Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9713 del 22/04/2013


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 9713 Anno 2013
Presidente: BERRUTI GIUSEPPE MARIA
Relatore: TRAVAGLINO GIACOMO

SENTENZA
sul ricorso 15459-2007 proposto da:
TAPPARO MARIO, elettivamente domiciliato in ROMA,
P.ZA PRATI DEGLI STROZZI 30, presso lo studio
dell’avvocato MOLFESE ALESSANDRA, rappresentato e
difeso dall’avvocato MOLFESE FRANCESCO giusta delega
in atti;
– ricorrente –

2013

contro

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ALER

AZIENDA

EDILIZIA

LOMBARDA

RESIDENZIALE

01349670156, in persona del Presidente arch. LUCIANO
NIERO e del Direttore Generale avv. DOMENICO

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Data pubblicazione: 22/04/2013

IPPOLITO, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio
dell’avvocato MANZI LUIGI, che la rappresenta e
difende unitamente all’avvocato BASILE GRAZIA giusta
delega in atti;

avverso la sentenza n. 279/2007 della CORTE D’APPELLO
di MILANO, depositata il 17/10/2006 R.G.N. 4447/03;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 08/01/2013 dal Consigliere Dott. GIACOMO
TRAVAGLINO;
udito l’Avvocato FRANCESCO MOLFESE;
udito l’Avvocato EMANUELE COGLITORE per delega;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. COSTANTINO FUCCI che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

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– controricorrente

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nell’aprile del 2001 Mario Tapparo convenne in giudizio,
dinanzi al tribunale di Milano, la ALER (Azienda lombarda
edilizia residenziale di Milano), chiedendo che, previa
dichiarazione e riconoscimento dell’esistenza di un contratto

convenuto, fosse pronunciata sentenza costitutiva degli
effetti del contratto definitivo non concluso per fatto e
colpa dell’azienda milanese.
In via subordinata, l’attore chiese ancora che – nell’ipotesi
di mancato riconoscimento dell’esistenza del detto preliminare
– il tribunale pronunciasse condanna al rimborso delle spese
sostenute per la ristrutturazione dell’appartamento.
Espose il Tapparo, a fondamento delle proprie pretese:
– Che sua madre, Italia Bergamini, assegnataria dell’alloggio
oggetto di controversia, era stata informata, il 18 aprile
1997, dall’allora IACP, della possibilità di acquistare
l’appartamento;
– Che ella aveva conseguentemente presentato all’istituto una
formale richiesta di acquisto al prezzo indicato, provvedendo
altresì, il successivo 4 giugno, al versamento di circa
600.000 lire per spese istruttorie della pratica;
– Che nel marzo del 1999 la madre – della quale egli si
dichiarava convivente – era deceduta;
– Che il successivo 26 luglio la Aler (nelle more succeduta
all’Iacp) gli aveva inviata una lettera con la quale lo si
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preliminare di vendita stipulato tra la propria madre e l’ente

invitava a lasciare libero l’appartamento in qualità di
“congiunto non avente diritto all’alloggio”.
Il giudice di primo grado accolse la domanda, trasferendo
all’attore la proprietà dell’immobile dietro versamento della
somma di circa 23 mila euro, ritenendo che, nella specie, un

concluso tra le parti, in conseguenza dell’incontro delle
relative volontà rappresentato, da un canto, dalla proposta di
vendita da parte dell’ente (costituita dalla lettera
dell’aprile 1997), e, dall’altro, dalla accettazione della
Bergamin, costituita dalla spedizione del modulo di richiesta
di acquisto.
La corte di appello di Milano, investita del gravame proposto
dalla Aler, lo accolse sotto un duplice, concorrente profilo,
ritenendo:
che la missiva posta da tribunale a base del presunto
procedimento di formazione del consenso alla stipula di un
compromesso non contenesse, in realtà, alcuna manifestazione
di volontà di obbligarsi da parte dell’ente, avendo di
converso la sola funzione di informare gli aventi diritto
della possibilità di acquistare gli alloggi di cui essi
risultavano assegnatari, come inequivocabilmente emergeva
dalla piana interpretazione del lessico e delle espressioni
utilizzati nella missiva (“qualora non intendesse aderire al
presente invito per l’acquisto”), indicative della volontà

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vero e proprio contratto preliminare si fosse ritualmente

dell’ente di invitare gli interessati a presentare una domanda
che, comunque, non sarebbe risultata vincolante;
che Mario Tappato non si sarebbe comunque trovato nella
condizione soggettiva richiesta per l’acquisto dell’alloggio,
richiesta in capo al successore mortis causa dell’avente

convivenza con la madre tanto al momento della presentazione
della domanda di acquisto da parte di quest’ultima quanto al
momento della sua morte.
Esaminata, poi, la domanda subordinata svolta dall’attore in
prime cure, la corte meneghina la respinse per difetto di
prova – non essendo state nemmeno riproposte, all’uopo, le
istanze istruttorie avanzate in primo grado.
La sentenza è stata impugnata dalla difesa del Tappato con
ricorso per cassazione articolato in 3 motivi.
Resiste la Aler con controricorso.
Le parti hanno entrambe depositato memorie illustrative.
MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è infondato.
Con il primo motivo,

si denuncia

violazione e/o mancata

applicazione degli artt. 1351, 2932 c.c. in riferimento
all’art. 360 n. 3 c.p.c..
La censura è corredata dal seguente quesito di diritto
(formulato ex art 366 bis c.p.c. applicabile, nella specie,
ratione temporis,

essendo stata la sentenza d’appello

depositata nel vigore del D.lgs. 40/2006):

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diritto in particolare, mancava il requisito della

Si chiede che la Suprema Corte voglia cassare la sentenza
emessa dalla corte di appello di Milano per violazione
dell’art. 360 n. 3 c.p.c. in riferimento alla mancata
applicazione delle norme regolanti il contratto preliminare di
vendita immobiliare di cui all’art. 1351 e 2932 c.c. tenuto

contratto venivano raggiunti tra le parti, con proposta Aler
che veniva accettata dalla signora Bergamini.
Il motivo è destituito di fondamento.
Al di là dei suoi (non lievi) profili di inammissibilità
formale (presentando il quesito di diritto così formulato
caratteristiche di indubbia genericità ed astrattezza, in
contrasto con quanto ripetutamente e consonantemente
affermato,

in subiecta materia,

da questa corte regolatrice),

la sua infondatezza nel merito si coglie alla luce della
corretta e condivisibile motivazione adottata,

in parte qua,

dalla corte territoriale che ha efficacemente spiegato, senza
incorrere in errori logico-giuridici, il perché la missiva
indirizzata al potenziale acquirente dell’alloggio non facesse
sorgere in capo a quest’ultimo alcun diritto diverso da quello
dell’istruzione della pratica da parte dell’ente onde
accertare l’esistenza di tutte le condizioni necessarie per
addivenire alla stipula dell’atto (preliminare o definitivo)
di compravendita.
La censura appare pertanto irrimediabilmente destinata ad
infrangersi sul corretto impianto motivazionale adottato dal

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cponto che tutti gli elementi essenziali e secondari del

giudice d’appello dianzi descritto, dacché essa, nel suo
complesso, pur lamentando formalmente una (peraltro del tutto
generica) violazione di legge (che in realtà nasconde una
doglianza di tipo sostanzialmente motivazionale), si risolve,
nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile)

definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente,
difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della
sentenza concretamente rilevante sotto il profilo di cui
all’art. 360 n. 3 c.p.c., si volge piuttosto ad invocare una
diversa lettura delle risultanze procedimentali così come
accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo
all’impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili,
canto, per la mancata trascrizione,

da un

in parte qua, degli atti

di causa la cui interpretazione egli assume errata (con
conseguente violazione del noto principio di autosufficienza
del ricorso per cassazione),

dall’altro, perché la valutazione

delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione,
postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva
al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del
proprio convincimento e della propria decisione una fonte di
prova con esclusione di altre, nel privilegiare una
ricostruzione

a

circostanziale

scapito

di

altre

(pur

astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non
incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del

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richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come

proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad
affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale
ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. E’ principio
di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 del
codice di rito non conferisce in alcun modo e sotto nessun

merito della causa, sia pur sotto le spoglie dell’oggi
lamentato vizio di falsa applicazione di norme, consentendo ad
essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo
logico-formale e della conformità a diritto – delle
valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto,
va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio
convincimento valutando le prove (e la relativa
significazione), controllandone la logica attendibilità e la
giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali
alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di
prove cd. legali, tassativamente previste dal sottosistema
ordinamentale civile).

Il

ricorrente, nella specie, pur

denunciando, apparentemente, una violazione di legge in cui
sarebbe incorsa la sentenza di secondo grado,
inammissibilmente (perché in contrasto con gli stessi limiti
morfologici e funzionali del giudizio di legittimità)
sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze
quoad effectum) sì come emerse

di fatto (ormai cristallizzate

nel corso del precedente grado del procedimento, così
mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del

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aspetto alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare il

giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo
grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il
contenuto, ormai stabilizzato

quoad factum,

di eventi e

vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore
di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto

condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la
sostituzione con altre più consone ai propri

desiderata – r

quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei
fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili
dinanzi al giudice di legittimità.
In particolare, poi, quanto all’interpretazione adottata dai
giudici di merito con riferimento al contenuto della
convenzione negoziale per la quale è processo, alla luce di
una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte
regolatrice va nuovamente riaffermato che, in tema di
ermeneutica contrattuale, il sindacato di legittimità non può
investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene
all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di
merito, ma esclusivamente il rispetto dei canoni normativi di
interpretazione (sì come dettati dal legislatore agli artt.
1362 ss. c.c.) e la coerenza e logicità della motivazione
funditus,

addotta (così, tra le tante,

Cass. n.2074/2002):

l’indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente
al giudice di merito, e può essere censurata in sede di
legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per

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ancora le opzioni espresse dal giudice di appello – non

violazione delle relative regole di interpretazione (vizi
entrambi impredicabili, con riguardo alla sentenza oggi
impugnata), con la conseguenza che deve essere ritenuta
inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà
negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella

degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati (e tanto è
a dirsi pur volendo prescindere dall’ulteriore profilo di
inammissibilità del ricorso, che non contiene alcuna censura
relativa alla seconda

ratio decidendi

adottata dalla corte

milanese in punto di impredicabilità della pur necessaria
convivenza tra l’avente diritto all’acquisto, ormai deceduta,
e il suo erede, oggi ricorrente).
Con il secondo motivo,

si denuncia

applicazione dell’art.

360 n.

violazione e/o mancata

5 c.p.c. per omessa e

insufficiente motivazione circa un punto decisivo della
controversia in relazione alla domanda subordinata di
risarcimento delle somme esborsate per miglioria immobile.
La censura è corredata dal seguente quesito (che, in via
interpretativa, può essere assimilato “alla chiara indicazione
del fatto controverso” richiesto dalla norma di cui all’art.
366 bis volta che ad essere rappresentato in sede di ricorso
sia un vizio motivazionale e non anche una censura ex art. 360
n. 3 e 4 c.p.c.):
Se la Corte di appello di Milano abbia fatto buon governo
delle prove offerte in relazione a un fatto decisivo della

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1/1

sola prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva

controversia nonché se sia conforme a legge la omessa
pronuncia sulla richiesta di CTU espressamente richiesta
dall’attore in riferimento alla ritenuta violazione dell’art.
360 n. 5 c.p.c. per insufficiente e contraddittoria
motivazione in merito a fatto decisivo per il giudizio

di appello.
La doglianza è anch’essa destituita di fondamento.
Il rigetto dell’istanza

de qua per assoluta genericità della

medesima (avendo la torte territoriale correttamente osservato
che “l’appellato non ha neppure indicato quali lavori
sarebbero stati eseguiti e non ha riproposto le istanze
istruttorie avanzate in primo grado”: così al folio 9 della
sentenza impugnata i giudici milanesi d’appello) si sottrae
ipso facto alle censure mosse al giudice territoriale che, in
tale situazione di assoluta carenza probatoria, non avrebbe
potuto certo disporre una CTU dalla funzione evidentemente
sostitutivo-esplorativa, perciò solo inammissibile.
Con il terzo motivo,

si chiede che la corte, in caso di

accoglimento del primo motivo, voglia provvedere nel merito e
conseguentemente accogliere la domanda avanzata in prime cure.
Il motivo è assorbito in conseguenza del rigetto di quelli che
lo precedono.
La disciplina delle spese – che possono per motivi di equità
essere in questa sede compensate alla luce del contrastan te

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i/

i)

limitatamente alla domanda subordinata sottoposta alla corte

andamento del complessivo giudizio di merito – segue come da
dispositivo.
P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio
di cassazione.

Così deciso in Roma, li 8.1.2013

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