Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9657 del 26/05/2020

Cassazione civile sez. VI, 26/05/2020, (ud. 28/11/2019, dep. 26/05/2020), n.9657

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14794-2018 proposto da:

O.V., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI

SCIPIONI 265, presso lo studio dell’avvocato DOMENICO LIBERATORE,

rappresentata e difesa dall’avvocato FERDINANDO MANSUELLI;

– ricorrente –

contro

HERA S.P.A., in persona del procuratore pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, PIAZZA BARTOLOMEO GASTALDI 1, presso lo studio

dell’avvocato ELEONORA ZICCHEDDU, rappresentata e difesa

dall’avvocato NICOLETTA BOCCANERA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 919/2018 del TRIBUNALE di BOLOGNA, depositata

il 23/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 28/11/2019 dal Consigliere Relatore Dott. FRANCESCO

MARIA CIRILLO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. O.V. convenne in giudizio la Hera s.p.a. davanti al Giudice di pace di Bologna e, sulla premessa di essere titolare di un contratto di fornitura di acqua per la propria abitazione stipulato con la società convenuta, chiese che fosse riconosciuto il suo diritto a pagare i soli consumi effettivamente risultanti dal contatore, con esclusione della tariffa di depurazione, e che la società Hera fosse condannata a restituirle le maggiori somme indebitamente percepite e a rimborsarle le spese sostenute per la riattivazione del servizio, a suo dire illegittimamente sospeso.

Si costituì in giudizio la società convenuta chiedendo il rigetto della domanda.

Il Giudice di pace rigettò la domanda e condannò l’attrice al pagamento delle spese di lite.

2. La sentenza è stata impugnata dalla O. e il Tribunale di Bologna, con sentenza del 23 marzo 2018, ha dichiarato inammissibili i primi due motivi di appello ai sensi dell’art. 342 c.p.c. ed ha rigettato il terzo ed il quarto, condannando l’appellante alla rifusione delle ulteriori spese del grado.

Ha osservato il Tribunale, per quanto di interesse in questa sede, che i primi due motivi di appello non contestavano, in effetti, la sentenza di primo grado, ma si limitavano a proporre argomentazioni inconferenti e ripetitive. In particolare, i motivi non contestavano la sentenza del Giudice di pace nella parte in cui aveva rilevato che l’attrice aveva pagato solo quanto realmente consumato, con applicazione del meccanismo dei conguagli, e nella parte in cui aveva ritenuto legittimo il distacco da parte della società Hera, in considerazione dell’inadempimento dell’utente rispetto agli obblighi contrattuali.

3. Contro la sentenza del Tribunale di Bologna propone ricorso O.V. con atto affidato a tre motivi.

Resiste la Hera s.p.a. con controricorso.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio, sussistendo le condizioni di cui agli artt. 375, 376 e 380-bis c.p.c., e non sono state depositate memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., sostenendo che l’atto di appello aveva ad oggetto questioni di interpretazione ed applicazione della legge e non contestazioni sui fatti, per cui il Tribunale non avrebbe dovuto dichiarare inammissibili i primi due motivi di gravame.

1.1. Il motivo, quando non inammissibile per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), è comunque infondato.

Giova ricordare che le Sezioni Unite di questa Corte, risolvendo una questione di massima di particolare importanza in ordine all’esatta interpretazione dell’art. 342 cit., hanno enunciato il principio secondo cui gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modifiche, nella L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (Sezioni Unite, sentenza 16 novembre 2017, n. 27199).

Nel caso in esame la ricorrente avrebbe dovuto, per superare la motivazione di inammissibilità, illustrare con chiarezza il contenuto delle censure mosse alla sentenza di primo grado, individuando le ragioni per le quali la pronuncia di secondo grado avrebbe errato nella declaratoria di inammissibilità.

La censura, invece, non ha questo contenuto. Essa si limita – dopo aver richiamato i precedenti di questa Corte che, tra l’altro, non giovano alla ricorrente, confermando la correttezza della decisione di appello – a ribadire considerazioni già poste al Giudice di pace, continuando a non proporre alcuna precisa censura alla decisione impugnata; per cui, in effetti, la doglianza costituisce un indebito tentativo di ottenere in questa sede l’esame del merito dell’appello, che il Tribunale ha correttamente ritenuto inammissibile.

2. Col secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione degli artt. 1175,1375,1455, 1460 e 1565 c.c., sostenendo che la sentenza non avrebbe tenuto presenti gli obblighi generali di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei contratti, non valutando l’entità dell’inadempimento contestato alla ricorrente.

2.1. Il motivo è inammissibile.

Anche volendo prescindere dall’evidente improprietà di alcuni richiami normativi che nulla hanno a che vedere con la vicenda (art. 1460 cit.), rileva la Corte che la censura, formulata comunque in modo generico, potrebbe essere esaminata solo in caso di superamento della decisione di inammissibilità emessa dal Tribunale. In altri termini, la doglianza non fa che riproporre questioni relative al merito che il giudice di appello ha ritenuto di non poter esaminare per la genericità di cui si è detto. Poichè la decisione di inammissibilità è corretta, le censure del secondo motivo non possono essere esaminate, essendo relative al merito e non potendosi ignorare la circostanza che l’appello è stato ritenuto inammissibile.

3. Col terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Osserva la ricorrente che la sentenza avrebbe omesso di considerare i fatti di causa come risultanti dai documenti prodotti; in particolare, la pronuncia non avrebbe spiegato per quale ragione il mancato pagamento di alcune bollette contestate sia stato ritenuto un fatto più grave della sospensione della fornitura da parte del gestore.

3.1. Il motivo è inammissibile.

Anche volendo tralasciare la genericità del richiamo ad atti e documenti che non vengono in alcun modo specificati, la censura si risolve, attraverso l’apparente richiamo al vizio di motivazione, nell’indebito tentativo di ottenere in questa sede un nuovo e non consentito esame del merito.

4. Il ricorso, pertanto, è rigettato.

A tale esito segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

Sussistono, inoltre, le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 1.800, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione Civile – 3, il 28 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA