Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9565 del 22/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 22/04/2010, (ud. 24/03/2010, dep. 22/04/2010), n.9565

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 33635/2006 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO Luigi, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato TRIFIRO’ SALVATORE, giusta mandato a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

V.U., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIOVANNI

BETTOLO 4, presso lo studio dell’avvocato BROCHIERO MAGRONE Fabrizio,

che la rappresenta e difende, giusta mandato a margine del

controricorso;

– controricorrente –

e contro

G.L.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 802/2005 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 06/12/2005 r.g.n. 1090/04 + 2;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

24/03/2010 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto in subordine per

l’accoglimento del ricorso per quanto di ragione.

 

Fatto

IN FATTO E DIRITTO

La Corte rilevato che:

il giudice d’appello di Milano, confermando la sentenze di prime cure, ha dichiarato l’illegittimità del termine apposto ai contratti di lavoro stipulati fra i lavoratori indicati in epigrafe e Poste Italiane s.p.a. e la conseguente instaurazione fra le parti di rapporti di lavoro subordinato, ed ha condannato la società al pagamento delle retribuzioni dalla data della costituzione in mora;

per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Poste Italiane s.p.a. affidato a quattro motivi, V.U. ha resistito con controricorso; G.L. non ha svolto attività difensiva;

con riferimento all’assunzione dei detti lavoratori con contratti a termine stipulati a norma dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994 ed in particolare in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997, che prevede, quale ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine, la presenza di esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane la Corte Territoriale, premesso che l’accordo de quo era disciplinato dalla L. n. 56 del 1987, art. 23, attribuendo rilievo decisivo al fatto che le parti avevano fissato il limite del 30 aprile 1998 alla possibilità di procedere con assunzioni a termine ha ritenuto i contratti a termine in esame illegittimi in quanto, tra l’altro, stipulati in epoca posteriore;

la suddetta impostazione è stata ampiamente censurata dalla società ricorrente la quale contesta l’interpretazione data dalla Corte di merito al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997 ed agli accordi dalla stessa definiti come attuativi, nonchè l’affermato diritto alla retribuzione in assenza di prestazioni lavorative;

risulta infondata l’eccezione di tardività della notifica del ricorso in quanto a seguito delle sentenze della Corte Costituzionale n. 477 del 2002 e n. 28 del 2004, la notificazione di un atto del processo civile si perfeziona, nei confronti del notificante, al momento del compimento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario (Cfr. per tutte Cass. 390/07), e nella specie risulta dal timbro apposto a tergo del ricorso che l’atto è stato consegnato in data 6 dicembre 2006 e quindi entro il termine annuale di cui all’art. 327 c.p.c.;

le censura sono infondate;

numerose sentenze questa Corte (cfr., ex plurimis, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378), decidendo su fattispecie sostanzialmente identiche a quella in esame, ha univocamente confermato le sentenze dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto a contratti stipulati, in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997 sopra richiamato (esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione ..), dopo il 30 aprile 1998; premesso, in linea generale, che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 e successive modifiche nonchè dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis, convertito con modificazioni dalla L. 15 marzo 1983, n. 79 – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588), e che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normative-la sopra ricordata giurisprudenza di legittimità ha osservato in particolare che la suddetta interpretazione degli accordi attuativi non viola alcun canone ermeneutico atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453);

ha rilevato altresì che tale interpretazione è rispettosa del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 cod. civ., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25 settembre 1997); diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, sì dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866);

ha, infine, ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141);

il sopra citato orientamento di questa Corte deve essere pienamente confermato atteso che Le tesi difensive che si sono confrontate nelle fasi di merito, quelle oggi proposte all’attenzione della Corte e, infine, le ragioni esposte nella sentenza impugnata non sono sorrette da argomenti che non siano già stati scrutinati nelle ricordate decisioni o che propongano aspetti di tale gravità da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti;

deve osservarsi in proposito, con riferimento alle decisioni di questa Corte Suprema prima citate nella parte in cui esse si riferiscono all’interpretazione di norme collettive di diritto comune, che le stesse hanno comunque valenza di precedenti, ancorchè non in senso tecnico atteso che, da un lato, lo stesso controllo di logicità del giudizio trova, in parte qua, le proprie coordinate nelle disposizioni di legge in tema di ermeneutica contrattuale le quali, suscettibili di lettura diretta da parte del giudice della nomofilachia, costituiscono obbligato punto di riferimento nella ricerca e nell’identificazione dei punti decisivi per la ricostruzione dell’effettiva volontà delle parti stipulanti;

dall’altro, le clausole delle fonti collettive, per la loro naturale riferibilità ad una serie indeterminata di destinatari e per il loro carattere sostanzialmente normativo, non sono assimilabili completamente a quelle di un normale contratto o accordo, sicchè, neanche rispetto ad esse è trascurabile il fine di assicurare ai potenziali interessati, per quanto possibile e per quanto non influenzato dalle insopprimibili peculiarità di ciascuna fattispecie, quella reale parità di trattamento che si fonda sulla stabilità degli orientamenti giurisprudenziali, specialmente sollecitata quando, come nella specie, assuma icastica evidenza l’identità dei percorsi logici seguiti nelle decisioni progressivamente portate all’esame del giudice di legittimità e dei contesti difensivi nei quali tali decisioni risultano calate (Cass. 29 luglio 2005 n. 15969);

il motivo,poi, proposto dalla società Poste in relazione alle conseguenze economiche derivanti dalla accertata invalidità dell’apposizione del termine è del tutto infondato atteso che la soluzione adottata dal giudice di merito è conforme all’insegnamento di questa Corte Suprema (cfr. Cass. S.U. 8 ottobre 2002 n. 14381 nonchè, da ultimo, Cass. 13 aprile 2007 n. 8903) che, con riferimento all’analoga ipotesi della trasformazione in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato di più contratti a termine succedutisi tra le stesse parti, per effetto dell’illegittimità dell’apposizione dei termini, o comunque dell’elusione delle disposizioni imperative della L. n. 230 del 1962, ha affermato che il dipendente che cessa l’esecuzione delle prestazioni alla scadenza del termine previsto può ottenere il risarcimento del danno subito a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla – in linea generale in misura corrispondente a quella della retribuzione – qualora provveda a costituire in mora lo stesso datore di lavoro ai sensi dell’art. 1217 cod. civ.; la Corte Territoriale ha, sulla base di una valutazione di merito che non è stata adeguatamente censurata in questa sede, individuato il suddetto atto di messa in mora nella formale messa a disposizione da parte del lavoratore delle proprie energie lavorative;

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza. Nulla per le spese nei confronti della parte rimasta intimata.

PQM

La Corte rigetta il ricorso condanna la società ricorrente al pagamento in favore dei resistenti delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 30,00, oltre Euro 2.000,00 per onorario e oltre spese I.V.A. e C.P.A.. Nulla per le spese nei confronti della parte rimasta intimata.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2010

 

 

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