Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9558 del 18/04/2018


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Cassazione civile, sez. un., 18/04/2018, (ud. 13/03/2018, dep.18/04/2018),  n. 9558

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Venezia applicò all’avv. F.L. la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per nove mesi, per violazione degli artt. 40, 41 e 44 del codice deontologico.

La violazione contestata consisteva nel fatto che l’avvocato aveva omesso d’informare il proprio cliente dell’esito di un’azione di recupero di un credito derivante da una controversia di lavoro e aveva trattenuto, senza autorizzazione, parte delle relative somme di danaro corrispostegli direttamente dalla controparte, al fine di compensare crediti che egli vantava nei confronti del cliente in relazione a parcelle concernenti precedenti attività, che assumeva fossero rimasti inadempiuti.

In esito a ricorso dell’avvocato dinanzi al Consiglio nazionale forense la sanzione è stata ridotta a sei mesi.

Contro questa sentenza l’avv. F. propone ricorso per ottenerne la cassazione, che affida a tre motivi; col medesimo ricorso il ricorrente ha sollecitato la sospensione della esecutorietà della sentenza impugnata, ritenendo sussistenti sia il fumus boni iuris, sia il periculum in mora.

La trattazione dell’istanza di sospensione è stata fissata per l’adunanza camerale del 4 luglio 2017, ai sensi dell’art. 380-ter c.p.c., come sostituito dal D.L. n. 97 del 2016, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 168 del 2016, e quindi in camera di consiglio non partecipata ed è stata rinviata a nuovo ruolo perchè il ricorrente ha fatto valere l’inosservanza del termine intercorrente tra la comunicazione dell’avviso di fissazione e l’adunanza. In vista di quell’adunanza il sostituto procuratore generale aveva concluso per il rigetto dell’istanza.

Si è quindi proceduto a fissare la pubblica udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Va dichiarato inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Consiglio nazionale forense, che, in quanto soggetto terzo rispetto alla controversia e autore della impugnata decisione, è privo di legittimazione nel presente giudizio, le parti del quale vanno individuate nel soggetto destinatario del provvedimento impugnato, cioè nel COA locale che, in sede amministrativa, ha deciso in primo grado e nel pubblico ministero presso la Corte di Cassazione (tra varie, si vedano Cass., sez. un., 6 giugno 2003, n. 9075; 7 dicembre 2006, n. 26182; 13 giugno 2008, n. 19513 del 2008; 24 gennaio 2013, n. 1716; 24 febbraio 2015, n. 3670; 27 dicembre 2016, n. 26996).

2.- Col primo motivo di ricorso l’avv. F. invoca l’intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare, in applicazione del ius superveniens costituito dall’art. 56 della nuova legge professionale (L. n. 247 del 2012), entrata in vigore il 2 febbraio 2013, il 3 comma del quale ha fissato in sette anni e mezzo il termine massimo di prescrizione dell’azione disciplinare (nella fattispecie ampiamente decorso) e ha stabilito che da ogni interruzione decorre un nuovo termine della durata di cinque anni, anch’esso trascorso.

In particolare, secondo il ricorrente la disciplina della prescrizione, più favorevole rispetto a quella vigente al tempo in cui la condotta ritenuta illecita è stata commessa, si applicherebbe al caso in esame in virtù dell’art. 65 della medesima legge, secondo il quale le norme contenute nel (nuovo) codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato.

3. – La tesi del ricorrente non è condivisibile.

Il 5 comma dell’art. 65 della nuova legge professionale recita, testualmente, nella sua ultima parte: “… L’entrata in vigore del codice deontologico determina la cessazione di efficacia delle norme previgenti anche se non specificamente abrogate. Le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato”.

Al riguardo sono emersi orientamenti non del tutto convergenti nella giurisprudenza di queste sezioni unite.

Isolato è rimasto l’indirizzo che riferisce anche alla prescrizione la norma del nuovo codice deontologico (Cass., sez. un., ord. 27 ottobre 2015, n. 21829).

4.- In seno all’orientamento prevalente, che, invece, esclude dall’ambito di applicazione della disposizione l’istituto della prescrizione, s’individuano impostazioni non coincidenti.

La prima (inaugurata da Cass., sez. un., 20 maggio 2014, n. 11025, seguita da 2 febbraio 2015, n. 1822 e 16 novembre 2015, n. 23364) assume come presupposto che le sanzioni disciplinari delle quali si discute abbiano natura e sostanza amministrativa.

Si rileva quindi che il precetto della disposizione è dedicato unicamente al nuovo codice deontologico, sicchè, lungi dall’investire l’intero impianto dell’ordinamento professionale disciplinare, esso si rivela univocamente improntato a regolare esclusivamente la successione nel tempo delle norme del previgente e di quelle dell'(allora) emanando nuovo codice deontologico (e delle ipotesi incriminatrici a esse rispettivamente correlate).

Di qui si trae la conseguenza che per tutti gli ulteriori profili dell’ordinamento disciplinare che non trovano la relativa fonte regolamentare nel codice deontologico (e, quindi, per la prescrizione, che è regolata da disposizione legale), resta operante il criterio generale dell’irretroattività delle norme in tema di sanzioni amministrative.

Criterio generale, che risente della qualificazione degli illeciti, in particolare di quelli sanzionati in via amministrativa, espressione della discrezionalità legislativa, la quale giustifica, sul piano sistematico, la pretesa di potenziare l’efficacia dissuasiva della sanzione, eliminando per il trasgressore ogni aspettativa di evitare la sanzione grazie a possibili mutamenti legislativi (Corte cost. 20 luglio 2016, n. 193).

5.- In base a una diversa prospettiva (espressa da Cass., sez. un., 16 luglio 2015, n. 14905, seguita da 7 dicembre 2016, n. 25054), pure si giunge alla medesima conclusione.

Ma lo si fa richiamando la sentenza con la quale la Corte costituzionale (Corte cost. 22 luglio 2011, n. 236) ha stabilito che il principio di retroattività in mitius, riconosciuto dalla Corte Europea di Strasburgo sulla base dell’art. 7 Cedu, non può riguardare le norme sopravvenute che modificano, in senso favorevole al reo, la disciplina della prescrizione, con la riduzione del tempo occorrente perchè si produca l’effetto estintivo del reato.

L’inapplicabilità del principio postula quindi un diverso presupposto, ossia l’idoneità della misura, benchè qualificata come amministrativa in base all’ordinamento interno, ad acquisire caratteristiche punitive alla luce dell’ordinamento convenzionale della CEDU.

5.1.- Ciò perchè la Corte costituzionale ha stabilito che il principio di retroattività in mitius consacrato dall’art. 7 della CEDU concerne le sole norme che prevedono i reati e le relative sanzioni e non già quelle che regolano la prescrizione; laddove il principio regolato dall’art. 2 c.p., comma 4, “riguarda ogni disposizione penale successiva alla commissione del fatto, che apporti modifiche in melius di qualunque genere alla disciplina di una fattispecie criminosa, incidendo sul complessivo trattamento riservato al reo”, ivi compresa, quindi, quella concernente la disciplina della prescrizione.

Difatti, quella Corte ha anche da ultimo precisato (con ord. 26 gennaio 2017, n. 24) che la prescrizione del reato ha rilievo sostanziale in quanto definisce un elemento tipico del reato, là dove incide sulla punibilità della persona; e questa natura sostanziale comporta che essa rientri nello specchio applicativo del principio di legalità.

5.2.- D’altronde, con la sentenza n. 236/11, la Corte si è limitata a stabilire che al principio di retroattività della legge più favorevole al reo stabilito dall’art. 2 c.p., comma 4, si può derogare, in relazione al termine di prescrizione, per via della legislazione ordinaria, quando ne ricorra una sufficiente ragione giustificativa; il che comporta l’operatività del principio, in mancanza di una tale deroga, sebbene l’istituto della prescrizione non formi oggetto della tutela apprestata dall’art. 7 della CEDU.

6.- Vanno, tuttavia, ribadite la natura e la sostanza amministrative delle sanzioni disciplinari e, per conseguenza, va confermato l’indirizzo più antico e prevalente della giurisprudenza di questa Corte.

Non può difatti essere riconosciuta a queste sanzioni natura punitiva in base ai criteri elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nella storica sentenza 23 novembre 1976, relativa al caso Engel, costantemente seguiti dalla giurisprudenza, anche costituzionale (vedine il richiamo, da ultimo, in Corte cost. 2 marzo 2018, n. 43; per l’applicazione che ne fa la giurisprudenza amministrativa, cfr., tra varie, Cons. Stato 22 novembre 2017, n. 5420; in tema, anche Corte giust. 20 marzo 2018, causa C-524/15, Menci, punto 26).

6.1.- Che le sanzioni disciplinari non restino pregiudizialmente escluse dalla materia penale emerge dallo stesso caso Engel, in cui si discuteva del ricorso di alcuni militari olandesi ai quali erano state appunto inflitte sanzioni disciplinari che incidevano sulla libertà personale: sanzioni ritenute non penali rispetto ai primi tre ricorrenti, in ragione della loro relativa brevità, e soggette invece alle garanzie stabilite dall’art. 6 della CEDU quanto agli altri due, a causa della maggiore durata.

6.2.- Esse vanno quindi esaminate in concreto, alla luce dei criteri in quell’occasione fissati, alternativi e non cumulativi (benchè non si possa escludere “un approccio cumulativo quando analisi separate di ciascun criterio non rendono possibile una chiara conclusione riguardo all’esistenza di una accusa in materia penale”: Corte EDU 9 ottobre 2003, Ezeh and Connors, paragrafo 86), in virtù dei quali la natura della misura va qualificata in base:

a.- alla sua qualificazione in base al diritto nazionale;

b.- alla natura stessa della misura;

c.- alla natura e al grado di severità della sanzione (come ribadito, da ultimo, dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, grande camera, 15 novembre 2016, A e B. contro Norvegia).

In base al criterio sub a., la sanzione disciplinare è provvedimento amministrativo in base al diritto nazionale.

E a conclusioni analoghe si perviene in base a quello sub b. (ritenuto il più importante, in base a Corte Europea dei diritti dell’uomo 23 novembre 2006, grande camera, causa Jussila c. Finlandia, n. 73053/01, paragrafo 38), perchè la sanzione non è inflitta dall’autorità giudiziaria, ma da un organo amministrativo; inoltre, anche quella più grave tutela interessi specifici di una formazione sociale ristretta, non già valori primari dell’intera collettività; ancora, la sanzione non risponde, almeno direttamente, a una funzione deterrente e repressiva, bensì a una funzione inibitoria, a tutela sia degli utenti del servizio reso, dal professionista, sia del prestigio dell’ente di appartenenza.

La Corte di Strasburgo ha del resto rilevato che le procedure non si possono ritenere di natura penale nella misura in cui le autorità interne fanno in modo che la decisione rimanga in una sfera puramente amministrativa (Corte EDU 16 settembre 2007, Moullet c. Francia, a proposito del congedo obbligatorio di un ufficiale dell’esercito conseguente a una violazione della disciplina militare, perchè rivolta a un gruppo sociale determinato).

E, in relazione anche al criterio sub c., la Corte ha negato natura penale alla sanzione della cancellazione di un avvocato dall’albo professionale, facendo leva sulla considerazione che “its aim is to restore the confidence of the public by showing that in cases of serious professional misconduct the Bar Association will prohibit the lawyer concerned from practicing” (Corte EDU 19 febbraio 2013, Mueller-Hartburg c. Austria).

Il che a maggior ragione vale nell’ipotesi in esame, in cui si discute della sanzione disciplinare della sospensione di sei mesi.

6.2.1.- Si rinviene conferma di questa impostazione in Corte EDU 8 dicembre 2015, Monaco c. Italia, relativa alla sanzione dell’espulsione inflitta a uno studente, in cui si legge che “La Corte si limita ad osservare che i fatti ascritti al ricorrente rientravano in ambito disciplinare, che la sanzione inflitta era volta manifestamente a mantenere l’ordine e la disciplina in seno all’università e che il ricorrente non rischiava di incorrere in una pena privativa della libertà o di natura pecuniaria. Pertanto, i paragrafi 2 e 3 dell’articolo 6 della Convenzione sono inapplicabili nella fattispecie”.

6.3.- A conclusioni analoghe è già giunta la giurisprudenza di questa Corte, con riguardo alle sanzioni disciplinari irrogate ai notai (Cass. 3 febbraio 2017, n. 2927, ripresa, a proposito di quelle inflitte ai lavoratori pubblici con rapporto contrattuale, da Cass. 26 ottobre 2017, n. 25485), nonchè, in ambito penale, in riferimento alla sanzione disciplinare della sospensione dalla professione per un periodo determinato di un medico in relazione a una falsità in un’autocertificazione (Cass. 26 aprile-26 agosto 2016, n. 35554, Labate).

L’inapplicabilità della disciplina più favorevole determina per conseguenza il rigetto del motivo.

7.- Il ricorrente, col primo profilo del secondo motivo di ricorso, denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del diritto di difesa presidiato anche da norme sovranazionali, perchè il Consiglio nazionale forense, nel considerare ingiustificata l’assenza dell’incolpato alla prima ed unica udienza del 24 novembre 2016, e nel valutare, con eccesso di potere, l’inattendibilità della presentata certificazione medica sul suo impedimento a comparire o senza valutare adeguatamente il referto, ha omesso di rinviare la trattazione del procedimento.

7.1.- Non possono essere qui presi in considerazione altri aspetti (pur adombrati nel motivo) attinenti a vizi della motivazione della sentenza nella parte in cui ha richiamato l’ordinanza con la quale si è rigettata l’istanza di rinvio per l’affermata carenza del relativo presupposto: tali vizi della motivazione, infatti, non potrebbero essere esaminati sotto il profilo (l’unico prospettato) della violazione di legge.

7.2.- Questo profilo del motivo, come sopra interpretato, non è fondato.

Infatti, come chiarito nella sentenza, il procedimento non è stato rinviato perchè non è stato ravvisato l’impedimento a tal fine necessario.

Tale valutazione è sufficiente a giustificare il mancato rinvio, la mancata audizione e a escludere la dedotta violazione di legge (tra le altre, Cass., sez. un., 24 gennaio 2013, n. 1715 e sez.un., 6 aprile 2017, n. 10226).

7.3.- Estraneo al perimetro della violazione di legge è, poi, il secondo profilo del secondo motivo, col quale si contesta il rigetto delle istanze istruttorie, in tal modo coinvolgendo l’apprezzamento del giudice di merito.

8.- Col terzo e col quarto motivo si denunciano infine vizi di motivazione, riguardanti, il primo, la valutazione dei documenti in atti e, il secondo, la quantificazione della sanzione.

Entrambe le deduzioni di tali vizi sono inammissibili, al cospetto del regime previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, al quale l’impugnazione della sentenza è ratione temporis soggetta, essendo consentita soltanto per l'”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

Disposizione, questa, che deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità. Sicchè l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivazione sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (sul punto, tra varie, Cass., sez. un., 20 ottobre 2015, n. 21216 e 28 ottobre 2015, n. 21948).

8.1.- Orbene, i motivi in esame all’evidenza non denunciano un vizio riconducibile alla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, atteso che il Consiglio nazionale forense ha esaminato i documenti, dei quali il ricorrente auspica una diversa lettura ed ha ragguagliato la sanzione alle circostanze specifiche della fattispecie.

9.- Il ricorso va in conseguenza respinto.

Nulla per le spese, in mancanza di attività difensiva.

9.1.- Va affermata la sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, diversamente da quanto può apparire dalla lettura di Cass., sez. un., 25 novembre 2013, n. 26280 (sulla sussistenza di tali presupposti, tra le più recenti, Cass., sez. un., 23 novembre 2017, n. 27897; 18 luglio 2017, n. 17720; 11 luglio 2017, nn. 17109 e 17108).

PQM

dichiara inammissibile il ricorso, là dove è proposto nei confronti del Consiglio nazionale forense, e lo rigetta nel resto.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 13 marzo 2018.

Depositato in Cancelleria il 18 aprile 2018

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