Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9713 del 26/05/2020

Cassazione civile sez. III, 26/05/2020, (ud. 19/02/2020, dep. 26/05/2020), n.9713

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30370/2018 proposto da:

S.V., elettivamente domiciliato in ROMA, FORO TRAIANO,

1/A, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO PALMA, rappresentato e

difeso dall’avvocato ANTONINO LATTUCA;

– ricorrente –

contro

I.F., T.F.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 818/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 10/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

19/02/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Catania sezione distaccata di Giarre, rilevato che nei confronti di I.F. e di T.F. era stato emesso decreto penale di condanna, non opposto, per il reato previsto e punito dall’art. 110 c.p. e art. 595 c.p., comma 1 e 3, per avere diffamato l’onore di S.V. – già loro insegnante presso il Liceo Scientifico di (OMISSIS) – mediante pubblicazione di una pagina web che rappresentava in fotomontaggio la figura del professore in abiti femminili discinti, con sentenza in data 25.2.2013 condannava i responsabili al risarcimento del danno non patrimoniale liquidato in relazione a ciascuno di essi in Euro 30.000,00.

La Corte d’appello di Catania, in parziale riforma della decisione di prime cure, rideterminava in complessivi Euro 5.000,00 -importo comprensivo di rivalutazione ed interessi- l’ammontare del danno non patrimoniale, condannando gli appellanti in solido al relativo pagamento.

Avverso tale sentenza, non notificata, ricorre per cassazione S.V., deducendo due motivi, con atto notificato in data 23.10.2018 all’indirizzo PEC del difensore di I.F. e di T.F. i quali non hanno svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza di appello per non avere fatto corretta applicazione del potere di equità integrativa nella liquidazione del danno sostenendo che doveva ritenersi illegittima la riduzione dell’ammontare risarcitorio operata dal Giudice di appello per violazione degli artt. 113, 115 e 116 c.p.c.; artt. 2729, 1223, 1226, 1227, 2043, 2056 e 2059, nonchè dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Il ricorrente si lamenta della riduzione del quantum operata dalla Corte d’appello sostenendo: a) che la somma di Euro 60.000,00 liquidata dal primo giudice “non era del tutto sproporzionata”; b) che il fatto penalmente illecito era da considerare di “particolare gravità”; c) che la diffusione della immagine era “vasta” in quanto i visitatori del sito non erano in n. di 322 come ritenuto dalla Corte d’appello, ma in numero di 632; d) che la riduzione del quantum era “immotivata” ed illegittima la condanna “in solido”, anzichè pro quota.

Il motivo così formulato è inammissibile per le seguenti ragioni.

La pletora di norme di diritto – asseritamente violate dal Giudice di merito indicate in rubrica comprende fattispecie del tutto dissimili (nesso di causalità materiale; nesso di causalità giuridica; potere di liquidazione equitativa del danno; illecito extracontrattuale; danno non patrimoniale da reato; prova presuntiva; prudente apprezzamento nella valutazione delle prove; è indecifrabile invece la mera indicazione della violazione dell’art. 111 Cost., senza altra specificazione) che trovano solo in parte riscontro nella esposizione del motivo, sicchè la mancanza di specifica corrispondenza tra la norma di diritto denunciata come violata e gli argomenti in fatto e diritto svolti a supporto della censura, impedisce la stessa individuazione della esatta critica svolta nei confronti delle statuizioni impugnate. Al riguardo questa Corte ha affermato il principio secondo cui il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla Corte regolatrice di adempiere il suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di “errori di diritto” individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (cfr. Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5353 del 08/03/2007).

Anche volendo ricondurre le doglianze soltanto alla denuncia di illegittimità dell’esercizio del potere di liquidazione del danno per violazione dell’art. 2056 c.c. (alla stregua del criterio per cui la incertezza nella indicazione della norma violata non determina l’inammissibilità del motivo laddove dalla esposizione emerga in modo inequivoco quale sia la norma assunta a parametro del sindacato di legittimità: Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4439 del 25/02/2014), osserva il Collegio che gli argomenti svolti meramente reiterativi di quelli tratti dalla motivazione della sentenza di prime cure: trascritta alle pag. 8-14 del ricorso per cassazione – si riducono tutti ad una mera contrapposizione della soggettiva valutazione delle risultanze istruttorie prospettata dal ricorrente a quella compiuta dal Giudice di appello, venendo surrettiziamente il ricorrente, attraverso la denuncia dell’errore di diritto, a richiedere l’esame del merito.

Premesso che deve ritenersi infondata la denuncia di omessa integrale determinazione del danno da liquidare anche con riferimento al ristoro del pregiudizio arrecato dalla mancata disponibilità della somma liquidata a titolo risarcitorio nel periodo intercorso dall’illecito all’attualità, posto che il Giudice di appello ha espressamente quantificato anche la voce di danno da ritardo, avendo liquidato in via equitativa il complessivo di importo di Euro 5.000,00 comprensivo di “rivalutazione monetaria ed interessi”. E premesso ancora che non può ravvisarsi un vizio di “error juris” nella condanna al risarcimento del danno, disposta in via solidale nei confronti degli autori dell’illecito (in tal senso sembra doversi intendere la critica, invero criptica, così formulata: “la sentenza escludeva la condanna, in via solidale, in danno di ogni singola parte processuale”), atteso che la solidarietà deriva dalla stessa previsione di legge (art. 2055 c.c., comma 1) ed il danneggiato non vanta alcun interesse in proprio alla eventuale ripartizione pro quota delle rispettive responsabilità dei coobbligati, trattandosi di domanda di accertamento riservata soltanto a questi ultimi, in quanto esclusivamente funzionale all’eventuale azione di regresso da esperire nei rapporti interni ai condebitori, osserva il Collegio che non assolve al requisito di ammissibilità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, dell’indispensabile critica in diritto, volta ad evidenziare l’errore concernente i presupposti applicativi della norma o l’inosservanza dei principi informatori del risarcimento del danno non patrimoniale, la semplice ed anapodittica declamatoria della ingiustizia della statuizione impugnata, mediante riproposizione delle valutazioni di merito poste a fondamento della sentenza di prime cure e disattese dalla Corte d’appello.

A tal fine occorre rilevare che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare: non è possibile, invece, in tal modo surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 10607 del 30/04/2010). Pertanto, se la applicazione del criterio di liquidazione in via equitativa non esonera la parte stessa dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinchè l’apprezzamento equitativo sia per quanto possibile, ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell'”iter” della determinazione dell’equivalente pecuniario del danno (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 13288 del 07/06/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 127 del 08/01/2016), potendo, invero, farsi ricorso alla liquidazione in via equitativa, allorchè sussistano i presupposti di cui all’art. 1226 c.c., solo a condizione che l’esistenza del danno sia comunque dimostrata, sulla scorta di elementi idonei a fornire parametri plausibili di quantificazione (cfr. Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 3794 del 15/02/2008) atteso che, come è stato puntualmente rilevato da questa Corte, la necessità della prova di un concreto pregiudizio economico sussiste finanche nelle ipotesi di danno “in re ipsa”, in cui la presunzione si riferisce solo all'”an debeatur”, e non anche alla entità del danno ai fini della determinazione quantitativa e della liquidazione dello stesso per equivalente pecuniario (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16202 del 18/11/2002), osserva il Collegio che l’ambito del sindacato di legittimità non può che essere delimitato – oltre alla ipotesi della contestazione della non conformità a diritto dell’attività del Giudice che ha ritenuto insussistenti i presupposti legali per procedere alla liquidazione equitativa del danno, richiede, pertanto, che la parte provi che sia “obiettivamente impossibile” o “particolarmente difficile” dimostrare il danno nel suo preciso ammontare: Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 18804 del 23/09/2015 – alla verifica del “modus procedendi” seguito dal Giudice di merito nella commisurazione del valore equivalente delle conseguenze dannose.

Al proposito vale rilevare che, per quanto nell’operare in concreto la valutazione equitativa il Giudice di merito non sia tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata dell’ammontare del danno liquidato, egli è tenuto, tuttavia, a fornire adeguata indicazione del procedimento logico attraverso il quale è pervenuto a giudicare proporzionata una certa misura del risarcimento ed a precisare i criteri assunti a base del procedimento valutativo, restando in ogni caso escluso che la valutazione del danno così operata possa essere palesemente sproporzionata per difetto o per eccesso, od affidata a mere valutazione soggettive che, in quanto sottratte a qualsiasi verifica oggettiva, trasmodano in un esercizio arbitrario del potere discrezionale (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 409 del 15/01/2000; id. Sez. 3, Sentenza n. 752 del 23/01/2002; id. Sez. 3, Sentenza n. 6285 del 30/03/2004; id. Sez. L, Sentenza n. 16992 del 18/08/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 8213 del 04/04/2013; id. Sez. 1, Sentenza n. 12314 del 15/06/2015; id. Sez. 1, Sentenza n. 5090 del 15/03/2016; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 24070 del 13/10/2017; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 2327 del 31/01/2018; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 22272 del 13/09/2018).

Tale indagine presuppone quindi la previa individuazione del parametro di riferimento al quale sottoporre la logicità della determinazione, e che per essere coerente deve evidentemente essere tratto da indicazioni fornite dalle norme, principi, clausole generali, prassi che intervengono a regolare la specifica materia interessata in concreto dalle conseguenze dannose che debbono essere risarcite (cfr., solo a titolo esemplificativo: Corte Cass. Sez. L, Sentenza n. 704 del 26/01/1999 secondo cui in tema di danno per mancata fruizione del riposo settimanale del lavoratore, ha individuato i parametri alla stregua dei quali condurre il sindacato di legittimità dell’esercizio del potere di liquidazione equitativa del danno, nella funzione di tutela del benessere fisiopsichico svolta dalla prescrizione del riposo obbligatorio ex art. 36 Cost., nella gravosità delle varie prestazioni lavorative e di eventuali strumenti e istituti affini della disciplina collettiva, nonchè in quelle eventuali clausole collettive che si limitino a disciplinare il “risarcimento” riconosciuto al lavoratore nell’ipotesi medesima. Vedi: Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 19733 del 02/10/2015 che, nella liquidazione equitativa del danno determinato da responsabilità gestionale dell’amministratore societario, non ha ritenuto congrua la liquidazione del danno commisurata alla semplice differenza tra la situazione patrimoniale della società all’inizio della gestione del suddetto amministratore e quella risultante al momento della dichiarazione di fallimento, in quanto in tale variazione potevano interferire anche altri fattori causali estranei alla condotta del responsabile. Nell’ambito del danno da perdita reddituale futura Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 9170 del 05/11/1994, id. Sez. 3, Sentenza n. 4186 del 02/03/2004; id. Sez. 3, Sentenza n. 1215 del 23/01/2006, hanno ritenuto non arbitraria la liquidazione compiuta in relazione ai parametri costituiti dai coefficienti di capitalizzazione della rendita fissati nelle tabelle di cui al R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403, dalla specifica attitudine lavorativa in concreto riscontrabile nel soggetto leso e siano stati applicati correttivi che tengano conto della scarto tra vita fisica e vita lavorativa).

Tanto premesso la Corte d’appello, investita dal motivo di gravame degli appellanti, ha rivisitato il materiale probatorio ritenendo sovradimensionato il valore equivalente del danno riconosciuto dal primo Giudice

riconsiderando la modesta capacità offensiva del fotomontaggio, rilevando altresì che nessuna utile indicazione era stata fornita dal danneggiato in ordine alla sua vita privata ed alle sue condizioni personali tali da consentire un diverso e più grave apprezzamento della lesione sofferta la limitata diffusione della pagina web visitata nell’arco di sei mesi da circa 322 persone, che indiceva a circoscrivere l’ambiente agli studenti del Liceo in cui il professore insegnava.

Pertanto, escluso che la rideterminazione dell’ammontare sia inficiata dal vizio di carenza assoluta di motivazione (sussistendo il requisito materiale e strutturale, richiesto nel suo minimo costituzionale, per la validità del provvedimento giurisdizionale), osserva il Collegio che tale “modus procedendi” non è trasmodato in una liquidazione “equitativa pura”, caratterizzata dalla applicazione di criteri meramente soggettivi, nè tanto meno è sconfinato nell’arbitrio, inteso come assenza di qualsiasi indicazione dei criteri che hanno orientato la “aestimatio”, atteso che – al contrario – vengono forniti dal Giudice di merito i criteri obiettivi idonei a valorizzare le singole variabili del caso concreto ed a consentire la verifica “ex post” del ragionamento seguito dal Giudice in ordine all’apprezzamento della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell’entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d’animo (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20895 del 15/10/2015).

Ne segue che, a fronte di una chiara esposizione nella motivazione della sentenza del criterio di liquidazione applicato dal Giudice di merito, spettava al ricorrente dedurre specificamente gli argomenti fattuali e giuridici intesi specificamente ad evidenziare quali aspetti di illegittimità inficiassero il criterio di liquidazione integrativa, per violazione di eventuali criteri legali o per assoluta contraddittorietà o ancora per conclamato contrasto oggettivo con i dati di comune esperienza (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 1529 del 26/01/2010; id. Sez. L, Sentenza n. 12318 del 19/05/2010).

Al proposito l’unico elemento fattuale indicato dal ricorrente, concernente il numero dei visitatori del sito web, appare estremamente impreciso ed equivoco, venendo qui in esame il secondo motivo di ricorso con il quale si deduce il vizio di omesso esame di fatto storico decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non avere correttamente esaminato la Corte d’appello i documenti depositati nel fascicolo di primo grado da cui risulterebbe un numero più elevato di utenti.

Premesso che anche il Tribunale aveva rilevato che il sito era stato consultato il 2 giugno 2004 da 283 visitatori e il 5 luglio 2004 da 322, l’affermazione del ricorrente secondo cui i visitatori sarebbero stati invece n. 632 al 2.6.2004 e n. 322 al 5.7.2004 (ricorso pag. 22) lascia del tutto inesplicata la critica rivolta alla statuizione della sentenza di appello, atteso che il Giudice di merito aveva, invece, accertato come la variazione rilevata dal Tribunale corrispondesse non al numero giornaliero di presenze, sibbene a quella massima registrata sul sito web, dal quale emergeva un numero complessivo di visitatori tra dicembre 2003 e luglio 2004 pari a 322 (ossia il numero di visitatori tra giugno e luglio si era incrementato di 39 unità, da 283 a 322). Tale accertamento in fatto non viene idoneamente investito dal ricorrente con il motivo in esame, laddove lo stesso si limita soltanto a riferire che i documenti prodotti nei gradi di merito riportavano un numero maggiore di utenti, senza tuttavia specificare quale fosse il criterio di rilevamento utilizzato negli atti di indagine svolti dalla Polizia giudiziaria, se ad esempio riferito a singolo accesso/giornaliero o se riferito al numero complessivo di accessi nel corso dell’intero periodo, se riferito alla sola pagina web o se in ipotesi calcolato con riferimento all’accesso alle diverse pagine del medesimo portale (dalla intitolazione dei documenti risulta soltanto, in un caso, il numero “632” degli utenti, ma privo di riferimenti cronologici; in un altro la indicazione di imprecisati “voti 321 su 322”; in un altro ancora l’indicazione dei visitatori “n. 954” priva di riferimento cronologico).

Essendo appena il caso di aggiungere che, qualora – invece – fosse da ritenere incontestato il fatto storico del numero degli utenti indicato dal ricorrente, allora appare evidente come l’errore di percezione commesso dal Giudice di appello avrebbe dovuto essere contestato con l’idoneo mezzo impugnatorio della revocazione ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4.

In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il versamento, se e nella misura dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 19 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020

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