rispetto dell’obbligo del contraddittorio prima della notifica dell’avviso di accertamento avesse pregiudicato il contribuente, il quale non aveva indicato quali argomenti difensivi avrebbe potuto utilmente rappresentare qualora tale obbligo fosse stato rispettato. Inoltre disattendeva la pretesa dell’appellato di dimostrare mediante la produzione delle fatture l’effettività dei costi sostenuti, che il medesimo asseriva di aver pagato per contanti, senza fornire alcuna prova dell’esistenza, dell’inerenza e della coerenza economica dei costi deducibili contestata dall’Amministrazione finanziaria.

4. Avverso tale decisione il contribuente ha quindi proposto ricorso per la cassazione, affidato a quattro motivi, cui l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

5. Il ricorso è stato fissato nella camera di consiglio dell’11 gennaio 2021, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380 bis 1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 32, 33 e 38, artt. 3,11,24,53,97,111 e 117 Cost. e dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62”, ritenendo violato il proprio diritto al contraddittorio preventivo con riferimento a tutte imposte rettificate “armonizzate” e “non armonizzate”, a prescindere dalla possibilità che il contribuente in sede di contraddittorio, possa o meno fornire elementi, consistenti e non vacui, idonei a confutare l’accertamento; ritenendo comunque contrario alla normativa comunitaria ed in contrasto con la Costituzione la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7 nella parte in cui prevede il contraddittorio preventivo solo in caso di accertamenti eseguiti presso il contribuente e non anche per quelli effettuati “a tavolino”.

1.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 52, 54 e 56 e dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62”, contestando l’assunto della CTR di Roma secondo cui il diritto al contraddittorio sussisterebbe soltanto nel caso in cui il contribuente dimostri di non aver potuto presentare prove che gli avrebbero sicuramente garantito l’archiviazione delle contestazioni penali e non anche nel caso in cui dimostri che avrebbe potuto formulare contestazioni non meramente pretestuose. Lamentava quindi, che così opinando, la CTR di Roma avrebbe subordinato il suo diritto al contraddittorio ad una circostanza che di fatto avrebbe svilito la funzione del contraddittorio medesimo, e cioè di prevenire l’instaurazione del giudizio, consentendo una difesa in sede amministrativa.

2. Detti motivi, suscettibili di esame congiunto per evidente connessione, vanno entrambi disattesi in quanto privi di fondamento.

2.1. Ed invero, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 24823, depositata il 9 dicembre 2015, hanno chiarito che le garanzie fissate nella L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, trovano applicazione esclusivamente in relazione agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente; ciò, peraltro, indipendentemente dal fatto che l’operazione abbia o non comportato constatazione di violazioni.

2.2. Nella medesima occasione le Sezioni Unite hanno chiarito che “differentemente dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purchè, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto”.

2.3. Ciò posto, vanno disattesi i dubbi sollevati dal ricorrente in ordine alla legittimità della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, (come interpretato dalla su menzionata decisione delle Sezioni unite n. 24823/2015), per contrasto con la normativa comunitaria ed i vari principi sanciti dalla Carta costituzionale.

2.4. Invero, come evidenziato dalle S.U. nella sentenza citata (n. 24823/2015) il dato testuale della L. n. 212 del 2000, detto art. 12, comma 7, univocamente tendente alla limitazione della garanzia del contraddittorio procedimentale alle sole “verifiche in loco”, è da ritenersi “non irragionevole”, in quanto giustificato dalla peculiarità stessa di tali verifiche, “caratterizzate dall’autoritativa intromissione dell’Amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente alla diretta ricerca di elementi valutativi a lui sfavorevoli; peculiarità che giustifica, quale controbilanciamento, il contraddittorio al fine di correggere, adeguare e chiarire, nell’interesse del contribuente e della stessa Amministrazione, gli elementi acquisiti presso i locali aziendali”. Siffatta peculiarità, differenziando le due ipotesi di verifica (“in loco” e “a tavolino”), giustifica e rende non irragionevole il differente trattamento normativo delle stesse, con conseguente manifesta infondatezza della ipotizzata incostituzionalità della norma con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. Sempre con riferimento all’art. 3 Cost., deve poi escludersi una questione di costituzionalità, per la duplicità di trattamento giuridico tra “tributi armonizzati” e “tributi non armonizzati”, atteso che, come viene anche in tal caso evidenziato dalla su menzionata sentenza delle S.U. n. 24823/2015, l’assimilazione tra i due trattamenti è preclusa in presenza di un quadro normativo univocamente interpretabile nel senso dell’inesistenza, in campo tributario, di una clausola generale di contraddittorio procedimentale. Del resto, poichè il sistema di tassazione diretta, nel suo complesso, non ha alcun rapporto con quello dell’IVA, non può ritenersi che una soluzione in tema di contraddittorio endoprocedimentale in materia IVA, diversa da quella espressa per i tributi diretti, crei un vulnus al principio di non discriminazione sul versante comunitario, nè a quello della ragionevolezza sul piano interno (cfr. Corte giust. 17 marzo 2007, causa C-35/05; Cass. sez. 5, 27/09/2013, n. 22132). L’affermata insussistenza, nell’ordinamento tributario nazionale, di una clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale non viola, peraltro, nè l’art. 24 Cost., atteso che, come espressamente affermato dalle S.U. (n. 24823/2015), le garanzie di cui all’art. 24 “attengono, testualmente, all’ambito giudiziale”, nè l’art. 111 Cost., in quanto il giudizio tributario, pur nella sua particolarità, è comunque rispettoso del principio della c.d. “parità delle armi”, giacchè, fermo restando il divieto di ammissione della prova testimoniale sancito dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7 il potere di introdurre in giudizio dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, con il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, compete non solo all’Amministrazione finanziaria, che tali dichiarazioni abbia raccolto nel corso d’indagine amministrativa ma, altresì, con il medesimo valore probatorio, al contribuente. (cfr. Cass., Sez. 6, 08/06/2016, n. 11773).

2.5. Tale assetto risulta coerente sia con i principi costituzionali che con la normativa comunitaria che risulta garantita in ambito giurisdizionale attraverso la “prova di resistenza” di cui al principio indicato dalle Sezioni unite con la decisione n. 24823 del 2015, attraverso la verifica delle ragioni che il contribuente avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, ed ancora che “l’opposizione di dette ragioni si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede e al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto” (v. S.U. sentenza citata, nonchè, Sez. 6, 18/03/2016 n. 5502).

3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 21 e 54, degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c., nonchè dell’art. 168 della direttiva 2006/112/CE del consiglio del 28 novembre 2006, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62”, avendo la C.T.R. di Roma erroneamente ripartito l’onere della prova in giudizio, disconoscendo l’esistenza delle prestazioni di carattere pubblicitario acquistate dal ricorrente e ritenendo che incombesse sul contribuente l’onere di dimostrare l’esistenza di tali operazioni, mentre era l’Agenzia delle Entrate a dovere farsi carico della prova della loro inesistenza.

3.1. Il motivo è palesemente infondato.

3.2. Correttamente la C.T.R. ha escluso la sussistenza di costi deducibili “proporzionalmente correlabili ai maggiori ricavi accertati”. Occorre al riguardo rammentare che il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), legittima la presunzione, da parte dell’amministrazione finanziaria, di un reddito maggiore di quello dichiarato dal contribuente sulla base di elementi indiziari dotati dei caratteri della gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c. In presenza di tale presupposto la norma non impone altro onere all’amministrazione ma piuttosto faculta (ed onera) il contribuente a offrire la prova contraria, in particolare, quella dell’esistenza di costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi. Inoltre, poichè nei poteri dell’amministrazione finanziaria in sede di accertamento rientra la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa, l’onere della prova dell’inerenza dei costi, gravante sul contribuente, ha ad oggetto anche la congruità dei medesimi (v. Cass. 26/04/2017, n. 10269; Cass. 25/02/2010, n. 4554; Cass. 30/07/2002, n. 11240).

3.3. Nel caso di specie l’accertamento è stato emesso ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1 sulla base della constatazione che la ditta F., emittente la fattura contestata, non presentava da anni la dichiarazione dei redditi ed era un evasore totale. In tale situazione l’ufficio era legittimato a chiedere informazioni al contribuente e a pretendere la prova concreta del reale sostenimento dei costi e della loro inerenza. In assenza di tale prova, l’Ufficio legittimamente ha emesso l’accertamento spettando al contribuente provare l’effettivo sostenimento dei detti costi e la loro inerenza.

3.4. A tal fine non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa”. (Cass. sent. Sez. 5, 08/10/2014, n. 21184).

3.5. Tali principi sono stati anche ribaditi da codesta Suprema Corte nella recente sentenza n. 6972 dell’8 aprile 2015 secondo cui “il contribuente è tenuto a dimostrare la coerenza economica dei costi sostenuti nell’attività, ove sia contestata dall’Ufficio e, in mancanza di tale prova, è legittima la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’attività”.

3.6. E’ evidente, pertanto, l’infondatezza del motivo sollevato dal contribuente in ordine al riparto sull’onere probatorio.

4. Con il quarto motivo (subordinato) infine il ricorrente deduce “violazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 1, comma 2, art. 5, comma 4 e art. 6, comma 6, del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 32, del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, artt. 15 e 32 nonchè della L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 133, ritenendo che le sanzioni amministrative a lui irrogate andavano ridotte in applicazione del principio del favor rei e dunque rideterminate con riferimento alle più miti misure introdotte dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158.

4.1. Tale richiesta va accolta alla luce della revisione della disciplina di cui al D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, attuativa della L. 11 marzo 2014, n. 23, art. 8, comma 1, atteso che tale riforma finalizzata a introdurre un criterio di proporzionalità e quindi di graduazione della sanzione base, secondo la gravità del comportamento tenuto dal contribuente – si è tradotta nella modifica di alcune norme sanzionatorie che può risultare in concreto più favorevole per il contribuente.

4.2. In pendenza del presente giudizio, l’applicabilità del trattamento più favorevole di cui al D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 norma sopravvenuta alla pronuncia in esame – è consentita dall’art. 32, comma 1, del citato decreto, come modificato dalla L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 133, in conformità all’indirizzo di questa Corte, secondo cui, in applicazione del principio del favor rei (cfr. Sez. 5, 11/11/2020, n. 25357), trova applicazione il trattamento più favorevole assicurato dallo ius superveniens, a condizione che, come nella fattispecie in esame, vi sia un giudizio ancora in corso ed il provvedimento impugnato non sia quindi divenuto definitivo (Cass., sez. 6-5, 27/06/2017, n. 15978; Cass., sez. 5, 21/12/2016, n. 26479; Cass., sez. 5, 9/08/2016, n. 16679; Cass., sez. 5, 24/07/2013, n. 17972; Cass., sez. 5, 31/03/2008, n. 8243). Ne consegue che, in accoglimento della domanda formulata dal ricorrente volta a chiedere l’applicazione dello ius superveniens di cui al D.Lgs. n. 158 del 2015, la sentenza, con riguardo alla determinazione del quantum delle sanzioni irrogate, va cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, ai fini della concreta rideterminazione delle sanzioni, oltre che per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte, rigetta i motivi primo, secondo e terzo del ricorso; accoglie il quarto motivo concernente l’applicazione dello ius superveniens con riguardo alla determinazione delle sanzioni, cassa la sentenza impugnata limitatamente a detto motivo e rinvia la causa alla Commissione tributaria regionale della Lazio, in diversa composizione, per la rideterminazione delle sanzioni e per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 11 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 aprile 2021

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