Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9667 del 26/05/2020

Cassazione civile sez. III, 26/05/2020, (ud. 04/12/2019, dep. 26/05/2020), n.9667

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 14434/2018 proposto da:

P.E., elettivamente domiciliato in Roma alla via Licio

Giorgieri n. 82, presso lo studio dell’avvocato Ciarmoli Carlo, che

lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Cattolica di Assicurazioni Soc. Cooperativa a r.l., in persona del

legale rappresentante in carica, elettivamente domiciliato in Roma

al p.le Delle Belle Arti n. 2, presso lo studio dell’avvocato

Scalise Gaetano Antonio che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 00565/2018 della CORTE d’APPELLO di BARI,

depositata il 28/03/2018 e contro la sentenza n. 01215 depositata il

26/09/2013 della CORTE d’APPELLO di BARI;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

04/12/2019 da Dott. Cristiano Valle.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte di Appello di Bari, con sentenza n. 00565 del 28/03/2018 ha, per quanto ancora rileva in questa sede, rigettato l’impugnazione per revocazione, proposta ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, avverso sentenza della stessa Corte territoriale n. 01215 del 26/09/2013.

Dalla sentenza, che ha rigettato la domanda di revocazione, risulta che: P.E., subì il furto (o rapina) di un’autovettura marca Porsche, targa (OMISSIS), concessagli in leasing dalla G. E. Capital S.p.a. ed assicurata contro il rischio di furto e rapina presso la UniOne Assicurazioni S.p.a..

La domanda di indennizzo per i danni, quantificati in oltre Euro trentamila a mezzo di perizia contrattuale, proposta da P. nei confronti della UniOne Assicurazioni S.p.a., venne rigettata dal Tribunale di Bari, per carenza di legittimazione attiva dell’attore.

La Corte di Appello territoriale, con sentenza n. 01215 del 26/09/2013, rigettò l’impugnazione di merito proposta dal P. avverso la decisione di primo grado.

La detta sentenza d’appello venne impugnata, con citazione in revocazione, da P.E..

La domanda di revocazione – la cui proposizione comportò la sospensione, da parte del giudice competente e su istanza dell’appellante, ai sensi dell’art. 398 c.p.c., comma 4, del temine per la proposizione del ricorso per cassazione – venne rigettata dalla Corte di Appello di Bari, con la sentenza n. 00565 del 28/03/2018.

Avverso detta sentenza della Corte territoriale ed avverso la sentenza n. 01215 del 2013, della stessa Corte di Bari, ricorre per cassazione, con atto affidato a tre motivi, P.E..

Resiste con controricorso Cattolica di Assicurazioni S.c.a.r.l. (cessionaria del portafoglio assicurativo di UniOne Assicurazioni S.p.a.).

Il ricorrente ha depositato memoria.

Il P.G. non ha presentato conclusioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

I motivi di ricorso sono i seguenti: il primo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 in relazione all’art. 116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per erronea identificazione delle questioni decisive ai fini del giudizio ed erronea valutazione delle prove, da parte del giudice della revocazione, censura la sentenza n. 00565 del 2018 della Corte di Appello di Bari; il secondo mezzo, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, in relazione all’art. 112 c.p.c., per violazione, da parte del giudice dell’appello, dei limiti connessi all’ambito delle questioni effettivamente dedotte in giudizio dalle parti, si appunta sulla sentenza n. 01215 del 2013 della Corte di Appello di Bari; il terzo mezzo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ancora con riferimento al procedimento d’appello conclusosi con la sentenza n. 01215 del 2013, errata valutazione delle prove e omessa valutazione delle difese della parte da parte del giudice dell’appello con riferimento alla missiva in data 8 giugno 2009 della G.E. S.p.a. al P..

Occorre preliminarmente osservare che sebbene sia ammissibile il ricorso che contenga distinti profili di censura avverso la sentenza emessa nel giudizio di revocazione e quella revocanda (argomentandosi da Cass. n. 19470 del 15/09/2014 Rv. 632790-01), nondimeno nel caso all’esame le censure rivolte avverso la prima non paiono utilmente scrutinabili, in quanto il vizio è erroneamente prospettato come violazione e (o) falsa applicazione di norme di diritto, e segnatamente dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, mentre la corretta formulazione avrebbe comportato il riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Occorre, altresì, rilevare che al fine di dedurre utilmente la violazione del paradigma dell’art. 116 c.p.c., è necessario considerare che, poichè l’art. 116 c.p.c., prescrive come regola di valutazione delle prove quella secondo cui il giudice deve valutarle secondo prudente apprezzamento, a meno che la legge non disponga altrimenti, la sua violazione e, quindi, la deduzione in sede di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, è concepibile solo: a) se il giudice di merito valuta una determinata prova ed in genere una risultanza probatoria, per la quale l’ordinamento non prevede uno specifico criterio di valutazione diverso dal suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore ovvero il valore che il legislatore attribuisce ad una diversa risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale); b) se il giudice di merito dichiara di valutare secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza soggetta ad altra regola, così falsamente applicando e, quindi, violando la norma in discorso – oltre che quelle che presiedono alla valutazione secondo diverso criterio della prova di cui trattasi – (riferimenti: ancora Cass. n. 11892 del 2016 e, prima, Cass. n. 26965 del 2007; in senso conforme: Cass. n. 20119 del 2009; n. 13960 del 2014).

Nel caso di specie il motivo è del tutto carente sotto i sopramenzionati profili, limitandosi ad un generico riferimento alla violazione, da parte del giudice di merito, dell’art. 116 c.p.c., ma in concreto tende a ottenere una riedizione del potere valutativo del giudice sulle prove.

Con riferimento ai profili strettamente revocatori deve, altresì evidenziarsi, per completezza motivazionale, che la Corte territoriale, nella sentenza n. 00565 del 2018 ha escluso, con adeguata ed esaustiva motivazione, che sussistesse un errore revocatorio in quanto il giudice di appello (nel procedimento concluso dalla sentenza n. 01215 del 2013) non aveva travisato il significato della missiva in data 8 giugno 2009, fondando il proprio convincimento anche su elementi probatori diversi dalla detta missiva, ed ha concluso che comunque il P., in considerazione dell’avvenuta cessione, da lui stesso effettuata, del contratto di leasing in favore della Imma S.r.l., non aveva la legittimazione ad agire per la corresponsione dell’indennizzo assicurativo, aggiungendo che in ogni caso sarebbe stata necessaria un’indagine da parte del giudice della revocazione di carattere induttivo od ermeneutico, esulante dalla natura del giudizio revocatorio.

La sentenza in esame (si ripete: la n. 00565 del 2018 della Corte di Appello di Bari), è, quindi, pienamente coerente con l’orientamento di legittimità (Cass. n. 07795 del 29/03/2018 Rv. 648307-01) “Non integra l’errore di fatto rilevante per la revocazione di una sentenza della Corte di cassazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, la pretesa erroneità della persistente controvertibilità di una questione o della lettura di uno o più degli atti dei gradi di merito che siano state oggetto della sentenza di secondo grado e poi dei motivi di ricorso per cassazione, sia perchè in tal caso la questione è già stata oggetto di discussione tra le parti, sia perchè un eventuale errore di diritto o di fatto commesso in tesi dalla Corte di cassazione e diverso dalla mera svista su atti processuali del solo giudizio di legittimità non sarebbe suscettibile di emenda in base al vigente sistema processuale”, al quale il Collegio intende dare seguito.

Il primo motivo di ricorso è, pertanto, inammissibile, in quanto irritualmente ed non idoneamente formulato.

Le censure proposte, con il secondo ed il terzo motivo, avverso la sentenza n. 01215 del 2013 della Corte di Appello di Bari, sebbene astrattamente scrutinabili in rito, in quanto il termine per la proposizione del ricorso per cassazione era stato sospeso dalla Corte territoriale in pendenza del termine per la revocazione (con conseguente cessazione della sospensione alla pubblicazione della sentenza n. 00565/2018 che su di essa ha deciso), sono inammissibili per carenza di specificità, non risultando adeguatamente riportati i passaggi salienti della sentenza impugnata (quella del 2013) e non avendo parte ricorrente in alcun modo allegato una copia di essa o indicato adeguatamente, con specifico riferimento ai fascicoli di parte, ove essa risulta prodotta o è concretamente reperibile.

Il motivo di ricorso che denuncia violazione dell’art. 116 c.p.c., è, altresì, inammissibile per le stesse ragioni relative al motivo, analogamente formulato, avverso la sentenza n. 00565 del 2018.

Il terzo mezzo si muove sul terreno dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ma non tiene adeguatamente della riformulazione del disposto normativo operante dal 2012 e più che denunciare un omesso esame di fatto decisivo si appunta su un difetto motivazionale, non più utilmente prospettabile se non nei limiti segnati dalla giurisprudenza nomofilattica (Sez. U. nn, 8053 e 8054 del 2014 secondo cui: “la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”).

Il ricorso è, pertanto, dichiarato inammissibile.

Le spese di lite seguono la soccombenza del ricorrente e sono liquidate come da dispositivo, in relazione al valore della controversia.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti, consistenti nell’integrale rigetto dell’impugnazione, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso;

condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, che liquida in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario al 15% oltre CA ed IVA per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, il 4 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020

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