Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9561 del 13/04/2017

Cassazione civile, sez. I, 13/04/2017, (ud. 26/10/2016, dep.13/04/2017),  n. 9561

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

F.L., elettivamente domiciliato in Roma, via Cicerone, n.

28, nello studio dell’avv. Pietro Di Benedetto; rappresentato e

difeso dall’avv. Nicola Cipriani, giusta procura speciale in calce

al ricorso;

– ricorrente –

contro

CONGREGAZIONE CRISTIANA DEI TESTIMONI DI GEOVA, P.M. –

B.G. – S.A. – C.G., elettivamente

domiciliati in Roma, via Donatello, n. 75, nello studio dell’avv.

Andrea Barenghi, che li rappresenta e difende unitamente agli avv.ti

Pietro Rescigno e Giuseppe Tucci, giusta procura speciale in calce

al controricorso

– conroricorrenti –

e contro

L.F.P. – C.N. – PI.MA. –

R.G. – LU.GI. – F.G. – PU.VI.;

– intimati –

avverso l’ordinanza emessa ex art. 348 bis c.p.c. dalla Corte di

appello di Bari, depositata in data 11 novembre 2014, nonchè

avverso la sentenza del Tribunale di Bari n. 4231, depositata in

data 6 dicembre 2013;

sentita la relazione svolta all’udienza pubblica del 26 ottobre 2016

dal consigliere dott. Pietro Campanile;

sentito per il ricorrente l’avv. Nicola Cipriani;

sentiti per i controricorrenti gli avv.ti Rescigno, Barenghi e Tucci;

udite le richieste del Procuratore Generale, in persona del sostituto

dott.ssa CERONI Francesca, che ha concluso per l’inammissibilità,

o, in subordine, per il rigetto del ricorso avverso l’ordinanza e

per l’inammissibilità del ricorso avverso la sentenza di primo

grado.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il sig. F.L. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Bari la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova e, premesso che, dopo essere stato battezzato all’età di 15 anni, frequentando assiduamente detta organizzazione religiosa, aveva poi comunicato per iscritto, nel luglio del 2005, la propria volontà di dimettersi, pur precisando che la propria fede era rimasta immutata.

1.1. Richiamate le modalità con le quali si perde la qualifica di associato alla suddetta Congregazione (dimissioni, decadenza, espulsione), veniva precisato che le ultime due comportano – come dimostrato dalla citazione di una serie di pubblicazioni diffuse nell’ambito dei (OMISSIS) – la cessazione di ogni rapporto, compreso il mero saluto, da parte degli altri associati, e che l’attuazione di tali condotte normalmente è conseguente all’annuncio formale, dato nell’assemblea, che il soggetto interessato “non è più (OMISSIS)”.

Veniva quindi rappresentato che, nonostante la notifica di una diffida a non farlo, nel luglio del 2006 era stato dato l’annuncio che lo riguardava dal presidente della congregazione locale.

1.2. In conseguenza di tale annuncio si erano verificate una serie di conseguenze dannose, poichè l’attore sarebbe stato sottoposto a una sorta di ostracismo (maggiormente afflittivo in quanto la quasi totalità delle pregresse frequentazioni era costituita da associati alla Congregazione): egli pertanto chiedeva che, previa declaratoria dell’illegittimità dell’annuncio (che per altro, nella sua formulazione, e in assenza di ulteriori esternazioni, non consentiva di distinguere se si trattasse di dimissione, come nella specie, ovvero di “disassociazione” – termine corrispondente all’espulsione – con tutte le negative implicazioni che la stessa comportava), le parti convenute fossero condannate al risarcimento dei danni arrecati alla sua persona.

1.3. Con sentenza depositata il 6 dicembre 2016 il Tribunale di Bari rigettava le domande del F..

Ricostruite previamente le circostanze di fatto e richiamate le previsioni statutarie, veniva osservato che, pur non essendo previsto detto annuncio in relazione all’ipotesi di dimissioni, doveva escludersi che nello stesso potessero ravvisarvi profili di illegittimità, sia perchè non veniva lesa la sua personalità a livello religioso, avendo egli stesso affermato di aver maturato un atteggiamento critico nei confronti della Congregazione, e comunque essendo incentrate le sue deduzioni circa le negative conseguenze dell’annunzio stesso non tanto su un giudizio dei terzi sulle proprie convinzioni religiose, quanto sull’ostracismo che ne era conseguito nei suoi confronti.

1.4. Si osservava, quindi, che dovevano distinguersi gli aspetti di natura statutaria della Congregazione da quelli più strettamente legati alla confessione dei (OMISSIS), e quindi, considerati i fatti dedotti dal F., si escludeva che gli stessi acquistassero rilevanza sotto il profilo penale in quanto atti di discriminazione per ragioni religiose, e che le condotte degli associati – sostanzialmente concretantesi in un rifiuto di avere con lui rapporti amicali o di altro tipo – erano irrilevanti anche in relazione al principio del neminem laedere. Infatti tali condotte non interferirebbero su diritti della personalità, ma semplicemente implicherebbero atteggiamenti, ancorchè riprovevoli sul piano sociale, non sindacabili sotto il profilo della liceità, in quanto frutto di libere scelte, sebbene condizionate da una convinzione di tipo religioso.

1.5. L’attore, per altro, non aveva convenuto in giudizio i soggetti ai quali imputava le manifestazioni di ostracismo, per altro, come già accennato, libere di seguire i dettami della propria religione. Per tale ragione le prove dedotte dall’attore non potevano considerarsi rilevanti.

1.6. Con ordinanza emessa ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c. la Corte di appello di Bari ha dichiarato inammissibile l’appello proposto avverso detta decisione dal sig. F., il quale, con unico ricorso, ha impugnato sia l’ordinanza, con tre profili di censura, sia la sentenza del Tribunale, chiedendone la cassazione sulla base di otto motivi.

Gli intimati resistono con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

2. Preliminarmente va ribadita l’ammissibilità dell’impugnazione, con unico ricorso, della sentenza di primo grado e dell’ordinanza emessa dalla Corte di appello ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c. (Cass., 17 aprile 2014, n. 8942; implicitamente, Cass., Sez. un., 15 dicembre 2015, n. 25208).

3. L’impugnazione avverso l’ordinanza emessa dalla Corte di appello di Bari ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c..

3.1. Con il primo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità dell’ordinanza per omessa – ovvero apparente – motivazione, per non essersi esaminato il complesso delle doglianze relativo alle mancate risposte, da parte del Tribunale, alle istanze del ricorrente.

3.2. Con il secondo mezzo si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., per non aver la Corte di appello esaminato determinati motivi di impugnazione avverso la sentenza di primo grado.

3.3. La terza censura attiene all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sempre con riferimento al contenuto dei motivi di appello, non adeguatamente vagliati dalla corte distrettuale.

4. Il ricorso avverso la suddetta ordinanza è in parte inammissibile, ed in parte infondato.

4.1. Le Sezioni unite di questa Corte, nell’affermare l’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione, per vizi propri di carattere procedurale, avverso l’ordinanza pronunciata dalla corte di appello ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., hanno precisato che deve tenersi conto della circostanza che una pronuncia di inammissibilità dell’impugnazione per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento non è possibile se non in relazione a tutti i motivi di appello proposti avverso la sentenza di primo grado. Ne consegue che, nell’ambito di tale valutazione complessiva, la denuncia del vizio di omessa pronuncia in relazione a singoli motivi di censura non è compatibile con la natura complessiva del giudizio prognostico, necessariamente esteso a tutte le impugnazioni relative alla medesima sentenza, nonchè a tutti i motivi di ciascuna impugnazione (Cass., 2 febbraio 2016, n. 1914).

4.2. Alla stregua delle superiori considerazioni deve formularsi un giudizio di inammissibilità in ordine al secondo ed al terzo motivo, in quanto riguardano presunteomissioni di pronuncia (ovvero di esame) rispetto a specifiche doglianze concernenti determinati aspetti di natura fattuale o procedurale, e risultano quindi incompatibili con la logica complessiva dell’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c..

4.3. Quanto alla prima censura, osserva la Corte che il giudizio prognostico formulato nell’ordinanza in esame costituisce il portato di un’ampia e approfondita disamina, ancorchè complessiva, nei termini sopra specificati, degli aspetti salienti della vicenda per come affrontati nella decisione di primo grado e riproposti dall’appellante: in particolare, risultano scrutinati in maniera sintetica, ma incisiva, i temi fondamentali della vicenda, anche con riferimento alle conseguenze del c.d. “annuncio”. In particolare, sono state analizzate, con motivazione congrua e comunque esente dai rilievi formulabili in relazione alla natura del provvedimento e all’applicabilità, nella specie, dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che ha ridotto al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione, nel senso già chiarito da questa Corte (Cass., Sez. un., n. 8053 del 2014), le questioni inerenti ai profili di natura statutaria, alla ricorrenza o meno di attività discriminatoria, all’illiceità o meno delle condotte e alla loro riferibilità alle parti convenute.

5. L’impugnazione avverso la sentenza del Tribunale di Bari n. 4231 del 2013.

5.1. Con il primo motivo si deduce la nullità della decisione di merito, per omissione o contraddittorietà di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver il Tribunale riconosciuto che l’annuncio non era previsto dallo Statuto, nè dalle pubblicazioni inerenti al culto dei (OMISSIS), rigettando tuttavia la domanda correlata alla illegittimità di detto annuncio.

5.2. Con il secondo mezzo la nullità della decisione impugnata viene denunciata, sempre in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, sotto il profilo dell’omessa motivazione in ordine all’induzione all’ostracismo da parte della Congregazione e degli altri convenuti.

5.3. La terza censura prospetta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il vizio di omessa motivazione, per essere stato del tutto negletto l’aspetto inerente all’induzione all’ostracismo.

5.4. Con il quarto motivo, denunciandosi la violazione degli artt. 18 e 19 Cost. nonchè dell’art. 9 Cedu, si sostiene che la libertà religiosa di un soggetto aderente a una determinata confessione risulta seriamente compromessa nel momento in cui, a seguito del proprio recesso, si trova esposto a una serie di conseguenze negative, sul piano personale.

5.5. Il quinto mezzo attiene alla nullità della decisione per “contraddittorietà ed illogicità manifesta”, nonchè per violazione dell’art. 115 c.p.c., per aver il Tribunale ritenuto che i fatti dedotti erano stati contestati, e per non aver tuttavia ammesso le prove dedotte dalla difesa del ricorrente.

5.6. Con la sesta censura si denuncia violazione dell’art. 116 c.p.c., per essersi omessa la valutazione della documentazione inerente l’effettività dei precetti inerenti all’ostracismo.

5.7. Il settimo motivo riguarda la violazione degli artt. 183, 187, 209 e 210 c.p.c., in relazione al rigetto delle istanze istruttorie dedotte dalla difesa del dott. F..

5.8. Si denuncia, infine, violazione dell’art. 2043 c.c., in relazione all’affermazione dell’insussistenza di un danno risarcibile.

6. Avanti di esaminare partitamente le esposte doglianze, mette conto di evidenziare che la presente vicenda processuale attiene al delicato tema della libertà religiosa, sotto il profilo dalla facoltà di recedere da un sodalizio improntato alla professione di una determinata fede, senza subire condizionamenti di sorta, nè, dopo il recesso, conseguenze negative riconducibili in una serie di condotte, da parte degli altri associati, lesive di diritti della personalità.

6.1. In realtà, il primo quesito, che attiene all’esercizio della facoltà di recesso, si colloca sullo sfondo della presente vicenda, per come ricostruita nella decisione impugnata e per come esposta nello stesso ricorso, nel senso che – non potendosi dubitare che il dott. F. abbia potuto, senza subire alcun condizionamento preventivo, presentare le proprie dimissioni, poi accettate senza riserve – la prospettazione della previsione, se non statutaria certamente derivante dall’applicazione dei principi professati e propalati nell’ambito di quella confessione, di un certo tipo di sanzione, vale a dire l’ostracismo da parte degli altri associati, costituisce il presupposto della pretesa risarcitoria avanzata non nei confronti degli soggetti ai quali vengono direttamente attribuite le condotte asseritamente lesive, ma nei riguardi della stessa Congregazione e dei suoi rappresentanti.

6.2. Non può omettersi di rilevare, a tale proposito, che il complessivo percorso argomentativo che sorregge l’impugnazione appare sostanzialmente perplesso, in quanto non sorretto da una coerente ed univoca impostazione: da un lato si afferma l’illegittimità, in relazione all’ipotesi delle dimissioni, del fatidico “annuncio”, che avrebbe avuto gli effetti di un vero e proprio anatema, perchè contrario alle norme statutarie e ai principi operanti nell’ambito della confessione, dall’altro si attribuiscono alla Congregazione, alla quale lo stesso “annuncio” dovrebbe risultare, non essendo previsto dalle proprie regole, assolutamente estraneo, le conseguenze, ritenute dannose, da esso derivanti.

6.3. Vale bene rilevare fin da ora come già in ambito associativo la relativa libertà, sancita dall’art. 18 Cost., riguarda anche, come espressamente prevede l’art. 20 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, l’assenza di costrizioni ad associarsi o a rimanere associati (“La libertè d’association implique la libertè de ne pas s’associer”; cfr. Cedu, 30 giugno 1993, Sigardur Sicurjonsson c. Islanda; id., 29 aprile 1999, Chassagnou c. Francia), e tale principio certamente investe le associazioni religiose, posto che, come espressamente prevede l’art. 19 Cost., tutti hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata. Certamente, le regole organizzative della forma associativa adottata da un determinato culto, nella specie quelle dell’associazione non riconosciuta, sono soggette al vaglio da parte dell’organizzazione statale e, di conseguenza, giurisdizionale, soprattutto quando venga dedotta la violazione di diritti soggettivi inerenti alla libertà di culto e ad altri aspetti fondamentali della personalità. In tale ambito non può escludersi il verificarsi di qualche contrasto fra il “foro interno” e le regole associative traguardate alla luce dei principi dell’ordinamento che regolano la materia, regole alle quali soltanto il controllo in sede giurisdizionale può intendersi deputato: il caso in esame si rivela a tal fine abbastanza emblematico, avendo il dott. F. manifestato la propria volontà di dimettersi dalla Congregazione, precisando tuttavia che “la propria fede in (OMISSIS) era immutata e ribadendo la propria adesione ai valori della fede e della confessione dei (OMISSIS)”.

6.4. Il tema inerente alla distinzione fra regole formali ed aspetti di natura propriamente confessionale si estende poi, dall’associato receduto, nel quale si crea una sorta di sdoppiamento, essendo egli ormai svincolato dalle regole statutarie, sentendosi tuttavia ancora legato ai valori fondamentali del culto, agli altri fedeli, i quali – secondo la ricostruzione contenuta nella sentenza impugnata (pag. 29) – avrebbero conformato le loro condotte a indirizzi di natura religiosa e non “regolamentare”.

6.4.1. Il Tribunale ha poi posto in evidenza come, sulla base dei precetti di natura “confessionale”, ricostruiti sulla base delle pubblicazioni interne al culto – e privi di qualsiasi riferimento, anche sul piano formale, a modifiche statutarie, la questione che si pone in termini problematici attiene esclusivamente al fenomeno, non rilevante in questa sede, della “disassociazione”, e non alla mera “dissociazione”, rispetto alla quale, per altro, l’annuncio che il dimissionario “non è più (OMISSIS)”, assume, ancorchè non previsto dallo Statuto, un carattere neutro, non lesivo della personalità del dimissionario stesso, nè discriminatorio.

6.5. In considerazione degli aspetti sopra evidenziati appare evidente come la risoluzione della controversia, per altro fortemente condizionata dalla soluzione di questioni concernenti profili di natura fattuale non sindacabili in questa sede, debba essere conseguita all’esito di un percorso arduo e travaglioso, dovendosi dapprima superare gli scogli del rispetto delle regole statutarie e quelli della valutazione delle condotte, più o meno spontanee, degli altri associati, attribuite o attribuibili a realizzazione di principi confessionali, per poi stabilire l’essenza e la lesività, per come nella presente vicenda dedotto, del c.d. “ostracismo”.

6.6. In ordine a tali valutazioni assume carattere dirimente, oltre al diritto delle confessioni, considerate anche sotto il profilo associativo, di professare liberamente le espressioni dei propri culti (diritto principalmente tutelato dall’art. 19 Cost.), il principio di non ingerenza desumibile dall’art. 8 Cost., comma 2, che, prevede l’autonomia statutaria delle associazioni, sotto il profilo organizzativo, nel rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento (Corte cost., 21 gennaio 1988, n. 43), nonchè l’esigenza di un bilanciamento fra la libertà religiosa dell’associazione e i diritti fondamentali dell’individuo (cfr. Cass., Sez. U., 27 maggio 1994, n. 5213; Cass., Sez. U., 18 ottobre 1993, n. 10300; Cass., Sez. U., 10 aprile 1997, n. 3127).

7. Tanto premesso, deve rilevarsi che il ricorso è in parte inammissibile, ed in parte infondato.

8. Non coglie nel segno, così come prospettata, la questione introdotta con la prima censura: la mancata previsione dell’annuncio in relazione all’ipotesi delle dimissioni, o della “dissociazione”, non è stata ritenuta per tale motivo illegittima: il Tribunale, dopo aver affermato la natura “confessionale” della prescrizione “dettata sia per la disassociazione che per la dissociazione”, del breve annuncio, ha escluso, con riferimento al caso in esame, che dallo stesso potesse derivare una lesione, sul piano religioso, dell’identità personale, dal momento che la frase in cui si afferma che il dimissionario o l’espulso “non è più (OMISSIS)”, corrisponde alla realtà, nè equivale a una stigmatizzazione negativa, tanto più che, come si afferma nel controricorso, è consentita, al fine di propiziare un reinserimento, la partecipazione alle assemblee del dimissionario e persino del disassociato, con conseguente possibilità di intervenire e di mettere in luce, ove ritenuto necessaria, qualsiasi circostanza atta ad evitare ogni ragione di discredito.

Non può omettersi di considerare, d’altra parte, che nel ricorso non si indicano le fonti, di carattere statutario o anche solo consuetudinario, del dedotto divieto dell’annuncio nell’ipotesi di dimissioni del fidelis.

9. In realtà non risulta contestato il giudizio sul carattere neutro dell’annuncio, in sè considerato, in quanto il dato fondante della do-glianza riposa sul binomio “annuncio – ostracismo”, vale a dire sull’efficacia scatenante della propalazione (verosimilmente priva, in una comunità così ristretta, di qualsiasi carattere di novità) rispetto al successivo comportamento degli associati.

10. Possono a questo punto esaminarsi congiuntamente il secondo, il terzo e il quarto motivo, in quanto fra loro intimamente correlati.

10.1. Il tema dell’induzione all’ostracismo, che il Tribunale avrebbe omesso di valutare, per un verso risulta implicitamente esaminato, nel senso che, escluso il carattere di illecito nella condotta degli associati, ricondotta in una sorta di adempimento di precetti di natura confessionale, il Tribunale ha rilevato che le persone – diverse da quelle convenute in giudizio – erano da reputare “libere o meno di seguire i dettami di quelle religione” (pag. 37), per altro verso, in maniera altrettanto implicita, è risultato carente di decisività.

10.2. La sentenza impugnata, invero, ha svolto un’accurata analisi delle condotte denunciate dal F., ed è pervenuto alla conclusione che, risolvendosi l’ostracismo da costui allegato nel rifiuto di frequentazione, doveva escludersi innanzitutto, in assenza dell’obbligo di tenere una condotta di segno contrario, qualsiasi profilo discriminatorio, laddove il complesso dei comportamenti descritti riguardava piuttosto la violazione di norme di condotta civile e di buona educazione, senza incidere su situazioni considerate meritevoli di tutela dal punto di visto penalistico o, in generale, sotto il profilo del principio civilistico del neminem laedere. Tale considerazione, che assume rilevanza decisiva e che non appare adeguatamente censurata, acquista maggiore spessore ove si ponga mente all’esigenza, sopra evidenziata, di un bilanciamento fra la libertà religiosa garantita all’associazione – ove anche si voglia attribuire a dette condotte una valenza confessionale – e il diritto del singolo credente, nel senso che, a fronte del principio di non ingerenza (che sembra trovare applicazione anche nell’Intesa – art. 1, comma 2 raggiunta fra la Congregazione dei (OMISSIS) e lo Stato Italiano, ancorchè non ancora approvata), il sindacato giurisdizionale deve essere inteso alla tutela dei diritti fondamentali della persona, di certo non intaccati dalla libera scelta di alcuni soggetti, o anche di una categoria di soggetti, di non avere o interrompere dei rapporti sul piano personale, privi di tutela sul piano giuridico.

Vale bene rimarcare che, oltre al limite generale del buon costume, previsto dall’art. 19 Cost., inteso come attività conforme ai principi etici che costituiscono la morale sociale, la libera professione di una confessione religiosa deve mostrare “rispetto per la persona umana nei suoi cosi detti “diritti personalissimi”, quali trovano la loro previsione costituzionale nella garanzia da questa assicurata ai diritti inviolabili dell’uomo nello sviluppo della sua personalità e della pari dignità sociale; per la tutela della “salute”, espressamente prevista dall’art. 32 della Carta costituzionale, nonchè per le prescrizioni relative a quei principi che appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana, ed ai quali devono conformarsi anche quelle norme che godono di una particolare copertura costituzionale”, come le disposizioni del Concordato” (così Cass. pen, 22 maggio 1995, n. 5838; cfr. anche Corte cost., n. 1146 del 1988).

11. Il quinto motivo è inammissibile: da un lato non si coglie la ratio decidendi relativa alla mancata ammissione delle prove, consistente, dopo il ripensamento circa la mancata contestazione dei fatti, nel giudizio di irrilevanza delle prove dedotte, alla luce della scarsa significanza attribuita, per le ragioni testè evidenziate, ai fatti dedotti; sotto altro profilo va rilevata l’inottemperanza all’onere di trascrivere il testo integrale dei capitoli di prova, al fine di consentire il vaglio di decisività (Cass., 23 aprile 2010, n. 9748; Cass., 12 marzo 2009, n. 6023).

12. La sesta censura, per altro assorbita dai rilievi di carattere generale in ordine al fenomeno dell’ostracismo, come sopra evidenziati, è del pari inammissibile, poichè si risolve in una generica doglianza circa l’omesso esame di determinate prove di natura documentale, il cui tenore non viene neppure riprodotto.

13. Il settimo motivo, espressamente subordinato all’accoglimento del secondo e del terzo, nonchè l’ultimo, attinente alla sussistenza di un danno risarcibile, rimangono all’evidenza assorbiti.

14. La complessità e la novità dei temi trattati consigliano la compensazione delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e dichiara interamente compensate fra le parti le spese relative al giudizio di legittimità.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati significativi.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione prima civile, il 26 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 13 aprile 2017

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