Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9550 del 12/04/2021

Cassazione civile sez. lav., 12/04/2021, (ud. 07/10/2020, dep. 12/04/2021), n.9550

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 33121/2018 proposto da:

M.R.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

GABRIELE CAMOZZI, 1, presso lo studio dell’avvocato ALBINO

ANGELILLO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio

dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la rappresenta e difende giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 163/2016 della CORTE D’APPELLO di POTENZA,

depositata il 06/09/2018 R.G.N. 53/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/10/2020 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ALBINO ANGELILLO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza 6 settembre 2018, la Corte d’appello di Potenza rigettava il reclamo proposto da M.R.A. avverso la sentenza di primo grado, di reiezione, in esito a procedimento con rito Fornero, della sua impugnazione del licenziamento disciplinare intimatogli da Poste Italiane s.p.a. il 26 novembre 2014 e delle conseguenti condanne reintegratoria e risarcitoria.

A motivo della decisione, la Corte territoriale riteneva che il fatto addebitato dalla società al proprio dipendente, direttore dell’ufficio postale di (OMISSIS) integrasse giusta causa di licenziamento, anche a norma dell’art. 54, comma 6, lett. c), k) CCNL di settore.

Esso consisteva, infatti, nella diretta intestazione a sè, quale diretto beneficiario, della polizza “(OMISSIS)”, avendogli un cliente contadino ultrasettuagenario vedovo, per la fiducia riposta in lui, affidato l’incarico del suo rinnovo alla scadenza. E quegli, una volta ricevuta dal primo la polizza rinnovata, così diversamente intestata, in una busta chiusa, l’aveva aperta soltanto un paio di mesi più tardi, in occasione della richiesta di una consulenza su possibili forme di investimento alternativo ad un amico dipendente di banca, il quale si era avveduto dell’anomala intestazione della polizza: così il fatto essendo stato segnalato ed avviata l’indagine ispettiva della società datrice.

La Corte lucana escludeva poi la natura discriminatoria della sanzione per il solo fatto della prestazione dal lavoratore di attività sindacale, ravvisandone la proporzionalità alla gravità della condotta, conseguente ad una contestazione disciplinare tempestiva.

Con atto notificato il 5 novembre 2018, il lavoratore ricorreva per cassazione con quattro motivi, cui la società resisteva con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, quale l’aver ritenuto circostanza “pacifica” che il ricorrente avesse “ottenuto che il cliente gli intestasse la polizza”, senza accertare, come invece fatto dal Tribunale (che aveva peraltro parimenti ritenuto la legittimità del licenziamento intimato), la prestazione del consenso a ciò da parte del cliente, che avrebbe consentito di escludere ogni intento doloso nel comportamento del ricorrente, con verifica in concreto, e non in via presuntiva astratta, del suo elemento soggettivo.

2. Esso è infondato.

3. In linea di principio, occorre premettere che l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti rileva se abbia carattere decisivo, ossia tale che, qualora esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 29 ottobre 2018, n. 27415).

Ebbene, non è decisiva nel caso di specie, al fine di escludere l’intento doloso nel comportamento del ricorrente, la circostanza della prestazione o meno del consenso del cliente all’intestazione diretta al direttore dell’ufficio postale della polizza in scadenza rinnovata. Perchè il dolo è stato comunque accertato sussistere, nella comune ricostruzione del fatto, da entrambi i giudici: come si evince dalla censura del reclamante sulla propria mancanza di dolo (all’ultimo capoverso di pg. 13 della sentenza), che la Corte ha ritenuto tuttavia “non coglie(re) “nel segno” (ai primi due alinea di pg. 14 della sentenza). E ciò per la ravvisata consapevolezza del lavoratore in ordine alla mancanza di effetti pregiudizievoli per il cliente dal mancato rinnovo della polizza in scadenza e, per converso, di quelli favorevoli in proprio favore in caso di decesso del predetto (così al primo capoverso di pg. 14 della sentenza): “non” essendo “seriamente dubitabile, dunque, che il M. si sia ben rappresentato ed abbia pienamente voluto porre in essere la condotta addebitatagli” (così al penultimo capoverso di pg. 14 della sentenza).

L’elemento del dolo non richiede, infatti, particolari artifici o altri mezzi fraudolenti tali da connotarlo di specificità, essendo sufficiente la coscienza e volontà di compiere una determinata condotta (Cass. 10 giugno 2015, n. 12086; Cass. 4 agosto 2017, n. 19520).

4. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce violazione o falsa applicazione di norme di diritto e di accordi collettivi nazionali di lavoro, in specie dell’art. 54, comma 6, lett. c), k) CCNL Poste, per inesistenza del dolo, alla base delle ipotesi disciplinari fondanti il licenziamento per giusta causa intimato, non avendo il lavoratore preveduto nè voluto l’evento contestato come conseguenza della propria azione, neppure essendo state considerate le precarie condizioni di salute e lo stress psico-fisico, a causa dell’intenso impegno lavorativo (come documentato da produzioni nella fase sommaria di primo grado), incidenti sull’elemento psicologico.

5. Esso è inammissibile.

6. Non si configura il vizio di violazione di legge denunciato, integrato dalla deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, implicante un problema interpretativo; trattandosi invece, nel caso di specie, dell’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerente alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340), ovviamente nei limiti del novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, qui non ricorrente per la ravvisata sussistenza dell’elemento del dolo, per le ragioni esposte nello scrutinio di infondatezza del precedente mezzo.

6.1. E’ bene sottolineare come la Corte territoriale abbia motivatamente ritenuto, per le ragioni dette, che “le accertate mancanze del M. non consentono alcun affidamento sul futuro, esatto adempimento della sua prestazione” (così al primo capoverso, ultima parte, di pg. 16 della sentenza) e quindi licenziamento per giusta causa, anche ai sensi in particolare dell’art. 54, comma 6, lett. k) CCNL Poste del 14 aprile 2011 (“per fatti o atti dolosi, anche nei confronti di terzi, compiuti in connessione con il rapporto di lavoro, di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro”), secondo l’intimazione datoriale con lettera del 26 novembre 2014 (trascritta in calce a pg. 15 del ricorso). Non senza ricordare che la previsione nel contratto collettivo di fattispecie integranti giusta causa di licenziamento rappresenta uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all’art. 2119 c.c., ma non è vincolate per il giudice, il quale può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o un grave comportamento del lavoratore contrario alle regole dell’etica o del comune vivere civile (Cass. 11 febbraio 2020, n. 3283; Cass. 1 luglio 2020, n. 13412).

6.2. Quanto alla deduzione di elementi di fatto asseritamente non considerati, quali le precarie condizioni di salute del lavoratore ed il suo stress psico-fisico, a causa dell’intenso impegno lavorativo, incidenti sull’elemento soggettivo, è sufficiente rilevare che la sentenza non ne tratta. Nè il ricorrente, al fine di non incorrere nell’inammissibilità della deduzione per novità, ha indicato l’atto del giudizio precedente nel quale li abbia allegati (con riferimento particolare al reclamo), per consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione (Cass. 13 dicembre 2019, n. 32804; Cass. 31 agosto 2020, n. 18098).

7. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce violazione o falsa applicazione di norme di diritto e di accordi collettivi nazionali di lavoro, in specie dell’art. 2106 c.c., per inosservanza del principio di proporzionalità, in assenza di un intento doloso del lavoratore e di danno per la società, neppure essendosi verificato l’evento oggetto di polizza, non essendo F.G. ancora deceduto.

8. Anch’esso è inammissibile.

9. Non è infatti sindacabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice di merito in ordine alla legittimità e congruità della sanzione applicata, se, come nel caso di specie (per le ragioni esposte al p.to 16 al primo capoverso di pg. 16, in riferimento alla gravità della condotta come accertata al p.to 15 a pgg. 13 e 14 ed ancora ai tre ultimi alinea del p.to 18 a pg. 17 della sentenza), sorretto da adeguata e logica motivazione (Cass. 8 gennaio 2008, n. 144; Cass. 26 gennaio 2011, n. 1788; Cass. 25 maggio 2012, n. 8293; 26 settembre 2018, n. 23046). Ed è noto che il giudizio di mera proporzionalità in concreto fra illecito disciplinare e relativa sanzione sia giudizio di fatto, riservato al giudice di merito che deve operare tenendo conto di tutti i connotati oggettivi e soggettivi della vicenda (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 29 marzo 2017 n. 8136; Cass. 10 luglio 2018, n. 18172; Cass. 28 gennaio 2020, n. 1891).

10. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce violazione dell’art. 11 preleggi, erronea applicazione del D.M. 20 luglio 2012, n. 140, emanato ai sensi del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9, conv. in L. 24 marzo 2012, n. 27 e vizio motivo, per erronea statuizione delle spese di primo e secondo grado di giudizio, senza specificare i parametri adottati, neppure compensandole, avuto riguardo alla complessità del quadro probatorio della controversia o quantomeno determinarle nel minimo della fascia da Euro 26.000,00 a Euro 52.000,00, in misura del 50% di quanto liquidato.

11. Esso è inammissibile.

12. Premesso il rilievo di statuizione della Corte territoriale sulle sole spese del grado d’appello (e non anche del primo), giova ribadire che in sede di legittimità è insindacabile il provvedimento del giudice di merito relativo alle spese del giudizio (incluso quella di compensazione tra le parti), con il solo limite del rispetto del principio di soccombenza, ossia che esse non siano poste a carico della parte interamente vittoriosa (Cass. 19 giugno 2013, n. 15317; Cass. 31 marzo 2017, n. 8421).

12.1. La censura difetta di specificità, ed è pertanto inammissibile, posto il suo riferimento alla complessiva liquidazione delle spese processuali operata del giudice di merito, senza indicare le singole voci della tariffa, per diritti ed onorari, risultanti nella nota spese, in ordine alle quali quel giudice sarebbe incorso in errore (Cass. 2 ottobre 2014, n. 20808); peraltro, a fronte di una succinta ma adeguata illustrazione della tariffa e del valore parametrico applicati (al p.to 19 di pg. 17 della sentenza).

13. Dalle superiori argomentazioni discende il rigetto del ricorso, con regolazione delle spese secondo il regime di soccombenza e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

PQM

La Corte

rigetta il ricorso e condanna il lavoratore alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 7 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2021

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