Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9714 del 26/05/2020

Cassazione civile sez. III, 26/05/2020, (ud. 19/02/2020, dep. 26/05/2020), n.9714

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 651/2019 proposto da:

AIFFAS ONLUS ASSOCIAZIONE ITALIANA FAMIGLIE DI FANCIULLI E ADULTI

SUBNORMALI, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OFANTO 18, presso lo studio

dell’avvocato PIETRO SCIUME’, rappresentata e difesa dall’avvocato

GIUSEPPE NICOSIA;

– ricorrente –

contro

M.G. e D.T., entrambi in proprio e quali

genitori del de cuius MO.GI., M.E.,

M.A., rispettivamente sorella e fratello del de cuius,

elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA PRATI DEGLI STROZZI 32,

presso lo studio dell’avvocato BARBARA BAROLAT MASSOLE,

rappresentati e difesi dall’avvocato MARCO GRECO;

– controricorrenti –

e contro

ALLIANZ SPA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2089/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 06/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

19/02/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza 6.10.2018 n. 2089 la Corte d’appello di Catania in totale riforma della decisione di prime cure, riconosceva la responsabilità delle operatrici socio assistenziali dell’AIFFAS Onlus (Associazione Italiana Famiglie di Fanciulli ed Adulti Subnormali) nella causazione del decesso di Mo.Gi., affetto da oligofrenia medio grave (con invalidità civile pari al 100%) ed affidato alla loro custodia, non essendo stata fornita prova della tempestiva esecuzione dell’intervento di salvataggio che tali operatori erano tenuti ad effettuare (mediante manovra cd. di Heimlich) nel caso – verificatosi nella specie – di ingestione di cibo che aveva provocato il soffocamento del disabile.

Il Giudice di appello, ritenuto che la condotta omessa si poneva in relazione causale con la morte del soggetto e che la struttura associativa convenuta, non aveva fornito la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c., vertendosi in tema di responsabilità contrattuale, la condannava al risarcimento dei danni da perdita del rapporto parentale, liquidati in favore di ciascuno dei genitori e dei due fratelli del de cuius, e dichiarava obbligata ALLIANZ s.p.a. a tenere indenne l’Associazione, in virtù di polizza assicurativa della responsabilità civile, delle somme da quella dovute a titolo risarcimento – nei limiti del massimale di polizza – e per spese di lite.

La sentenza di appello, notificata in data 30.10.2018, è stata ritualmente impugnata per cassazione dalla Associazione che ha dedotto sette motivi, illustrati da memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c..

Resistono con controricorso M.G., D.T., M.E. ed A..

Non ha svolto difese ALLIANZ s.p.a. cui il ricorso è stato notificato in data 19.12.2018 presso l’indirizzo PEC dei difensori in grado di appello.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Primo motivo: violazione del principio del contraddittorio e del giusto processo e dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Sostiene l’Associazione ricorrente che nell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado, nè nella memoria istruttoria depositata ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 6, i danneggiati avevano imputato a colpa degli operatori socio-assistenziali la errata esecuzione della manovra salvavita, essendosi soltanto limitati affermare che il decesso era verosimilmente da ascrivere al difetto di vigilanza ed al ritardato intervento di coloro che avrebbero dovuto assistere il disabile: sicchè la Corte d’appello avendo invece fondato la decisione sulla errata esecuzione della manovra di Heimlich, avrebbe esteso la propria cognizione a fatti non ritualmente allegati dalle parti e quindi non acquisiti all’oggetto del giudizio e sui quali non si era svolto il contraddittorio.

Il motivo è inammissibile in quanto non coglie la “ratio decidendi”.

Premesso che la domanda introduttiva era fondata sull’inadempimento imputabile del rapporto contrattuale di assistenza che l’Associazione forniva al M. nell’espletamento della attività di terapia occupazionale; e premesso ancora che deve ritenersi incontestato che la questione concernente la esecuzione di interventi idonei a soccorrere il disabile risultava acquisita al dibattito processuale, come è dato evincere dalle dichiarazioni – oggetto di esame in primo e secondo grado – rese dalle operatrici socio-assistenziali sia in sede di sommarie informazioni nel corso della indagine penale, sia durante la fase istruttoria svoltasi in primo grado, nonchè dalla stessa difesa svolta in comparsa di costituzione dalla Associazione (vedi ricorso, pag. 10 ove si assumeva chge le operatrici avessero immediatamente eseguito le manovre di salvataggio in quanto “specializzate in primo soccorso avendo effettuato apposito corso per operatore socio assistenziale”), è appena il caso di osservare che la Corte d’appello, dopo aver individuato nella manovra di Heimlich il comportamento esigibile dai soggetti tenuti alla vigilanza ed alla assistenza, ha accertato che alcuna prova era stata fornita dalla Associazione in ordine alla effettiva esecuzione di tale specifica manovra.

Orbene detto accertamento si situa all’interno del perimetro dell’oggetto del giudizio definito dall’inadempimento della obbligazione contrattuale per ritardato soccorso, laddove il ritardo colpevole include anche la omessa tempestiva manovra di soccorso indicata quale unico efficace intervento idoneo a salvare la vita del disabile.

La Corte ha cioè individuato quale fosse il contenuto della prestazione dovuta ed ha accertato, in concreto, che tale prestazione non era stata eseguita, rendendosi del tutto irrilevante, pertanto, verificarne la correttezza.

Secondo motivo: violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La ricorrente impugna la sentenza sostenendo che i danneggiati avevano contestato soltanto il ritardo nell’intervento di soccorso, mentre alcuna contestazione avevano formulato in ordine alla effettiva e corretta esecuzione delle manovre eseguite dal personale. Sicchè la Corte d’appello non tenendo conto del “principio di non contestazione” aveva statuito illegittimamente.

La censura si sviluppa ancora sul piano del requisito della esattezza o meno della prestazione di soccorso effettuata, e non tiene conto che, da un lato, il contestato inadempimento perteneva 1- alla mancata prestazione di vigilanza, 2- al ritardo trascorso tra la crisi da soffocamento e la esecuzione delle manovre di primo soccorso (cfr. trascrizione parziale della memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6: ricorso pag. 11); dall’altro lato, che il Giudice di appello non eccede dall’ambito della predetta contestazione, in quanto non nega che le operatrici siano intervenute, ma non ritiene raggiunta la prova che sia stata tempestivamente praticata la manovra di Heimlich quale prestazione unicamente esigibile e dovuta in relazione al caso concreto, risultando non conformi all’interesse dedotto in contratto – costituito nella specie anche dalla tutela della integrità psicofisica dell’assistito – altri – inutili ed inefficaci-interventi praticati dalle operatrici.

Non può peraltro estendersi il “principio di non contestazione” -come sembra fare la ricorrente – al di fuori dell’ambito della allegazione dei fatti storici; sicchè va escluso che ricada fuori dal “thema probandum”, in virtù dell’applicazione della norma di cui all’art. 115 c.p.c., comma 1, la questione, eminentemente valutativa, della “correttezza o meno” della manovra di soccorso, atteso che la verifica della condotta diligente del debitore attinge all’accertamento dell’elemento soggettivo della colpa, e dunque esprime il risultato di una attività di giudizio volta ad attribuire ad un fatto gli effetti giuridici previsti dalla norma, non confondibile, pertanto, con la constatazione od ammissione della esistenza di un fatto inteso quale fenomeno empirico della realtà.

Terzo motivo: nullità della sentenza per motivazione insufficiente, apparente o perplessa in reazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 2, per avere il Giudice di merito impiegato in modo errato la nozione del “notorio”, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Quarto motivo: vizio di omessa esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Sostiene la ricorrente che il Giudice di appello avrebbe fatto scorretta applicazione della nozione di “fatto notorio”, ponendo a base della decisione, esclusivamente, la omessa esecuzione della manovra di Heimlich, mentre il fatto notorio doveva essere considerato tutto il complesso delle attività prescritte dai manuali della (OMISSIS) per intervenire in caso di soffocamento, definite, nel soffocamento per ingestione di cibo, come manovre di disostruzione (comprensive in caso di perdite di sensi anche della cardiostimolazione e della respirazione artificiale) tra le quali quella di Heimlich costitutiva soltanto una delle fasi. Da ciò la ricorrente trae la conseguenza:

a) che la dichiarazione resa dalla operatrice C. sentita a s.i.t. (trascritta a pag. 5 della sentenza di appello) che aveva riferito di avere “tentato di effettuare alcune manovre che favoriscono l’espulsione dei corpi che occludono le vie respiratorie” includeva anche la manovra di Heimlich, come poi confermato nella deposizione resa in istruttoria dalla teste B.; b) che la valutazione compiuta dal Giudice di appello di inattendibilità della deposizione testimoniale della operatrice B. (riportata a pag. 14 e 18 ricorso) era da ritenere errata, in quanto fondata su un asserito – ma inesistente – contrasto con le precedenti dichiarazioni rese dalla stessa a s.i.t. (“ho tentato di aprirgli la bocca, mentre stava ancora in piedi con l’aiuto della mia collega C.R. la quale lo sorreggeva da dietro”: cfr. sentenza appello in motivazione, pag. 6; riportata nel ricorso pag. 14-17), risultando essere invece le stesse sostanzialmente sovrapponibili.

Il terzo motivo è infondato, mentre il quarto è inammissibile.

Il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati nè controllati, va inteso in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile; non si possono di conseguenza reputare rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari (cfr. Corte cass. II sez. 8.8.2002 n. 11946; id. sez. lav. 7.3.2005 n. 4862; id. III sez. 9.1.2007 n. 195. In particolare cfr. Corte Cass. V sez. 28.2.2008 n. 5232; id. II sez. 31.5.2010 n. 13234; id. Sez. 2 -, Ordinanza n. 33154 del 16/12/2019), o anche solo la pratica di determinate situazioni, nè quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poichè questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio, neppure quando derivi al giudice medesimo dalla pregressa trattazione di analoghe controversie (cfr. Corte cass. II sez. 8.8.2002 n. 11946; id. sez. lav. 7.3.2005 n. 4862; id. III sez. 9.1.2007 n. 195; id. Sez. 1, Sentenza n. 6299 del 19/03/2014).

Orbene proprio il connotato tecnico che contraddistingue le manovre di primo soccorso, esclude che la “manovra di Heimlich” possa rientrare in una nozione comunemente conosciuta e riconosciuta in un ambito sociale diffuso, essendo appena il caso di osservare come tale tecnica di soccorso è insegnata ed appresa solo in seguito ad appositi corsi, come riferito dalla B. (dichiarazione a s.i.t.: ricorso pag. 17; comparsa di risposta in primo grado AIFFAS: ricorso pag. 10).

Se dunque la nozione che la manovra di Heimlich costituisca una tecnica funzionale alla desostruzione delle vie respiratorie, non ricade nella comune esperienza quale fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire incontestabile, ma appartiene all’ambito delle nozioni tecniche per la conoscenza delle quali è richiesta una specifica professionalità o comunque è richiesto uno specifico apprendimento, tale conclusione un inficia per ciò stesso la sentenza di appello, tenuto conto che la Corte territoriale non ha affatto inteso fare ricorso alla nozione del “notorio”, ma, sulla scorta delle indicazioni fornite dalla stessa operatrice specializzata nelle tecniche di primo soccorso, la quale aveva espressamente fatto riferimento alla manovra di Heimlich (compiutamente descritta nella deposizione testimoniale: ricorso pag. 18) quale tecnica di immediato intervento idonea a sbloccare l’esofago, prevista – dalle istruzioni dei corsi specialistici – in caso di soffocamento da ingestione di cibo, unitamente ad altre operazioni che si rendevano necessarie in caso di perdita dei sensi (massaggi cardiaco e respirazione artificiale), ha ritenuto che la esecuzione di tale manovra fosse comunque essenziale per pervenire al risultato sperato. Ne segue allora che non vi è stato impiego da parte del Giudice di una “nozione di comune esperienza”, esterna ed estranea alle allegazioni e prove fornite dalle parti, quanto piuttosto il riconoscimento che anche la manovra di soccorso in questione rientrava nel contenuto della prestazione assistenziale esigibile, da eseguire in favore del disabile, sicchè occorreva indagare sulla effettiva esecuzione della stessa sia al fine del giudizio causale controfattuale, sia per accertare la diligenza della condotta delle dipendenti della Associazione.

Il quarto motivo è, poi, inammissibile in quanto la censura di “errore di fatto” è svolta oltre i limiti consentiti dal vizio di legittimità di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformato dal D.L. n. 83 del 2012, conv. in L. n. 134 del 2012.

La Associazione ricorrente ha indicato come “fatto decisivo omesso” la “dichiarazione resa in sede di sommarie informazioni dalla sig.ra B.”, essendosi limitato il Giudice di appello a considerare e riportare nella motivazione della sentenza solo una parte della stessa, non tenendo conto che la operatrice aveva altresì affermato: 1- che insieme alla collega C. aveva subito effettuato le prime manovre di soccorso; 2- che in precedenza si era verificato un episodio analogo, risolto dalla C. con una manovra che aveva consentito al M. di espellere il cibo che gli impediva la respirazione (dichiarazioni a s.i.t., trascritte nel ricorso pag. 17 e 19).

La ricorrente ha, inoltre, censurato l’erronea rilevazione da parte della Corte territoriale di una asserita difformità tra le dichiarazioni rese a s.i.t. dalle operatrici socio-assistenziali e la deposizione testimoniale resa dalla B. nel corso della istruttoria.

Orbene è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (da ultimo cfr. Corte cass. Sez. U -, Sentenza n. 34476 del 27/12/2019). La ricorrente non indica infatti la omissione di esame di uno specifico fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia: cfr. Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 8053 del 07/04/2014), ma va a criticare l’attività di selezione e valutazione, compiuta dal Giudice di appello, della efficacia dei mezzi di prova assunti in giudizio. E’ infatti consolidata l’affermazione di questa Corte per cui non ricorre il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Corte Cass. Sez. 2 -, Ordinanza n. 27415 del 29/10/2018).

Nella specie risulta che la Corte territoriale ha sottoposto a vaglio critico tanto le dichiarazioni rese a s.i.t. dalle operatrici B. e C., quanto la deposizione testimoniale resa successivamente dalla B., ritenendo che la valenza probatoria di quest’ultima (nella quale veniva fatto espresso riferimento alla esecuzione della manovra di Heimlich da parte della C.) fosse intaccata e resa inattendibile dalla “diversa” dichiarazione resa a s.i.t. nella immediatezza del fatto (nella quale veniva riferito che la C. si era limitata soltanto a sorreggere in piedi il disabile) e da ritenere quindi maggiormente attendibile. Trattasi quindi di valutazione di merito sottratta, pertanto, al giudizio di legittimità, così come esula dalla verifica richiesta a questa Corte la valutazione di merito compiuta dal Giudice di appello in ordine alla divergenza dei fatti riferiti nelle due dichiarazioni della B..

Del tutto priva di decisorietà è poi “l’omesso esame delle dichiarazioni testimoniali delle sigg.re V. e T.” che avrebbero riferito in ordine alla immediatezza del soccorso prestato al M. dalle operatrici. Premesso che la censura non assolve ai requisiti minimi prescritti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6, non essendo trascritto il contenuto delle predette dichiarazioni, nè essendo fornita indicazione del luogo processuale ove rinvenire i relativi verbali di assunzione delle prove orali, osserva il Collegio che la circostanza dell’immediatezza dell’intervento non svolge alcun rilievo decisivo rispetto all’accertamento contenuto in sentenza della omissione di condotta per mancata esecuzione della specifica manovra di salvataggio richiesta nella circostanza di tempo e luogo.

La Associazione ricorrente evidenzia, inoltre, che il Giudice di appello non avrebbe valorizzato anche la ulteriore circostanza -riferita a s.i.t. dalla B. – relativa all’analogo episodio verificatosi in precedenza e risoltosi positivamente con l’intervento della C.. Al proposito va osservato come il Giudice non deve riportare necessariamente tutte le dichiarazioni dei testi, potendo limitarsi a quelle che intende valorizzare e, comunque, la circostanza di fatto riferita non è decisiva (in quanto non individua un fatto secondario inerente la condotta in concreto da accertare nel caso specifico, ma un fatto pregresso esaurito – dal quale non sarebbe in ogni caso possibile inferire logicamente quale condotta, in relazione alla concreta fattispecie, aveva effettivamente tenuto la operatrice C..

Quinto motivo: violazione e falsa applicazione degli artt. 40 e 41 c.p., artt. 1228,2236,2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Deduce l’Associazione ricorrente che il Giudice di appello aveva erroneamente ritenuto provato il nesso di causalità materiale tra la condotta omissiva e l’evento di danno (morte), sebbene tale prova non risultava dagli atti, non essendo stata svolta alcuna autopsia, ed i danneggiati avessero omesso di assolvere al relativo onere probatorio.

Il motivo è infondato.

Occorre premettere che sul piano strutturale del nesso eziologico, inteso come relazione di causa-effetto tra la condotta e l’evento lesivo (violazione del diritto; eventus damni) non vi è distinzione tra illecito extracontrattuale ed illecito contrattuale (inadempimento), se non in relazione al parametro di valutazione che, nel primo caso, deve essere compiuto alla stregua di un giudizio di disvalore-ingiustizia della condotta operato sul paramento del principio del neminem laedere; nel secondo caso invece alla stregua di una mera verifica oggettiva di disformità della prestazione (omessa od inesattamente eseguita) rispetto a quella prevista nel programma negoziale (inadempimento). La imputazione soggettiva della responsabilità civile deriva, nel primo caso dall’esito del giudizio di disvalore; nel secondo caso è già assunta dalla legge che la configura quale effetto giuridico derivante dall’accertamento dell’inadempimento.

Tanto premesso è stato inoltre affermato da questa Corte che elementi di peculiarità interni alla responsabilità contrattuale per inadempimento vanno ravvisati con riguardo a quelle particolari prestazioni di “facere” che caratterizzano i contratti d’opera professionali, in cui – diversamente dalle prestazioni contrattuali di “dare” o di “praestare” una res determinata – di regola l'”eventus damni” si situa al di fuori dell’accertato inadempimento, atteso che l’interesse di colui in favore del quale la prestazione deve essere eseguita, pur costituendo il presupposto necessario del contratto, si colloca tuttavia al di fuori della sfera dell’esigibile e del dovuto, non essendo il professionista in grado di garantire con certezza il risultato finale voluto cui tende – ossia assume carattere strumentale – la prestazione pattuita. Ne deriva una duplicità di interessi coinvolti nel rapporto contrattuale di tipo professionale: un interesse immediato, che è quello di ricevere una prestazione corretta (ossia conforme alle leges artis) e che è tuttavia strumentale al perseguimento dell’interesse sostanziale (principale), consistente nel risultato finale ossia nel conseguimento del “bene della vita” cui tende in realtà il contraente ed al quale è preordinato il programma negoziale. La relazione causale materiale tra condotta ed evento di danno, in tali obbligazioni, va indagata in relazione alla lesione dell’interesse principale, assumendo in tal caso rilievo, la violazione dell’interesse strumentale, come fatto potenzialmente idoneo a cagionare il fallimento dell’obiettivo finale (con eventuali ripercussioni sulla determinazione degli effetti pregiudizievoli ricadenti nella sfera giuridica del cliente: danni-conseguenza), e dunque gravando sul contraente la prova che la prestazione eseguita non era conforme alle “leges artis” e che tale disformità era eziologicamente idonea a determinare l’evento di danno. Soltanto nel caso in cui il creditore ha fornito tale prova, insorge a carico del debitore l’onere della prova liberatoria ex art. 1218 c.c. e cioè, secondo quello che è stato definito “ciclo causale inverso”, la prova di avere adempiuto correttamente alla obbligazione o la prova di una causa oggettiva – non imputabile – ed imprevedibile che ha reso impossibile l’adempimento (cfr. Corta Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 18392 del 26/07/2017; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 21008 del 23/08/2018; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 26700 del 23/10/2018; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 28991 del 11/11/2019).

Tanto premesso la sentenza della Corte di appello risulta essersi conformata a detti principi, laddove: a) ha ricondotto la prestazione assistenziale svolta in favore del disabile nell’area della responsabilità contrattuale; b) ha ritenuto che anche le prestazioni di vigilanza e di primo soccorso (nelle quali è inclusa anche la manovra di Heimlich) integrassero il contenuto della obbligazione assunta dalla Associazione; c) ha accertato la omessa esecuzione di detta manovra di salvataggio; d) ritenuto raggiunta la prova del nesso causale materiale tra tale condotta omissiva e l’evento-morte, applicando il criterio pertinente della tecnica giuridica propria dell’accertamento della responsabilità del diritto civile (cfr. Corte cass. Sez. U., Sentenza n. 576 del 11/01/2008) la quale – a differenza dell’accertamento della responsabilità penale – non richiede la assoluta certezza (intesa come esclusione di qualsiasi ragionevole dubbio) che dal fatto accertato proceda inevitabilmente una determinata conseguenza, ma ritiene sufficiente a fondare il nesso di derivazione causale la applicazione del criterio logico della cd. “elevata certezza probabilistica”, tale per cui un fatto (la condotta omessa), valutato alla stregua di un complessivo esame di tutte le circostanze concrete, viene ad essere riconosciuto – tra molteplici altri fatti tutti astrattamente idonei ad integrare “possibili fattori causali” di un determinato evento – come il “più probabile” fattore genetico, nel senso che l’evento verificatosi può ritenersi “più probabilmente che non” effetto – conseguenza di quel determinato fatto (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10285 del 05/05/2009; id. Sez. 3, Sentenza n. 10741 del 11/05/2009; id. Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 13214 del 26/07/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 21255 del 17/09/2013).

E tale accertamento, condotto attraverso “l’enunciato “contro fattuale” che pone al posto dell’omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato”, è stato svolto dalla Corte d’appello sulla scorta del criterio del “più probabile che non”, conformandosi ad un standard “…di “certezza probabilistica” (che) in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c. d. probabilità logica o baconiana).” (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 584 del 11/01/2008). Il Giudice di appello ha, infatti, individuato tale manovra (non è rilevante qui se isolatamente o congiuntamente ad altre operazioni: massaggio cardiaco e respirazione artificiale) come indispensabile – secondo le istruzioni proprie dei corsi specialistici di pronto soccorso – per il raggiungimento del risultato finale (disostruzione delle vie respiratorie), laddove la probabilità – stimata in percentuale – positiva o negativa del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno che viene riconosciuta alla condotta omessa, altro non è che la modalità in cui opera il criterio logico inferenziale, che – in mancanza di copertura di una legge scientifica o generale – il Giudice deve utilizzare per pervenire all’enunciato “controfattuale”, ponendo al posto dell’omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe assicurato apprezzabili probabilità di evitare (o, comunque, di ridurre significativamente) il danno (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 21894 del 19/11/2004; id. Sez. 3, Sentenza n. 15709 del 18/07/2011).

Tale criterio della “causa prevalente” è stato correttamente utilizzato dalla Corte territoriale avendo questa escluso la esistenza allegata e dimostrata di cause interferenti alternative che abbiano potuto autonomamente determinare “aliquo modo” l’evento danno.

Sesto motivo: nullità della sentenza per motivazione insufficiente, apparente, perplessa in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; violazione dell’art. 1176 c.c., commi 1 e 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La ricorrente impugna la sentenza che avrebbe sostanzialmente riconosciuto la responsabilità contrattuale dell’AIFFAS utilizzando i parametri della colpa professionale medica, quando al contrario era emerso dalla istruttoria che il disabile era stato affidato alla struttura quale “centro di assistenza” tenuto a svolgere “attività di terapia occupazionale” mediante i propri dipendenti che erano “operatori socio-assistenziali” e non medici, infermieri od operatori “socio-sanitari”.

Il motivo è infondato.

Il richiamo contenuto nella sentenza impugnata al precedente di questa Corte n. 632/2000 e n. 4400/2004, in materia di responsabilità sanitaria, è operato esclusivamente ai fini della indicazione dei criteri di accertamento del nesso causale, e non anche al fine della indagine sulla diligenza dovuta nella esecuzione della prestazione contrattuale dalla ONLUS.

Le condizioni psicofisiche dei soggetti che vengono affidati alla struttura, e nel concreto di Mo.Gi. (affetto da oligofrenia medio-grave ed invalido civile al 100%) non consentono di riconoscere nell’episodio accaduto “un fatto imprevisto ed eccezionale” (sic ricorso pag. 24) tale da escludere la responsabilità civile, essendo appena il caso di osservare come la prova liberatoria della impossibilità oggettiva non imputabile richiesta dall’art. 1218 c.c., non possa essere fornita attraverso la asserita eccezionalità di quelle stesse ipotesi di rischio alle quali si intende provvedere proprio attraverso la prestazione contrattuale. E che un soggetto nelle condizioni indicate possa incorrere in soffocamenti da ingestione di cibo non pare affatto un evento imprevedibile tanto più che, come riferito dalle stesse operatrici, un analogo episodio era già accaduto, e tra le competenze specialistiche degli operatori socio assistenziali (OSA) è prevista la acquisizione delle tecniche di primo soccorso.

Nè coglie nel segno la tipologia della attività svolta nel centro (terapia occupazionale), atteso che, avuto riguardo alle particolari condizioni di salute del soggetto che aveva richiesto detta terapia, le obbligazioni assunte dalla Associazione includevano oltre alle prestazioni strettamente inerenti alle attività occupazionali, anche tutte quelle prestazioni accessorie che si rendevano necessarie alla protezione del soggetto disabile e dunque volte a salvaguardare la sua incolumità – nei locali della Associazione durante il periodo in cui rimaneva affidato agli operatori – anche da atti lesivi compiuti da terzi o autoinflitti, nella situazione indicata, pertanto, non atteggiandosi il dovere di sorveglianza dell’incapace naturale in modo differente, per il solo fatto che lo stesso sia affidato ad una struttura sanitaria od altra struttura dedicata di natura diversa (vedi Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 22818 del 10/11/2010).

Settimo motivo: violazione dell’art. 1226 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La ONLUS censura la sentenza di appello in relazione alla statuizione sul quantum liquidato a titolo risarcitori, atteso che il Giudice di merito, avrebbe optato per l’attribuzione di un valore medio rispetto al range previsto dalle Tabelle milanesi, senza tuttavia procedere ad alcun dimensionamento di tale valore in base alle circostanze concrete, essendo notorio che un soggetto affetto da gravissima invalidità come il M. aveva una ridotta aspettativa di vita, ed essendo rimasti silenti i familiari circa la “effettività e consistenza del legame” parentale.

Il motivo è infondato.

La Corte d’appello ha fatto ricorso nell’esercizio del potere discrezionale equitativo ai valori delle Tabelle di Milano che prevedono in caso di danno da perdita del rapporto parentale range differenti tra un minimo ed un massimo in relazione al grado di parentela del sopravvissuto.

Premesso che la circostanza della ridotta aspettativa di vita del soggetto invalido, incidente sulla durata futura del rapporto parentale, è questione nuova e dunque inammissibile, non avendo fornito dimostrazione la ricorrente di averla dedotta nei gradi di merito, così come del pari la circostanza che il defunto conduceva la intera giornata presso il centro di assistenza, osserva il Collegio che il Giudice di appello, in assenza di ulteriori elementi probatori dedotti “hinc et inde” (in tal senso deve intendersi il riferimento al silenzio serbato dagli attori in ordine al legame familiare) ha inteso dimensionare il danno avuto riguardo agli “strettissimi rapporti di parentela” ed all’elemento della “convivenza”, così facendo corretta applicazione dei principi enunciati da questa Corte secondo cui “in tema di pregiudizio derivante da perdita o lesione del rapporto parentale, il giudice è tenuto a verificare, in base alle evidenze probatorie acquisite, se sussistano uno o entrambi i profili di cui si compone l’unitario danno non patrimoniale subito dal prossimo congiunto e, cioè, l’interiore sofferenza morale soggettiva e quella riflessa sul piano dinamico-relazionale, nonchè ad apprezzare la gravità ed effettiva entità del danno in considerazione dei concreti rapporti col congiunto, anche ricorrendo ad elementi presuntivi quali la maggiore o minore prossimità del legame parentale, la qualità dei legami affettivi (anche se al di fuori di una configurazione formale), la sopravvivenza di altri congiunti, la convivenza o meno col danneggiato, l’età delle parti ed ogni altra circostanza del caso.” (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 28989 del 11/11/2019), dovendo precisarsi, peraltro, che – come sembra emergere dalla sentenza- la liquidazione ha interessato la sola componente dinamico -relazionale del danno non patrimoniale.

Pertanto anche sotto tale profilo la sentenza impugnata va esente da censura.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la Associazione soccombente va condannata alla rifusione delle spese di lite liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Condanna a ricorrente al pagamento in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.500.00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il versamento, se e nella misura dovuto, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 19 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020

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