Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9552 del 22/04/2010

Cassazione civile sez. III, 22/04/2010, (ud. 07/04/2010, dep. 22/04/2010), n.9552

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIFONE Francesco – Presidente –

Dott. FINOCCHIARO Mario – rel. Consigliere –

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere –

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 27422/2006 proposto da:

INPDAP (OMISSIS), in persona del Presidente e Legale

Rappresentante Dott. Ing. S.M. elettivamente domiciliato

in ROMA, VIA S CROCE IN GERUSALEMME 55, presso lo studio

dell’avvocato CIPRIANI Giuseppe, che lo rappresenta e difende con

delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

B.R., L.B.A., CENTRO COMMERCIALE CENTRO

DIREZIONALE NAPOLI CONSORTILE SRL, L.I., A.

G.;

– intimati –

sul ricorso 31775/2006 proposto da:

CENTRO COMMERCIALE CENTRO DIREZIONALE NAPOLI CONSORTILE SRL

07102540635 in persona del suo amministratore pro tempore

P.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI TORRE

ARGENTINA 47, presso lo studio dell’avvocato MARIOTTI RICCARDO,

rappresentato e difeso dall’avvocato IERVESE GABRIELE con delega in

calce al ricorso incidentale;

– ricorrente –

contro

INPDAP in persona del Presidente e Legale Rappresentante Dott.

S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA S CROCE IN

GERUSALEMME 55, presso lo studio dell’avvocato CIPRIANI GIUSEPPE, che

lo rappresenta e difende con delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

L.I., L.B.A., A.G.,

B.R.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1737/2006 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

Terza Sezione Civile, emessa il 26/05/2006; depositata il 08/06/2006;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

07/04/2010 dal Consigliere Dott. MARIO FINOCCHIARO;

udito l’Avvocato CIPRIANI GIUSEPPE;

udito l’Avvocato IERVESE GABRIELE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Libertino Alberto, che ha concluso per inammissibilità o

rigetto del ricorso principale assorbito il ricorso incidentale.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza 9 giugno – 2 settembre 2004 il tribunale di Napoli ha rigettato la domanda proposta da L.I. nei confronti della società consortile a r.l. Centro Commerciale Centro Direzionale di Napoli nonchè dell’INPDAP – Istituto Nazionale per i Dipendenti della Amministrazione Pubblica perchè, da un lato, fosse dichiarata la illegittimità del contratto di locazione per uso commerciale intercorso tra essa istante e la società consortile a r.l. Centro Commerciale Centro Direzionale di Napoli relativamente a un terreno in (OMISSIS), di proprietà dell’INPDAP e da questo ultimo concesso in locazione alla società consortile, con condanna di quest’ultima alla restituzione dei canoni percepiti, del deposito cauzionale e della somma di L. 7 milioni indebitamente riscossa, dall’altro, i convenuti fossero condannati al risarcimento dei danni (da liquidare in separata sede) per avere indotto essa concludente a ritenere legittimo il contratto di sublocazione e a intraprendere su tale terreno una attività commerciale destinata a cessare a causa della illegittimità del contratto stesso, da ultimo, ha accolto la domanda riconvenzionale spiegata dal Centro Commerciale e dichiarato risolto il contratto di locazione inter partes con condanna al rilascio dell’immobile e pagamento dei canoni scaduti, pari a Euro 20.925,31 oltre interessi legali dalle singole scadenze al saldo.

Avverso tale pronunzia hanno proposto distinti appelli sia la soccombente L. sia l’INPDAP la quale ha proposto la propria impugnazione anche dei confronti di A.G., B. R. e L.B.A..

In entrambi i diversi giudizi si è costituita la società consortile a r.l. Centro Commerciale Centro Direzionale di Napoli spiegando appello incidentale e la Corte di appello di Napoli, disposta la riunione delle varie impugnazioni, con sentenza 26 maggio – 8 giugno 2006, da un lato, ha rigettato l’appello della L., dall’altro ha dichiarato inammissibile l’appello dell’INPDAP. Per la cassazione di tale ultima pronunzia, notificata il 21 giugno 2006, ha proposto ricorso, con atto 10 ottobre 2006 e date successive l’INPDAP affidato a un unico motivo, nei confronti della società consortile a r.l. Centro Commerciale Centro Direzionale di Napoli nonchè di L.I., A.G., B.R. e L.B.A..

La società, consortile a r.l. Centro Commerciale Centro Direzionale di Napoli resiste, con controricorso e ricorso incidentale condizionato, affidato a tre motivi, notificato il 10 novembre 2006 e date successive e illustrato da memoria.

L’INPDAP resiste, con controricorso al ricorso incidentale condizionato.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I vari ricorsi, avverso la stessa sentenza devono essere riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

2. L’appello proposto dall’INPDAP, ha affermato la sentenza ora oggetto di ricorso, è inammissibile.

Il primo giudice – ha osservato la corte di appello – ha rigettato la domanda del detto ente (di risoluzione per violazione del divieto di sublocazione del contratto di locazione (OMISSIS) tra esso INPDAD e la società consortile a r.l. Centro Commerciale Centro Direzionale di Napoli) svolgendo una duplice serie di articolate e compiute argomentazioni.

In particolare:

– con il primo ordine di rilievi il tribunale ha inteso dimostrare che l’INPDAP pur consapevole della intervenuta violazione del divieto di sublocazione ha serbato una perdurante condotta incompatibile con la volontà di ottenere la risoluzione del contratto e, continuando a darvi esecuzione, ha dimostrato la completa acquiescenza alla predetta violazione, con conseguente rinuncia a far valere l’inadempimento e quindi, al diritto a chiedere la risoluzione stessa;

– con il secondo, autonomo, ordine di argomentazioni il tribunale ha inteso dimostrare che la violazione del ripetuto divieto non integra la gravita dell’ inadempimento necessaria a giustificare la invocata pronunzia di risoluzione del contratto.

Riferite le molteplici, complesse, argomentazioni svolte dal primo giudice al fine di escludere la ricorrenza di una delle precipue condizioni di fondatezza della esperita azione di risoluzione (e, in particolare quella della gravità dell’inadempimento) e trascritta la deduzione formulata dall’appellante INPDAP per censurare le stesse, la Corte di appello ha osservato che il carattere del tutto generico e apodittico del cennato motivo e dunque la sua inammissibilità per violazione dell’art. 342 c.p.c., è assolutamente manifesta in quanto non risultano esaminate e contraddette, in modo specifico, le argomentazioni del primo giudice dinanzi riferite.

3. L’istituto ricorrente censura la sentenza sopra riassunta denunziando “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., e del combinato disposto degli artt. 434 e 447 bis c.p.c.; nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dall’appellante INPDAP con riferimento pertanto all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., parte ricorrente:

– da un lato formula il seguente quesito di diritto: “dica l’ecc.ma Corte di Cassazione se, trattandosi della impugnazione di sentenza fondata su due autonome rationes decidendi, e chiara risultando dall’atto di appello la volontà di impugnarle entrambe le ragioni a sostegno dell’impugnazione possano ricavarsi dal complesso delle argomentazioni svolte con l’atto di appello, senza che sia necessaria – ad integrare la richiesta specificità dei motivi di appello – una parte espositiva formalmente autonoma, unitaria ed autosufficiente per ciascuna delle ragioni della decisione. E se il principio della specificità dei motivi di appello di cui agli artt. 342 e 434 c.p.c., sia soddisfatto quando l’appellante, pur non contestando tutti i passaggi argomentativi della decisione impugnata, abbia esposto tuttavia argomenti che si pongono in rapporto di incompatibilità logico-giuridica con la complessiva motivazione della decisione medesima”;

– dall’altro, così precisa il fatto in relazione al quale si lamenta la omissione insufficiente, erroneità o contraddittorietà della motivazione: “non può infatti sottacersi l’illogicità della pronuncia di secondo grado, nella parte in cui omette di prendere in considerazione, ai fini del secondo motivo di gravame, le argomentazioni già addotte dall’appellante in relazione al primo motivo, pur riconoscendo espressamente che le due motivazioni autonome individuate nella sentenza di primo grado si fondano, in massima parte, sulle medesime circostanze di fatto e valutazioni connesse. Basti aver riguardo a quanto si legge alle pagg. 13 e 14 della sentenza di appello, dove, nel ricostruire il contenuto e la struttura della sentenza di primo grado, si identifica un “primo ordine di rilievi… da pag. 26 a pag. 31 della sentenza” ed un “secondo, autonomo ordine di argomentazioni”, in parte fondato sugli “illustrati (alle pagine da 27 a 31 della sentenza) comportamenti integrativi di acquiescenza tacita”. Di talchè, illogica e priva di motivazione – oltre che erronea – si prospetta la determinazione della Corte di Appello di non prendere in considerazione, ai fini della contestazione di tale secondo ordine di argomentazioni, i rilievi già diffusamente esposti dall’ente appellante in ordine al primo configurandosi così, oltre che all’erronea applicazione di norme di legge citate, anche l’omessa, erronea o insufficiente e insufficiente e contraddittoria motivazione su tale punto, certamente decisivo della controversia”.

4. Pacifico quanto precede è palese la inammissibilità del proposto ricorso.

Sotto molteplici, concorrenti, profili.

4.1. In primis il motivo non risulta formulato nel rispetto del precetto di cui all’art. 366 bis c.p.c..

Come noto, il quesito di diritto previsto dall’art. 366 bis c.p.c. (nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4) deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte di cassazione in condizione di rispondere a esso con la enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata.

In altri termini, la Corte di Cassazione deve poter comprendere dalla lettura dal solo quesito, inteso come sintesi logico giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice del merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare.

La ammissibilità del motivo, in conclusione, è condizionata alla formulazione di un quesito, compiuta e autosufficiente, dalla cui risoluzione scaturisce necessariamente il segno della decisione (Cass., sez. un., 25 novembre 2008, n. 28054; Cass. 7 aprile 2009, n. 8463) .

Non può, inoltre, ritenersi sufficiente – perchè possa dirsi osservato il precetto di cui all’art. 366 bis c.p.c. – la circostanza che il quesito di diritto possa implicitamente desumersi dalla esposizione del motivo di ricorso nè che esso possa consistere o ricavarsi dalla formulazione del principio di diritto che il ricorrente ritiene corretto applicarsi alla specie.

Una siffatta interpretazione della norma positiva, si risolverebbe, infatti, nella abrogazione tacita dell’art. 366 bis c.p.c., secondo cui è, invece, necessario che una parte specifica del ricorso sia destinata ad individuare in modo specifico e senza incertezze interpretative la questione di diritto che la Corte è chiamata a risolvere nell’esplicazione della funzione nomofilattica che la modifica di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, oltre all’effetto deflattivo del carico pendente, ha inteso valorizzare, secondo quanto formulato in maniera esplicita nella Legge Delega 14 maggio 2005, n. 80, art. 1, comma 2, ed altrettanto esplicitamente ripreso nel titolo stesso del decreto delegato sopra richiamato.

In tal modo il legislatore si propone l’obiettivo di garantire meglio l’aderenza dei motivi di ricorso (per violazione di legge o per vizi del procedimento) allo schema legale cui essi debbono corrispondere, giacchè la formulazione del quesito di diritto risponde all’esigenza di verificare la corrispondenza delle ragioni del ricorso ai canoni indefettibili del giudizio di legittimità, inteso come giudizio d’impugnazione a motivi limitati (Cass. 25 novembre 2008 nn. 28145 e 28143).

Contemporaneamente deve ribadirsi, al riguardo, che il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c., deve compendiare:

a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito;

b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice;

e) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie.

Di conseguenza, è inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge o a enunciare il principio di diritto in tesi applicabile (Cass. 17 luglio 2008, n. 19769).

Conclusivamente, poichè a norma dell’art. 366 bis c.p.c., la formulazione dei quesiti in relazione a ciascun motivo del ricorso deve consentire in primo luogo la individuazione della regula iuris adottata dal provvedimento impugnato e, poi, la indicazione del diverso principio di diritto che il ricorrente assume come corretto e che si sarebbe dovuto applicare, in sostituzione del primo, è palese che la mancanza anche di una sola delle due predette indicazioni rende inammissibile il motivo di ricorso.

Infatti, in difetto di tale articolazione logico-giuridica il quesito si risolve in una astratta petizione di principio o in una mera riproposizione di questioni di fatto con esclusiva attinenza alla specifica vicenda processuale o ancora in una mera richiesta di accoglimento del ricorso come tale inidonea a evidenziare il nesso logico giuridico tra singola fattispecie e principio di diritto astratto oppure infine nel mero interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nella esposizione del motivo (Cass. 26 gennaio 2010, n. 1528, specie in motivazione, nonchè Cass., sez. un., 24 dicembre 2009, n. 27368).

Facendo applicazione dei riferiti principi al caso di specie si osserva che il quesito – sopra trascritto – contenuto nel ricorso a illustrazione dell’unico motivo del ricorso stesso è redatto in termini assolutamente astratti e senza alcun riferimento alla fattispecie concreta in esame.

In altri termini non è dato comprendere quale sia la relazione tra fattispecie concreta esaminata dal giudice a quo e il principio di diritto da questo applicato e il diverso principio – totalmente astratto – invocato nel quesito.

4.2. Anche a prescindere dal pur assorbente rilievo che precede, si osserva che giusta quanto assolutamente pacifico – presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice e da cui totalmente e senza alcuna motivazione totalmente prescinde la difesa del ricorrente principale – il vizio di violazione di legge – rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (da cui la funzione di assicurare la uniforme interpretazione della legge assegnata dalla Corte di Cassazione).

Viceversa, la allegazione – come prospettata nella specie da parte del ricorrente – di una erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze di causa, è esterna alla esatta interpretazione della norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.

Lo scrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa della erronea ricognizione della astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, che solo questa ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (tra le tantissime, ad esempio, Cass. 4 marzo 2010, n. 5207, specie in motivazione).

Pacifico quanto precede si osserva che nella specie il ricorrente pur denunziando la ripetuta “violazione e/o falsa applicazione”, da parte della sentenza gravata, dell’art. 342 c.p.c., e del combinato disposto degli artt. 434 e 447 bis c.p.c., anzichè indicare quale sia stata la erronea lettura delle indicate norme – data dalla sentenza criticata – e quale la loro corretta interpretazione, alla luce della giurisprudenza di questa Corte o della dottrina più autorevole, o almeno della stessa difesa di parte ricorrente, si duole – esclusivamente – dell’apprezzamento espresso dai giudici di secondo grado in margine al contenuto del proprio atto di appello, assumendo che ove quest’ultimo e, quindi, non le norme indicate nel ricorso come violate dalla sentenza impugnata fosse stato diversamente “letto”, cioè interpretato dai giudici a quibus, la soluzione della lite sarebbe stata diversa.

E’ evidente – alla luce dei rilievi svolti sopra – come anticipato, la inammissibilità della censura in esame.

Con la stessa, infatti, non si denunzia violazioni o false applicazioni di norme di diritto, rilevanti sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ma si lamenta la erronea valutazione – da parte dei giudici di secondo grado – delle risultanze di causa.

Le ricorrente, infatti, lungi dallo svolgere alcuna critica in margine alla interpretazione data dai giudici a quibus alle norme di legge indicate nei vari motivi, si limita a censurare la interpretazione data, dai giudici del merito, delle risultanze di causa, interpretazione a parere del ricorrente inadeguata.

Per tal via la ricorrente sollecita, contra legem e cercando di superare quelli che sono i limiti del giudizio di cassazione, un nuovo giudizio di merito su quelle stesse risultanze ed è palese la inammissibilità di tali censure.

4.3. Quanto alla censura sviluppata sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, si osserva che questa Corte regolatrice – alla stregua della stessa letterale formulazione dell’art. 366 bis c.p.c., è fermissima nel ritenere che a seguito della novella del 2006 nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, allorchè, cioè, il ricorrente denunzi la sentenza impugnata lamentando un vizio della motivazione, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione.

Ciò importa in particolare che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr., ad esempio, Cass., sez. un., 1 ottobre 2007, n. 20603).

Al riguardo, ancora è incontroverso che non è sufficiente che tale fatto sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte, del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata.

Conclusivamente, non potendosi dubitare che allorchè nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito ad un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dall’art. 366 bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (In termini, ad esempio, Cass. 7 aprile 2008, n. 8897) è di palmare evidenza la inadeguatezza, nel caso di specie, della chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione.

Parte ricorrente – infatti – in termini del tutto apodittici si limita, da un lato, a invocare la “illogicità” della pronunzia impugnata omettendo di indicare le espressioni “illogiche” contenute nella sentenza stessa, dall’altro a affermare che la sentenza avrebbe omesso di prendere in esame ai fini della “supposta” impugnazione della seconda ratio decidendi della sentenza di primo grado le argomentazioni già svolte dalla stessa difesa in margine alla prima ratio, senza – peraltro – da un lato, trascrivere quali fossero tali puntuali argomentazioni, dall’altro, spiegare la ragioni (logiche prima ancora che giuridiche) secondo cui pur in presenza di “due motivazione autonome” contenute nella sentenza primo grado le critiche mosse a una di queste dovessero – potessero interpretarsi anche come rivolte all’altra (certamente autonoma).

5. Accertata la inammissibilità del ricorso principale segue l’assorbimento del ricorso incidentale, espressamente condizionato all’eventuale accoglimento del ricorso avversario, con condanna del ricorrente principale al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità liquidate come in dispositivo.

PQM

LA CORTE riunisce i ricorsi;

dichiara inammissibile il ricorso principale e assorbito quello incidentale;

condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese di questo giudizio di Cassazione, liquidate in Euro 200,00, oltre Euro 3.000,00 per onorari e oltre spese generali e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 7 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2010

 

 

 

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