Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9707 del 26/05/2020

Cassazione civile sez. III, 26/05/2020, (ud. 12/02/2020, dep. 26/05/2020), n.9707

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 31178-2018 proposto da:

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI SPA, in persona del Procuratore Speciale,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA E. Q. VISCONTI, 103, presso

lo studio dell’avvocato MASSIMO DELLAGO, che la rappresenta e

difende unitamente agli avvocati MARCO RODOLFI, FILIPPO MARTINI;

– ricorrente –

contro

L.M.C., L.A., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA MONTE DELLE GIOIE 13, presso lo studio dell’avvocato

CAROLINA VALENSISE, che li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato FRANCESCO SCAGLIONE;

– controricorrenti –

e contro

L.M.C., T.D.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 162/2018 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 21/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

12/02/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Reggio Calabria, con sentenza 21.3.2018 n. 162, ha parzialmente riformato la decisione di prime cure che aveva riconosciuto T.D. responsabile del sinistro stradale in esito al quale aveva riportato lesioni personali L.M.C., trasportato sull’auto condotta dalla T., e subito danni patrimoniali e non patrimoniali anche L.A., ed aveva in conseguenza condannato la predetta T., in solido con la società assicuratrice della RCA Milano Assicurazioni s.p.a. (successivamente incorporata da UNIPOLSAI Ass.ni s.p.a.), al risarcimento dei relativi danni.

Il Giudice di appello rideterminava, accogliendo in parte l’appello proposto dai L., i gradi di invalidità permanente riferiti ad alcune menomazioni, sia concorrenti che coesistenti (afferenti all’apparato dentale, maxillo-facciale, all’apparto buccale e della masticazione, ai danni estetici), conseguite alle lesioni monocrone patite da L.M.C., ed inoltre: 1- incrementava l’importo delle spese future per cure necessarie (concernenti il rinnovo da ripetersi per la durata della vita degli impianti e delle corone); 2- riconosceva il danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica, disatteso dal primo Giudice, liquidandolo in via figurativa -trattandosi di minore di anni 10 al tempo del sinistro: anno 1999- in base al “triplo della pensione sociale”; 3-liquidava altresì il danno patrimoniale relativo alle spese sostenute per trattamenti terapeutici fuori regione presso centri di alta specializzazione – non essendo stato contestato l’importo dalla società assicurativa -, nonchè per le spese concernenti il recupero degli anni scolastici; 4- incrementava nella stessa misura percentuale dell’aumento del maggior grado di invalidità permanente riconosciuto a L.M.C. l’importo attribuito al genitore L.A. a titolo di ristoro del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale.

La sentenza di appello, notificata in data 5.9.2018, è stata impugnata per cassazione da UNIPOLSAI Assicurazioni s.p.a. con ricorso affidato a tre motivi.

Resistono con controricorso L.A. e M.C. i quali hanno depositato anche memoria illustrativa ex art. 380 bis.1 c.p.c..

Non ha svolto difese T.D. cui il ricorso è stato notificato in data 7.11.2018.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Primo motivo: omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, errata valutazione delle risultanze della c.t.u. espletata in grado di appello.

La ricorrente sostiene che il Giudice di appello ha immotivatamente aumentato fino al 61,17% la complessiva invalidità biologica permanente, valutata invece nella misura del 42%, nella relazione peritale depositata dall’ausiliario, nominato in grado di appello, Dott.ssa M.: sarebbe stato quindi omesso dalla Corte territoriale l’esame del “fatto decisivo” individuato nella predetta relazione del CTU.

La ricorrente censura, altresì, la sentenza impugnata per avere applicato arbitrariamente – in modo del tutto illogico – il criterio tabellare del punto di invalidità, essendo stata determinata la complessiva invalidità biologica, in presenza di plurime menomazioni coesistenti, anzichè, come previsto dalla scienza medico legale, in base ad una valutazione globale delle residue capacità dinamico relazionali del soggetto (estrinsecantesi tanto sul piano dell’essere quanto del fare e dell’apparire), attraverso invece la mera sommatoria algebrica di singoli gradi percentuali di invalidità tabellati nei baremes in relazione a ciascuna singola menomazione considerata a se stante.

Il motivo, relativamente alla prima censura è inammissibile, laddove equipara ad un fatto storico un atto processuale qual è la consulenza tecnica di ufficio.

Ma anche in relazione alla seconda censura, anch’essa formulata come vizio di “error facti” (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) il motivo si palesa inammissibile, per difetto dei requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3.

Ed infatti, in tema di impugnazione per cassazione, ed in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso, la parte che alleghi la mancata valutazione delle consulenze tecniche d’ufficio espletate nei gradi di merito, ha l’onere di indicare compiutamente (e, se del caso, trascrivere nel ricorso) gli accertamenti e le risultanze peritali, al fine di consentire alla corte di valutare la congruità della motivazione della sentenza impugnata che si sia motivatamente dissociata dalle conclusioni peritali, dovendosi, in carenza di detta specificazione, dichiarare il ricorso inammissibile (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6753 del 05/05/2003; id. Sez. 3, Sentenza n. 7078 del 28/03/2006; id. Sez. 2, Sentenza n. 13845 del 13/06/2007; id. Sez. L, Sentenza n. 3224 del 12/02/2014; id. Sez. 1, Sentenza n. 16368 del 17/07/2014).

E’ consolidato principio di questa Corte che la critica rivolta alla sentenza impugnata, non può limitarsi alla mera contrapposizione di conclusioni contrastanti nel merito, ma deve invece:

a) individuare i singoli passaggi dell’elaborato peritale ritenuti essenziali, onde consentire alla Corte di verificare “in limine” se le affermazioni del consulente tecnico oggetto di critica rivestano carattere di decisività e siano dunque idonee ad inficiare il diverso ragionamento svolto in sentenza;

b) specificare le ragioni della critica rivolta alla statuizione impugnata, evidenziando le divergenze ritenute rilevanti rispetto ai fatti indagati ed accertati dal CTU ed in particolare se il Giudice di merito non abbia tenuto conto di specifiche risultanze diagnostiche, ovvero abbia formulato assunzioni scientificamente errate, o ancora abbia pretermesso i risultati di accertamenti clinici strumentali dai quali non possa prescindersi per la formulazione di una corretta valutazione della invalidità biologica.

Orbene la ricorrente si è limitata a riportare soltanto le conclusioni della consulenza tecnica svolta in grado di appello dalla Dott.ssa M. che, quanto alla menomazione al distretto maxillo-facciale aveva determinato il grado di I.P. nella misura del 15%, e poi – integrata la consulenza con l’ausilio di specialisti in otorinolaringoiatria ed in psichiatria – aveva stimato, in base “alle indicazioni fornite dalla dottrina in merito sia alla valutazione del danno biologico in generale che in merito ai calcoli da attuare”, la complessiva invalidità biologica permanente di L.M.C. nella misura del 42% (ricorso pag. 7).

La critica alla sentenza impugnata si limita quindi soltanto alla contestazione della rideterminazione della complessiva invalidità nella misura del 61,17%, e della omessa considerazione delle risultanze della c.t.u. svolta in grado di appello, nonchè nella doglianza che il Giudice territoriale aveva proceduto a semplice sommatoria dei gradi percentuali di invalidità riferiti a ciascuna menomazione.

Orbene se, per un verso, il parametro di verifica della legittimità della sentenza impugnata rimane del tutto oscuro, atteso che non soltanto non viene identificato il “fatto storico” omesso e decisivo per immutare l’esito decisionale, ma neppure viene reso esplicito l’argomento seguito dal CTU di seconde cure per pervenire alla determinazione del complessivo grado di invalidità, essendo ignoto finanche il criterio di valutazione delle altre menomazioni (sindrome algico funzionale dell’apparto buccale con ripercussioni in sofferenza muscolare e disturbi dell’equilibrio; lieve difficoltà respiratoria nasale; disturbo post traumatico da stress cronicizzato) adottato dall’ausiliario del Giudice, dall’altro lato difetta del tutto l’apparato critico della censura fondata sull’errore asseritamente commesso dal Giudice di merito nella rideterminazione del grado di invalidità permanente, non essendo a tal fine sufficiente il mero richiamo indiretto ai “criteri applicativi” indicati nel D.M. Salute 3 luglio 2003, recante, in attuazione della L. 5 marzo 2001, n. 57, la “Tabella delle menomazioni alla integrità psicofisica comprese tra 1 e 9 punti di invalidità”, evidentemente inapplicabile alla fattispecie in cui, tanto in primo quanto in secondo grado, la stima del danno biologico evidenziava la esistenza di lesioni di non lieve entità.

E’ bene vero che nel predetto decreto ministeriale è indicato che in caso di menomazioni multiple a differenti apparati anatomo-funzionali la invalidità biologica del soggetto non è la mera risultante della somma algebrica dei singoli gradi di invalidità previsti dai “baremes”, ma il grado del “minus” residuato al danneggiato deve essere accertato in modo complessivo ed unitario con riferimento alla globale capacità dinamico relazionale residuata al soggetto. Tuttavia tale semplice rilievo non è ex se sufficiente a supportare la censura, in quanto inidoneo a descrivere l’errore in concreto commesso dalla Corte territoriale, ovvero la macroscopica illogicità del risultato valutativo della invalidità biologica cui è pervenuto il Giudice di appello, non essendo stato neanche prospettato quale sarebbe dovuta essere la differente corretta valutazione (ad esempio per indebita sovrapposizione dei postumi considerati oppure della medesima area funzionale in quanto compresa in entrambe o in più menomazioni contemplate dal bareme utilizzato), nè essendo sufficiente la mera indicazione della percentuale riportata nella c.t.u. in difetto sia della metodologia seguita dall’ausiliario, sia della scala di bareme dallo stesso in concreto utilizzata.

Secondo motivo: omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; errato riconoscimento della “personalizzazione” del danno a favore del danneggiato principale. Errato riconoscimento del danno riflesso al prossimo congiunto del danneggiato principale.

La censura è inammissibile per difetto di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4.

Sostiene al ricorrente che la “immotivata” modifica, da parte del Giudice di appello, della percentuale del grado di invalidità permanente si sarebbe riflessa sull’erroneo incremento del 50% del valore equivalente del danno biologico, a seguito di “personalizzazione” della liquidazione equitativa e quindi anche sul corrispondente aumento in pari misura percentuale dell’ammontare del “quantum” liquidato al genitore a titolo di lesione del rapporto parentale.

Il motivo difetta del tutto di apparato argomentativo critico.

In difetto di impugnazione incidentale in grado di appello proposta dalla società assicurativa sui criteri di liquidazione del danno utilizzati dal Tribunale (che aveva appunto riconosciuto tanto la personalizzazione del danno a favore di L.M.C., quanto il danno non patrimoniale di L.A.), ogni questione concernente tali aspetti rimane preclusa al sindacato di legittimità.

Qualora poi con il motivo in esame si sia inteso soltanto estendere anche a tali “voci” del risarcimento del danno la medesima censura svolta con il primo motivo di ricorso, alla pronuncia di inammissibilità di quest’ultimo segue evidentemente anche quella del secondo motivo.

Terzo motivo: violazione e falsa applicazione degli artt. 2043,2056, 1226 e 2059 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Il mero dato descrittivo della variazione percentuale tra i gradi di invalidità permanente attribuiti dal CTU alle singole menomazioni e quelli invece riconosciuti dalla Corte d’appello, è ex se insufficiente ad inficiare la legittimità del risultato valutativo cui è pervenuto il Giudice di merito, atteso che questi ha fornito specifiche motivazioni in ordine tanto al rigetto dei motivi di gravame volti ad ottenere ulteriori incrementi percentuali, quanto in relazione a ciascuna modifica in aumento operata.

Dalla motivazione della sentenza impugnata, infatti, è dato evincere quanto segue:

Apparato maxillo-facciale: l’aumento dal 2% di IP riconosciuto dal CTU alla sola sindrome respiratoria – emendabile con terapia farmacologica o intervento chirurgico – disposto fino al 3% dal Giudice di appello è stato giustificato in considerazione “della sofferenza oggettivamente non comune” e della “sua durata sine die”. La sindrome di COSTEN, non esaminata dal CTU, è stata considerata dal Giudice di merito come autonomo profilo patologico (non riconducibile al disturbo funzionale maxillo-facciale), valutabile nella misura del 3% di I.P. “per la consistenza non esigua nè circoscritta del quadro sintomatico”;

– Apparato buccale: l’aumento fino al 17% di I.P., rispetto alla valutazione del 15% effettuata dal CTU, è giustificato in base alla considerazione che gli effetti derivati (sindrome algica cervicale, lombare e gonalgia posturale) debbono ritenersi “nel tempo ingravescenti”;

– Danni estetici (esiti cicatriziali): l’aumento dal 3% di I.P. attribuito dal CTU fino al 5% è giustificato dalla mancata considerazione da parte dell’ausiliario che il danno estetico non è limitato alla cicatrici, ma si estende all’intero assetto corporeo (zoppia da compenso di gonalgia, persistenza nella “faces” mimica di un quadro fisionomico alterato, scialorrea ed impianti dentari multipli).

Tanto premesso, il minimum costituzionale della motivazione esplicativa del modus di esercizio della discrezionalità equitativa in materia risarcitoria, richiesto per la validità del provvedimento giurisdizionale, può ritenersi raggiunto.

La società ricorrente, peraltro, oltre alla mera indicazione degli aumenti percentuali, non individua specifici profili di errore, intesi ad evidenziare – in relazione al sindacato di legittimità per violazione dell’art. 2056 c.c. – la manifesta incongruità degli elementi assunti a base della liquidazione o la determinazione arbitraria del “quantum” laddove rispondente a meri criteri assolutamente soggettivi che si sottraggono ad alcuna possibilità di verifica.

Non pare dubbio che, per quanto nell’operare in concreto la valutazione equitativa il giudice di merito non sia tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata dell’ammontare del danno liquidato, egli è tenuto tuttavia a fornire adeguata indicazione del procedimento logico attraverso il quale è pervenuto a giudicare proporzionata una certa misura del risarcimento ed a precisare i criteri assunti a base del procedimento valutativo, restando in ogni caso escluso che la valutazione del danno così operata possa essere palesemente sproporzionata per difetto o per eccesso (cfr. Corte Cass. Sez. L, Sentenza n. 16992 del 18/08/2005). Tuttavia, nella specie, il “modus procedendi” del Giudice di appello non è trasmodato in una liquidazione “equitativa pura”, caratterizzata dalla applicazione di criteri meramente soggettivi, nè tanto meno è sconfinato nell’arbitrio, inteso come assenza di qualsiasi indicazione dei criteri che hanno orientato la “aestimatio”, avendo illustrato, invece, il Giudice di merito le ragioni per le quali aveva ritenuto di modificare le valutazioni percentuali compiute dal CTU, indicando le singole variabili del caso concreto, e consentendo quindi la verifica “ex post” degli ulteriori elementi considerati in ordine all’apprezzamento della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell’entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d’animo (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20895 del 15/10/2015).

Ne segue che, a fronte della esposizione, nella motivazione della sentenza, del criterio equitativo di incremento del “quantum” applicato dal Giudice di merito, spettava alla ricorrente dedurre puntualmente quali errori inficiassero il criterio di liquidazione integrativa, per violazione di eventuali criteri legali o per assoluta contraddittorietà o ancora per conclamato contrasto oggettivo con i dati di comune esperienza (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1529 del 26/01/2010; id. Sez. L, Sentenza n. 12318 del 19/05/2010).

Non avendo assolto a tale onere prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, il motivo di ricorso è inammissibile.

In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il versamento, se e nella misura dovuto, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 12 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020

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