Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9709 del 13/05/2015


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Civile Sent. Sez. 5 Num. 9709 Anno 2015
Presidente: ADAMO MARIO
Relatore: VELLA PAOLA

SENTENZA

sul ricorso 10815-2009 proposto da:
GCE MUJELLI SPA in persona dell’Amministratore
Delegato e legale rappresentante pro tempore,
elettivamente domiciliato in ROMA VIALE CASTRO
PRETORIO 122, presso lo studio dell’avvocato ANDREA
RUSSO, che lo rappresenta e difende con procura
2015
238

notarile del Not. Dr. BERLIRI CLAUDIO in VERONA rep.
n. 22796 del 27/03/2009;
– ricorrente contro
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI

Data pubblicazione: 13/05/2015

o

PORTOGHESI 12,

presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –

avverso la sentenza n. 18/2008 della
COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST.

di

VERONA,

depositata il

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 19/01/2015 dal Consigliere Dott.

PAOLA

VELLA;

udito per il ricorrente l’Avvocato RUSSO che si
riporta integralmente ai motivi ricorso e chiede
l’accoglimento;
udito per il controricorrente l’Avvocato CASELLI che
ha chiesto il rigetto;
udito

il P.M.

in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott.

PAOLA MASTROBERARDINO che ha concluso

per il rigetto del ricorso.

19/03/2008;

RITENUTO IN FATTO
A seguito di verifica fiscale relativa al periodo di imposta 2002, l’Agenzia
delle entrate notificava alla G.C.E. MUJELLI S.p.A., in data 21.4.05, avviso di
accertamento relativo a costi ritenuti non deducibili per errata duplice
registrazione, spese amministrative analogamente ritenute non deducibili per
difetto di competenza, costi per consulenze (pari ad C 76.359,00) ritenuti non
inerenti perché non utili o vantaggiosi e non essenziali per la produzione dei
ricavi, ed infine ricavi non dichiarati (pari ad C 117.174,00) riconducibili al

estere del gruppo a prezzo molto più basso di quello praticato ai clienti
indipendenti).
La società impugnava l’avviso eccependone la carenza di motivazione e
deducendo, nel merito, che le spese per consulenza erano in realtà
effettivamente utili e che le diversità tra le forniture alle consociate e quelle ai
clienti indipendenti giustificavano il maggior sconto applicato alle prime.
Avverso la sentenza con cui la Commissione tributaria provinciale di Verona
aveva accolto parzialmente il ricorso, limitatamente al recupero per transfer
pricing (ridotto ad C 30.465,00) proponeva appello la contribuente, per insistere
su tutti i profili disattesi dal giudice di prime cure.
Con sentenza n. 18/15/08 la Commissione tributaria regionale del Veneto ha
rigettato l’appello, ritenendo insussistente la carenza di motivazione dell’avviso
(adeguatamente motivato e comunque preceduto dalla notifica del p.v.c.), e
corretti i recuperi operati dall’amministrazione finanziaria, tanto per le spese di
consulenza (la genericità della cui descrizione in fattura non aveva consentito di
accertarne l’inerenza) quanto per il transfer pricing (essendosi già provveduto ad
una riduzione del recupero in forza della segnalata diversità di condizioni tra le
vendite alle consociate estere e quelle ai clienti indipendenti italiani).
Per la cassazione della sentenza d’appello, depositata il 19.3.2008 e non
notificata, la società contribuente ha proposto ricorso notificato il 29.4.2009,
affidato a sei motivi, depositando altresì memorie ex art. 378 cod. proc. civ.
L’Agenzia intimata ha resistito con controricorso.
MOTIVI DI DIRITTO
1. Con il primo motivo di ricorso, la società G.C.E. MUJELLI S.p.A. deduce la
«violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della Legge n. 212/2000, in relazione
all’art. 360, n. 3, c.p.c.», formulando il seguente quesito di diritto:

«dica

l’Ecc.ma Corte di Cassazione se sia o meno nullo o comunque invalido, ai sensi

ud. 19/1/2015

n. 10815/09 R.G.

fenomeno noto come transfer pricing (nella specie, per la vendita a società

dell’art. 7 comma 1 della Legge n. 212/2000, l’Avviso di accertamento
dell’Agenzia delle entrate che si limiti nella propria motivazione e richiamare per
relationem il contenuto di un precedente atto dell’Agenzia stessa senza allegarlo
all’Avviso di accertamento, per quanto il precedente atto fosse conosciuto o
conoscibile dal contribuente».
2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la «insufficienza della
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360,
primo comma, n. 5, cod.proc.civ.», sulla scorta del seguente “momento di

t*

innanzi alle specifiche e circostanziate censite avanzate dalla parte appellata di
nullità dell’Avviso di accertamento dell’Ufficio per carenza di motivazione e per
mancata allegazione dell’atto ivi richiamato in violazione del disposto di cui
all’art. 7 legge n. 212/2000, si limiti a statuire che l’atto in contestazione è
idoneamente motivato, e che il precedente atto ivi richiamato non doveva essere
allegato in quanto già conosciuto dalla parte, senza motivare in alcun modo per
quale ragione e su quali basi abbia adottato una simile decisione? ».
2.1. Entrambi i motivi, che in quanto connessi possono essere esaminati
congiuntamente, sono infondati.
2.2. Come da questa Corte più volte affermato (da ultimo, Cass. sent. n.
422 del 2015), è legittima la motivazione per relationem dell’atto impositivo, che
realizza semplicemente una economia di scrittura, laddove il rinvio all’atto
presupposto attesti la condivisione dell’Ufficio di elementi già noti al
contribuente, senza alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio
(Cass. n. 21119 del 2011 e n. 4523 del 2012). Tale conclusione è stata
sostenuta anche nella vigenza della L. n. 212 del 2000, alt. 7, che ha introdotto
l’obbligo di allegazione dell’atto richiamato nella motivazione di altro atto, ai fini
del cui rispetto si ritiene sufficiente che l’atto richiamante riproduca il contenuto
essenziale di quello richiamato, per tale dovendo intendersi l’insieme di quelle
parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento che risultino
necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, e
la cui indicazione consente al contribuente – nonché al giudice, in sede di
eventuale sindacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell’atto
richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi
della motivazione del provvedimento (Cass. n. 1906 del 2008, n. 6914 del 2011,
n. 9032 del 2013).
2.3. Va altresì considerato che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 3,
ult. parte, nel testo vigente ratione temporis, stabilisce che (solo) “se la

ud. 19/1/2015

n. 10815/09 R.G.

sintesi”: «incorre in insufficiente motivazione … la sentenza (impugnata) che,

motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto nè ricevuto dal
contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama, salvo che
quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale”. Analogamente, in tema
di Iva il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, comma 5, prescrive, a pena di nullità,
che (solo) “se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né
ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama,
salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale”.
2.4. Partendo da tali dati normativi, deve confermarsi l’orientamento

qualvolta l’Amministrazione abbia posto il contribuente in grado di conoscere la
pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestarne
efficacemente l’an ed il quantum debeatur,

con la conseguenza che l’atto

impositivo deve ritenersi adeguatamente motivato ove faccia riferimento ad un
“processo verbale di constatazione regolarmente notificato al contribuente” come pacificamente si afferma nella sentenza impugnata – o anche
semplicemente consegnato all’intimato, con l’ulteriore conseguenza che in tal
caso “l’Amministrazione non è tenuta ad includere, nell’avviso di accertamento,
notizia delle prove poste a fondamento del verificarsi di taluni fatti, nè di
riportarne, sia pur sinteticamente, il contenuto” (Cass. n. 16871 del 2014; cfr.
Cass. n. 6232 del 2003, n. 4223 del 2006, n. 2462 del 2007, n. 7360 del 2011;
conf. Cass. ord. n. 5645 e n. 25296 del 2014, anche nel caso in cui il p.v.c. sia
stato notificato non direttamente al socio, ma alla società, in forza dei poteri di
consultazione e visione spettanti al primo, ai sensi dell’art. 2261 cod. civ.).
2.5. Alla luce di quanto precede, vanno dunque esclusi sia l’errore di diritto,
sia l’insufficienza motivazionale della sentenza impugnata, avendo il giudice
d’appello espressamente considerato che l’atto impugnato aveva “posto il
contribuente nella condizione di poter controbattere la pretesa tributaria nei suoi
elementi essenziali”, e che il processo verbale di constatazione era stato
“regolarmente notificato al contribuente”.
3. Con il terzo mezzo, si deduce la «nullità della sentenza per violazione
dell’art. 112 Cod. Proc. Civ. – Error in procedendo ex art. 360, n. 4
cod.proc.civ.», sulla scorta del seguente quesito di diritto: « dica l’Ecc.ma Corte
di Cassazione se incorra o meno nel vizio di ultra petizione … la sentenza
(impugnata) della Commissione Tributaria che decidendo di un giudizio di
impugnazione proposto dal contribuente avverso un Avviso di accertamento della
Agenzia delle entrate, confermi la ripresa a tassazione operata dalla Agenzia
delle entrate sulla base di circostanze di fatto e diritto mai rilevate dalla Agenzia

ud. 19/1/2015

n. 10815/09 R,G,

consolidato di questa Corte per cui l’obbligo di motivazione è soddisfatto ogni

stessa nell’Avviso di accertamento impugnato e quindi mai introdotte nel
giudizio, come instaurato con il ricorso in impugnazione del contribuente ».
3.1. Il motivo presenta profili sia di inammissibilità che di infondatezza.
3.3. Esso consta, in primo luogo, di un quesito che difetta di specificità, in
quanto non indica in concreto quali siano le circostanze di fatto e di diritto
(asseritamente) mai rilevate nell’avviso di accertamento e mai introdotte nel
giudizio. Invero, i quesiti inerenti censure in diritto, dovendo assolvere alla
funzione di integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico

invece è nella specie – meramente astratti e teorici, ma devono essere calati
nella fattispecie concreta, per mettere la Corte in grado di comprendere dalla
sola lettura degli stessi, l’errore asseritamene compiuto dal giudice di merito e la
regola ritenuta applicabile. Nè può assumersi che il contenuto preteso dal
quesito debba essere ricercato nel precedente svolgimento del motivo, poiché ne
resterebbe svilita – rispetto ad un sistema processuale che già prevedeva la
redazione del motivo con l’indicazione della violazione denunciata – la portata
innovativa dell’art. 366-bis cod. proc. civ., consistente proprio nell’imposizione
della formulazione di motivi contenenti una sintesi autosufficiente della
violazione censurata, funzionale alla formazione immediata e diretta del principio
di diritto e, quindi, al miglior esercizio della funzione nomofilattica della Corte di
legittimità (Cass. n. 16481 del 2014; n. 20409 del 2008).
3.4. In secondo luogo, dallo stesso raffronto tra il passaggio motivazionale
del giudice d’appello riportato a pag. 56 del ricorso (ove la ripresa a tassazione
delle spese per consulenza viene giustificata con la impossibilità di verificarne
l’inerenza, “data la genericità della descrizione dell’autofattura”) e l’avviso di
accertamento trascritto in parte qua a pag. 46 del ricorso (ove si rilevava la
genericità del riferimento ai “servizi commerciali, fiscali, amministrativi, tecnici e
pubbliche relazioni che vi verranno resi da GCE AB – Malmo Svezia” così descritti
nell’autofattura “avente il prot. N. 309” e si chiedevano di conseguenza
documenti indicativi dei “tipi di servizi resi e i criteri di ripartizione dei costi”)
emerge chiaramente l’inconsistenza del lamentato vizio di nullità per
ultrapetizione.
4. Con il quarto motivo, parte ricorrente lamenta la «insufficienza della
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360,
primo comma, n. 5, cod.proc.civ.», sulla scorta del seguente “momento di
sintesi”: «incorre in insufficiente motivazione … la sentenza (impugnata) che nel
valutare la inerenza di determinati costi rispetto alla attività di impresa si limiti a

ud. 19/1/2015

n. 10815/09 R.G.

e l’enunciazione del principio giuridico generale, non possono essere – come

statuire che tale inerenza deve essere esclusa in quanto non verificabile alla luce
della documentazione in atti e senza affrontare minimamente – ed argomentare
sul punto – la questione della ripartizione dell’onere di allegazione e di prova tra
l’Ufficio ed il contribuente e senza comunque indicare in alcun modo quali siano i
documenti agli atti che sono stati esaminati e quali fossero le specifiche carenze
degli stessi in ordine alla verificabilità del requisito della inerenza dei costi».
4.1. La censura è inammissibile per difetto di autosufficienza.
4.2. Invero, a fronte di censure motivazionali afferenti l’esame di documenti,

del documento valutato, non valutato o insufficientemente valutato, che il
ricorrente precisi – mediante integrale trascrizione del contenuto dell’atto nel
ricorso – la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o
insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte
di cassazione, alla quale è precluso l’esame diretto degli atti del giudizio di
merito, di delibare la decisività della risultanza stessa (cfr. ex multis Cass. n.
12984 del 2006, n. 15952 del 2007, n. 4849 del 2009, n. 4980 del 2014, n. 983
del 2015). Alla luce di tale principio, la motivazione della sentenza impugnata,
laddove afferma che “dall’esame della documentazione in atti non è possibile
verificare se queste spese” – ossia quelle relative alle consulenze fornite dalla
capogruppo – “erano o meno inerenti all’attività, data la genericità della
descrizione dell’autofattura”, non risulta insufficiente, dal momento che sarebbe
stato onere del ricorrente indicare e trascrivere i documenti implicati, per
inficiare la non condivisa valutazione di genericità effettuata dal giudice di
seconde cure.
5. Con il quinto mezzo, si deduce la «violazione e falsa applicazione
dell’art. 109 del D.P.R. 917/86 (già art. 75) del DPR n. 917/86 in relazione
all’art. 360, n. 3, c.p.c.», compendiata nel seguente quesito di diritto:

«dica

l’Ecc.ma Corte di Cassazione se debbano ritenersi o meno inerenti ai sensi
dell’art. 109 DPR 917/86 (già art. 75) – e quindi deducibili – i costi sopportati dal
contribuente al fine di ottenere servizi di consulenza (fiscale e/o amministrativa
e/o contabile) per la propria attività di impresa in quanto correlati ad una attività
potenzialmente idonea produrre redditi. E pertanto, se incorra o meno in
violazione di legge … la sentenza (impugnata) che non ha riconosciuto inerenti
all’attività della società contribuente i costi per servizi di consulenza (fiscale,
amministrativa, contabile) per la propria attività di impresa ricevuti dalla
capogruppo».

ud. 19/1/2015

n. 10815/09 R.G.

è necessario, per consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività

5.1. Anche questo mezzo presenta profili pregiudiziali di inammissibilità,
oltre che di infondatezza.
5.2. In primo luogo, la censura viene formalmente proposta come questione
di diritto, ma investe in realtà il profilo motivazionale della sentenza impugnata.
Inoltre, il quesito non coglie nemmeno la effettiva

ratio decidendi, tesa ad

escludere l’inerenza dei costi per servizi di consulenza (fiscale, amministrativa,
contabile) non già ex sé, ma a causa della genericità della loro descrizione.
5.3. Ferma restando l’inammissibilità, sotto il profilo della fondatezza delle

21184 del 2014) che, partendo dal disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75,
primo comma (“i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i
quali le precedenti norme del presente capo non dispongono diversamente,
concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza; tuttavia i ricavi, le
spese e gli altri componenti di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora
certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare concorrono a
formarlo nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni”) e quinto comma (“le
spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli
oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in
cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che
concorrono a formare il reddito”), ha reiteratamente affermato che i costi, per
essere ammessi in deduzione quali componenti negativi del reddito di impresa,
debbono soddisfare “i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza,
determinatezza o determinabilità” (Cass. n. 10167 del 2012, n. 13806 e n. 1565
del 2014).
5.4. Con particolare riferimento al disposto del quinto comma, si è chiarito
che affinchè “un costo possa essere incluso tra le componenti negative del
reddito, non solo è necessario che ne sia certa l’esistenza, ma occorre altresì che
ne sia comprovata l’inerenza, vale a dire che si tratti di spesa che si riferisce ad
attività da cui derivano ricavi o proventi che concorrono a formare il reddito di
impresa” (Cass. n. 6650 del 2006), al riguardo essendo sufficiente la semplice
contrapposizione economica teorica (ossia la c.d. latenza probabile), “avuto
riguardo alla tipologia organizzativa del soggetto, che genera quindi partite
passive deducibili se i costi riguardano l’area o il comparto di attività destinati,
anche in futuro, a produrre partite di reddito imponibile. L’inerenza è quindi una
relazione tra due concetti – la spesa e l’impresa – che implica un accostamento
concettuale tra due circostanze, per cui il costo assume rilevanza ai fini della
quantificazione della base imponibile non tanto per la sua esplicita e diretta

ud. 19/1/2015

n. 10815/09 R.G.

censure mosse si richiama l’orientamento di questa Corte (da ultimo, v. Cass. n.

connessione ad una precisa componente di reddito, bensì in virtù della sua
correlazione con una attività potenzialmente idonea a produrre utili” (Cass. n.
12168 del 2009).
5.5. Trattandosi di una componente negativa del reddito, si è altresì
precisato che “la prova della sua esistenza ed inerenza incombe al contribuente”
(Cass. n. 1709 del 2007), il quale a tal fine non può limitarsi a dimostrare “che la
spesa sia stata dall’imprenditore riconosciuta e contabilizzata, atteso che una
spesa può essere correttamente inserita nella contabilità aziendale solo se esiste

la ragione della stessa” (Cass. n. 4570 del 2001). L’assolvimento di tale onere
probatorio esige invece, innanzitutto, che la prova dei costi deducibili sia
adeguatamente documentata – come non è stato ritenuto dalla corte territoriale
nel caso di specie -, in modo tale che dalla documentazione relativa si possa
ricavare “l’inerenza del bene o servizio acquistato all’attività imprenditoriale,
intesa come strumentalità del bene o servizio stesso” rispetto all’attività da cui
derivano i ricavi o gli altri proventi che concorrono a formare il reddito di impresa
(Cass. n. 16853 del 2013); ed altresì che sia dimostrata anche “la coerenza
economica dei costi sostenuti nell’attività d’impresa, ove sia contestata
dall’Amministrazione finanziaria anche la congruità dei dati relativi a costi e
ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, in difetto di tale prova essendo
perciò legittima la negazione della deducibilità di parte di un costo
sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa” (Cass. n. 7701 del 2013).
6. Con il sesto motivo, parte ricorrente deduce la «violazione e falsa
applicazione degli artt. 110, settimo comma, e 9, terzo comma, del DPR n.
917/86 in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.», sulla base del seguente quesito di
diritto: «dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se incorra o meno in violazione di
legge … la sentenza (impugnata) che abbia confermato la validità dell’Avviso di
accertamento dell’Agenzia delle entrate con cui, nel valutare le componenti di
reddito derivanti ad una società da operazioni di vendita di beni infragruppo, sia
stato identificato il “valore normale” dei beni oggetto della vendita nel prezzo
applicato dalla società a clienti ai quali i beni vengono venduti ad un diverso
stadio di commercializzazione o comunque diverse condizioni di vendita (che
comportano diversi costi e diversi vantaggi economici per la società) rispetto alle
vendite di beni oggetto dell’accertamento ».
7. Con il settimo ed ultimo motivo, si censura la «contraddittorietà della
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360,
primo comma, n. 5, cod.proc.civ.», sulla scorta del seguente “momento di

ud. 19/1/2015

n. 10815/09 R.G.

una documentazione di supporto, dalla quale possa ricavarsi, oltre che l’importo,

sintesi”: «incorre in contraddittoria motivazione … la sentenza (impugnata) che
nel valutare quale sia il valore normale di riferimento dei beni venduti
infragruppo, pur dando atto che nei confronti dei diversi clienti italiani
indipendenti e non facenti parte del Gruppo societario le condizioni di vendita
sono del tutto diverse, ritiene poi di applicare quale valore normale proprio il
prezzo praticato a tali clienti italiani rispetto ai quali ha riconosciuto che le
condizioni di vendita sono diverse e ciò senza argomentare minimamente sul
punto».

congiuntamente; in particolare, la fondatezza del sesto comporta l’assorbimento
del settimo.
7.2. Entrambi attengono al tema del c.d.

transfer pricing,

\

fenomeno

consistente nell’attuazione di politiche sui prezzi, per lo più in ambito
internazionale, mediante transazioni infragruppo inferiori (o superiori) al loro
valore normale, finalizzate a spostare l’imponibile presso le imprese associate
che, nei rispettivi territori, godano di esenzioni fiscali e subiscano minore
tassazione (Cass. n. 17955 del 2013, n. 11226 del 2007, n. 22023 del 2006).
7.3. Sul piano dei rapporti internazionali infragruppo, si fa riferimento all’art.
9 del modello di convenzione fiscale O.C.S.E. del 1995 – 1996, per cui “quando
le condizioni convenute o imposte tra le due imprese, nelle loro relazioni
commerciali o finanziarie, sono diverse da quelle che sarebbero state convenute
tra imprese indipendenti, gli utili che in mancanza di tali condizioni sarebbero
stati realizzati da una delle due imprese, ma che a causa di dette condizioni non
lo sono stati, possono essere inclusi negli utili di questa impresa e tassati di
conseguenza”. Il criterio cardine per la valutazione dei prezzi di trasferimento tra
le imprese associate di un gruppo multinazionale è quindi costituito dal principio
di libera concorrenza, che si instaura tra “imprese indipendenti”, e che sotto il
profilo fiscale è correlato alla definizione del “valore normale” dei beni o dei
servizi. Invero, la mancanza di una effettiva alterità tra le imprese partecipanti a
simili transazioni comporta un’elevata probabilità che il corrispettivo venga
fissato dalle parti non conformemente all’effettivo valore del bene scambiato o
del servizio reso, ma strumentalmente alla pianificazione fiscale del gruppo cui
le imprese contraenti appartengono (Cass. n. 24005 del 2013).
7.4. Il modello di convenzione O.C.S.E. è stato recepito dal D.P.R. n. 917
del 1986, art. 9, richiamato dall’art. 76, commi 2 e 5, (ora art. 110, commi 2
e 7) dello stesso decreto, ove in ultima analisi si stabilisce l’irrilevanza, ai fini
fiscali, dei valori concordati dalle parti nell’ambito di transazioni “controllate” e

ud. 19/1/2015

n. 10815/09 R.G.

I
\

7.1. Gli ultimi due motivi, in quanto connessi, possono essere esaminati

l’inserimento automatico nelle transazioni medesime di valori legali, ancorati al
regime della libera concorrenza; con la conseguenza che, in simili vicende, non
rileva il corrispettivo effettivamente convenuto, bensì quello che sarebbe stato
stabilito ove le imprese fossero state indipendenti l’una dall’altra, secondo il c.d.
arm’s lenght principle (Cass. n. 24005 del 2013). In particolare, l’art. 110,
comma 7 cit. fissa la regola del “valore normale” dei beni e servizi prestati
mediante operazioni infragruppo, rinviando all’alt. 9, comma 3, dello stesso
T.U.I.R., in base al quale “per valore normale, salvo quanto stabilito nel comma

praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera
concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo
in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e
nel luogo più prossimi. Per la determinazione del valore normale si fa
riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito
i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di
commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso. Per i beni
e i servizi soggetti a disciplina dei prezzi si fa riferimento ai provvedimenti in
vigore”.
7.5. La disposizione è stata generalmente interpretata come “clausola
antielusiva” (Cass. n. 8847 del 2014), in quanto volta ad impedire che,
attraverso la manovra dei prezzi, la ricchezza prodotta nello Stato venga
artificiosamente trasferita in Paesi con regimi fiscali più favorevoli, attribuendo ai
beni o servizi scambiati tra le società del gruppo valori economici maggiori o
minori – a seconda della convenienza del corrispondente regime fiscale – rispetto
a quelli ordinariamente praticati ai soggetti terzi, influendo in tal modo sulla
determinazione della base imponibile dei soggetti d’imposta residenti in Paesi
diversi. Tale meccanismo abilita l’amministrazione finanziaria italiana a
disattenderne prezzi e corrispettivi, in virtù del valore corrente dei beni e/o
servizi scambiati, e a rettificare i dati reddituali, con aumento dell’imponibile
(Cass. n. 11949 del 2012). In altri termini, l’applicazione delle norme sul transfer
pricing non combatte l’occultamento del corrispettivo (evasione), ma le manovre
che incidono sul corrispettivo palese (elusione), consentendo il trasferimento
surrettizio di utili da uno Stato all’altro, sì da influire in concreto sul regime
dell’imposizione fiscale (Cass. n. 24005 del 2013).
7.6. Questa Colte ha precisato che il principio stabilito dal D.P.R. n. 917 del
1986, art. 9, comma 3 – laddove fa riferimento al normale valore di mercato per
corrispettivi e altri proventi – non ha soltanto valore contabile, gravando sul
contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova ex art. 2697

ud. 19/1/2015

n. 10815/09 R.G.

4 per i beni ivi considerati, si intende il prezzo o corrispettivo mediamente

cod.civ., l’onere di dimostrare che le transazioni siano intervenute per valori di
mercato da considerarsi normali alla sua stregua, al fine di escludere che
l’operazione possa considerarsi ispirata dalla finalità di evasione delle imposte
(Cass. n. 11949 del 2012, n. 10742 del 2013, n. 8849 del 2014). Al riguardo, si
è ritenuto che non sia sufficiente invocare una peculiare prassi scontistica
infragruppo, poichè gli sconti ammessi sono solo quelli per le operazioni
concluse “in condizioni di libera concorrenza”, ovverosia per le operazioni
economiche concluse con soggetti estranei al proprio gruppo economico (cfr.

7.7. E’ quindi evidente come il punto cruciale della controversia consista
nell’individuazione del “valore normale” in discussione, ovvero il prezzo di libera
concorrenza. Al riguardo, tra i diversi criteri indicati dal modello O.C.S.E. per la
valutazione dei prezzi di trasferimento tra le imprese associate di un gruppo
multinazionale, il legislatore italiano ha prescelto quello del “confronto del
prezzo” (comparable uncontrolled price method). Infatti, la prima parte dell’art.
9, comma 3, T.U.I.R., fornisce la definizione del “valore normale” con riferimento
al “prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa
specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di
commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati
acquisiti o prestati e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi”. Si tratta,
all’evidenza, di una concezione che fa leva su una comparazione fortemente
contestualizzata per profili qualitativi, commerciali, temporali e locali, in modo da
ricreare una mediana da cui sia espunto solo il fattore destabilizzante della non
concorrenzialità. La seconda parte della norma individua invece i criteri più
immediati per la determinazione del “valore normale” così come sopra definito,
stabilendo che occorre fare riferimento, in via prioritaria – ma solo se possibile ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza,
alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali,
tenendo conto degli sconti d’uso, o infine, per i beni e i servizi soggetti a
disciplina dei prezzi, ai provvedimenti in vigore.
7.8. Nel caso concreto, lo stesso giudice d’appello ha dato atto delle
“diverse condizioni di queste vendite nei confronti delle consociate estere
rispetto alla clientela nazionale”, osservando tuttavia che, nel ridurre
equitativamente il recupero a tassazione, la Commissione tributaria provinciale
aveva già tenuto conto (testualmente) “delle diverse condizioni nei confronti
delle consociate consistenti nelle maggiori quantità trattate, all’assenza di
provvigioni, al pagamento più veloce ecc.”.

ud. 19/1/2015

n. 10815/09 R.G.

Cass. n. 7343 del 2011).

7.9. Il ricorrente, nel censurare il raffronto operato dall’amministrazione con
i prezzi applicati dai “clienti indipendenti italiani” – in quanto pacificamente
caratterizzati da un “diverso stato di commercializzazione” – rivendica di aver
contestato sin dal primo grado di giudizio l’esistenza di due distinti listini, l’uno
rivolto ai “clienti Italia” (con rapporto di vendita al dettaglio, quantità modeste,
consegne rapide, assistenza post-vendita, tempi di pagamento lunghi,
provvigioni ad agenti) l’altro alle consociate (con rapporto di vendita a
distributore, quantità rilevanti, consegne a 60 giorni, ordini a programma,

segnalato l’esistenza di transazioni con clienti esteri, grandi distributori come le
consociate, ma a differenza di esse “terzi indipendenti” (ad es. il cliente
Oxiturbo, menzionato a pag. 71 e 75 del ricorso, ma anche altri, come si legge a
pag. 80), rispetto ai quali avrebbe dovuto effettuarsi il raffronto volto ad
individuare il “valore normale”, nell’accezione sopra detta. Tuttavia, nella
motivazione della sentenza impugnata non vi è alcun riferimento a tali clienti
esteri non consociati che, per caratteristiche e circostanze delle transazioni,
avrebbero potuto costituire un più adeguato parametro di misura e valutazione
del “valore normale”, ai sensi del citato art. 9, comma 3, T.U.I.R.
8. Alla luce di tutto quanto precede, questo Collegio ritiene che la sentenza
di secondo grado debba essere cassata, con rinvio al giudice d’appello in diversa
composizione, che dovrà procedere ad un nuovo esame della controversia,
attenendosi al seguente principio di diritto: «ai sensi del D.P.R. n. 917 del
1986, art. 9, comma 3, il concetto di “valore normale” dei corrispettivi, nelle
transazioni tra imprese appartenenti ad un medesimo gruppo multinazionale, fa
leva su una comparazione fortemente contestualizzata sotto il profilo qualitativo,
commerciale, temporale e locale, finalizzata ad individuare un valore medio da
cui deve essere espunto solo il fattore destabilizzante della non concorrenzialità.
Nella ricerca del “prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i
servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al
medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o
servizi sono stati acquisiti o prestati e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più
prossimi”, costituiscono criteri prioritari i listini o le tariffe del soggetto che ha
fornito i beni o i servizi e, in mancanza, le mercuriali e i listini delle camere di
commercio e le tariffe professionali (tenendosi conto degli sconti d’uso), o infine,
per i beni e i servizi soggetti a disciplina dei prezzi, i provvedimenti in vigore. In
mancanza, tale valore medio può essere individuato sulla scorta di altri dati
oggettivamente significativi e numericamente apprezzabili, che è onere del
contribuente allegare».

ud. 19/1/2015

n. 10815/09 RG,

inesistenza di costi per cataloghi e provvigioni agenti) e, soprattutto, di aver

ESENTE DA REGISTRAZIONE
AI SENS! DEL DPk. 26/4/19g6
N. 131 TAB. ALL. B. – N.5
MATERIA TRIBUTARIA
9. In conclusione, respinti i primi cinque motivi di ricorso, accolto il sesto
ed assorbito il settimo, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio al giudice
d’appello, che provvederà, in diversa composizione, anche alla regolazione delle
spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il sesto motivo di ricorso, dichiara assorbito il settimo e
respinge i restanti, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e
rinvia ad altra sezione della Commissione tributaria regionale del Veneto, che

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 19 gennaio 2015.

provvederà anche a regolare le spese del giudizio di legittimità.

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA