Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9538 del 12/04/2021

Cassazione civile sez. II, 12/04/2021, (ud. 01/12/2020, dep. 12/04/2021), n.9538

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – rel. Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23673/2019 proposto da:

O.O., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COLLINA

48, rappresentato e difeso dall’avvocato ERMANNO PACANOWSKI, giusta

procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto di rigetto n. cronol. 17975/2018 del TRIBUNALE di

ROMA, depositato il 21/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

01/12/2020 dal Presidente Dott. FELICE MANNA.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

O.O., cittadino (OMISSIS) e ivi vissuto fino al (OMISSIS), proponeva ricorso innanzi al Tribunale di Roma, sezione specializzata in materia di immigrazione, contro la decisione della locale Commissione territoriale, che aveva respinto la sua richiesta di protezione internazionale o umanitaria. A sostegno della domanda deduceva di aver avuto problemi con la sua comunità e che il padre, in trattativa con terzi per la vendita di propri terreni, sarebbe stato ucciso, verosimilmente, da sicari di un uomo politico che sui medesimi fondi accampava dei diritti. Per timore di ciò, sosteneva, era fuggito e, rifugiatosi dapprima a (OMISSIS) presso un amico, su consiglio di quest’ultimo aveva poi abbandonato la Nigeria.

Il Tribunale rigettava la domanda con decreto n. 17975/18, pubblicato il 21.11.2018.

Riteneva il Tribunale che i fatti riferiti, anche a prescindere dalla loro credibilità, non evocavano profili di persecuzione personale e diretta relativi ad alcuna ipotesi per cui fosse concedibile lo status di rifugiato. Escludeva, inoltre, che gli incidenti e i frequenti casi di violenza collegati alla produzione di petrolio negli stati del Delta del Niger (tra cui l’Edo State, regione di provenienza del richiedente) fossero sovrapponibili al concetto di violenza generalizzata in situazione di conflitto armato interno o internazionale, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c). Quanto alla domanda di protezione umanitaria, il Tribunale osservava che il richiedente non aveva dedotto alcuna specifica ragione di vulnerabilità tale da esporlo a rischi in caso di rimpatrio.

Avverso tale decreto il richiedente propone ricorso per cassazione.

Il Ministero dell’Interno resiste con controricorso.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ex art. 380-bis.1. c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. – Preliminarmente va affrontata la questione, posta nel paragrafo 5) del ricorso, della legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 13, in relazione agli artt. 3,24,111 e 113 Cost., nella parte in cui non prevede in materia un secondo grado di merito.

1.1. – Tale questione è manifestamente infondata.

Questa Corte ha già reiteratamente escluso il dedotto vulnus costituzionale ad opera del D.Lgs n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 13, per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1, artt. 24 e 111 Cost., nella parte in cui stabilisce che il procedimento per l’ottenimento della protezione internazionale è definito con decreto non reclamabile in quanto è necessario soddisfare esigenze di celerità, sia perchè non esiste copertura costituzionale del principio del doppio grado ed il procedimento giurisdizionale è preceduto da una fase amministrativa che si svolge davanti alle commissioni territoriali deputate ad acquisire, attraverso il colloquio con l’istante, l’elemento istruttorio centrale ai fini della valutazione della domanda di protezione (cfr. n. 27700/18); sia in quanto la Corte Europea dei diritti umani con riferimento ai procedimenti civili ha sempre negato che il diritto all’equo processo e ad un ricorso effettivo possano essere considerati parametri per invocare un secondo grado di giurisdizione, mentre la legislazione Eurounitaria ed, in particolare, la dir. UE n. 2013/32, secondo l’interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenze C – 175/17 e 180/17), non prevede un obbligo per gli stati membri di istituire l’appello, poichè l’esigenza di assicurare l’effettività del ricorso riguarda espressamente i procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado (v. n. 22950/20).

2. – Col primo motivo di ricorso si deduce la generica violazione, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, di norme della Direttiva 2004/83/CE, recepita dal D.Lgs. n. 251 del 2007, per aver il Tribunale omesso di esercitare un ruolo attivo nell’istruttoria della domanda, acquisendo d’ufficio gli elementi necessari alla decisione.

3. – Il secondo motivo lamenta l’omesso esame delle dichiarazioni rese dal ricorrente alla Commissione territoriale e delle allegazioni relative alle condizioni del Paese d’origine. Parte ricorrente sostiene che la Commissione, prima, e il Tribunale, poi, avevano ritenuto che le dichiarazioni del richiedente non risultassero oggettivamente riscontrabili ai fini dell’invocata protezione internazionale, e che la mancanza delle libertà democratiche non fosse sufficiente di per sè a costituire presupposto per riconoscere lo status di rifugiato. E replica affermando che le persecuzioni, attuali o temute, rilevanti a tal fine non sono soltanto quelle perpetrate dallo Stato o da suoi rappresentanti, ma anche quelle provenienti da soggetti che, pur non essendo organi statali, “sono comunque investiti dal diritto interno di quello stesso Stato”. Lo status di rifugiato, pertanto, sarebbe da riconoscere anche nel caso in cui il timore di persecuzioni derivi da agenti terzi (comunità o famiglia), quando lo Stato non possa o non voglia accordare la protezione dovuta.

4. – Entrambi i motivi, da esaminare congiuntamente per la loro complementarietà, sono infondati.

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c), secondo cui responsabili della persecuzione (che legittima il riconoscimento dello status di rifugiato) o del danno grave (che consente la protezione sussidiaria) possono essere anche soggetti non statuali” (se i responsabili di cui alle lettere a e b dello stesso articolo, comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione, ai sensi dell’art. 6, comma 2, contro persecuzioni o danni gravi) va letto e interpretato in una con l’art. 14, lett. b) stesso D.Lgs., che qualifica danno grave la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine.

La stessa nozione di “trattamento inumano o degradante” rimanda all’applicazione di metodi o di procedimenti predeterminati (legali, paralegali o etno-culturali); e dunque ad un fattore efficiente di regola incompatibile con l’azione personale di singoli, mossi da motivazioni estranee a qualsivoglia dimensione superindividuale e privi della forza oppressiva propria delle aggregazioni di soggetti.

“Chi voglia ricomprendere le cosiddette “vicende private” tra le cause di persecuzione o danno grave, ai lini del riconoscimento della protezione internazionale” – si legge nell’ordinanza n. 9043/19 di questa Corte Suprema – “è costretto a valorizzare oltre misura il riferimento ai “soggetti non statuali” indicati del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c), come corresponsabili della persecuzione o del danno grave, insieme allo Stato, ai partiti e alle organizzazioni collettive. Questa lesi non è condivisibile per le seguenti considerazioni: – nella suddetta lett. c) dell’art. 5 i “soggetti non statuali” sono considerati responsabili della persecuzione o del danno grave solo “se (“può essere dimostrato che…”.. cfr. art. 6 della direttiva n. 2004/83/CE) i responsabili di cui alle lettere a) e b) (vale a dire lo Stato e le organizzazioni di cui si è detto) non possono o non vogliono fornire protezione”, a fronte, evidentemente, di atti persecutori e danno grave non imputabili direttamente ai medesimi “soggetti non statuali”, ma pur sempre allo Stato o alle menzionate organizzazioni collettive; – del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 6, come si è detto, non comprende i “soggetti non suturali” tra quelli che possono offrire protezione, ma solo lo Stato, i partiti e le organizzazioni, in linea con il Considerando 19 della direttiva n. 2004/83/CE; – analogamente, è significativo che gli atti persecutori – analogamente, è significativo che gli atti persecutori rilevanti sono quelli consistenti prevalentemente in azioni o provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie, rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridica, ecc. (art. 7, comma 2), quindi in comportamenti riconducibili o riferibili, di regola, allo Stato o a soggetti e organizzazioni collettive; – una interpretazione che, facendo leva sul generico riferimento del legislatore ai “soggetti non statuali”, faccia assurgere le controversie tra privati (o la mancata o inadeguata tutela giurisdizionale offerta dal paese per la risoluzione delle stesse) a cause idonee e sufficienti a integrare la fattispecie persecutoria o del danno grave, verrebbe a porsi in rotta di collisione con il principio secondo cui “i rischi a cui è esposta in generale la popolazione o una parte della popolazione di un paese di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave” (Considerando 26 della direttiva n. 2004/83/CE), oltre ad essere poco sostenibile sul piano sistematico; – infatti, la protezione internazionale nelle forme del rifugio e in quella sussidiaria, come rilevato da questa Corte (Cass. n. 16362 del 2016), costituisce diretta attuazione del diritto costituzionale di asilo, che è riconosciuto allo straniero al quale sia pur sempre “impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche” (art. 10 Cost.), concetto questo cui sono estranee, in linea di principio, le vicende prive di rilevanza generale e in tal senso private, fermo restando che ai cittadini di paesi terzi e apolidi può essere “concesso di rimanere nel territorio di uno Stato membro non perchè bisognosi di protezione internazionale, ma per motivi caritatevoli o umanitari riconosciuti su base discrezionale” dagli Stati membri (Considerando 9 della direttiva n. 2004/83/CE,. analogamente, a norma dell’art. 6, comma 4, della direttiva 2008/115/CE, gli Stati membri possono riconoscere ai cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nel territorio sia irregolare un’autorizzazione o un permesso di soggiorno per “motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura”)”.

Ed ancora – ha osservato questa Corte con ordinanza n. 23281/20 – “(p)otrebbe obiettarsi che non esiste una definizione di trattamento disumano o degradante che sia accettata a livello universale, pur essendo tale concetto richiamato da più finti di diritto internazionale; che, nella giurisprudenza della Corte EDU, l’art. 3 della relativa Convenzione, cui corrisponde l’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza), tende ad essere interpretato nel senso che anche atteggiamenti statali di mera tolleranza o connivenza rispetto a condotte di privati possono dar luogo a responsabilità dello stato; che nella sentenza Selmouni contro la Francia del 28 luglio 1999, si afferma che la nozione di trattamento disumano o degradante è di natura fluida e deve essere valutata in armonia con il progresso sociale; e che, come si afferma nella sentenza Rumor c/ Italia, 27 maggio 2014, “l’art. 1 della Convenzione, in combinato disposto con l’art. 3, pone in capo agli Stati l’obbligo positivo di assicurare che le persone sottoposte alla loro giurisdizione siano protette da qualsiasi forma di maltrattamento proibito ai sensi dell’art. 3, anche quando tale trattamento è posto in essere da privati (si vedano A. c. Regno Unito, 23 settembre 1998, p. 22, Reports of Judgments and Decisions 1998 VI; Opuz, sopra citato, 159; ed Eremia, sopra citato, p. 48). Tale obbligo dovrebbe comprendere l’effettiva protezione, inter alios, di un soggetto, o di soggetti identificati, dagli atti criminali di terzi, nonchè misure ragionevoli per prevenire i maltrattamenti di cui le autorità erano, o avrebbero dovuto essere, a conoscenza (si vedano, mutatis mutandis, Osman c. Regno Unito, 28 ottobre 1998, p. 116, Reports 1998 VIII; E. e altri c. Regno Unito, n. 33218/96, p. 88, 26 novembre 2002; e J.L. c. Lettonia, n. 23893/06, p. 64, 17 aprile 2012)” (v. par. 58). Ma è altrettanto vero” prosegue la ridetta ordinanza “che ciò è stato affermato con riferimento alla posizione di persone minori d’età o di altri soggetti vulnerabili, come dimostra la stessa sentenza Rumor c/ Italia (relativa ad un caso di maltrattamento di una donna ad opera dell’ex compagno). Persone, tutte, aventi diritto alla protezione dello Stato da gravi violazioni dell’integrità personale, mediante un effettivo deterrente (v. lo stesso par. 58 della sentenza Rumor Italia)”.

Ad evidenza non è questo il caso di specie, atteso che parte ricorrente non allega di aver dedotto una specifica vulnerabilità del richiedente, emigrato in giovane età e per l’asserita degenerazione di vicende connesse a questioni patrimoniali private; e che l’esistenza di pressioni provenienti (non dallo Stato, ma) da gruppi più o meno organizzati o comunque stabili e dotati, come tali, di forza intimidatrice, non è predicabile sulla base della sola, generica e criptica allegazione – non meglio precisata e contestualizzata con la restante narrazione – per cui il richiedente avrebbe abbandonato la Nigeria “per problemi avuti con la comunità” (v. pag. 3 del ricorso).

Va da sè che la non configurabilità di fatti di persecuzione o di danno grave riconducibili al paradigma normativo del D.Lgs n. 251 del 2007, artt. 7,8 e 14, esclude l’obbligo di cooperazione istruttoria ad opera del giudice di merito, tale obbligo essendo succedaneo alla prova dei fatti (in un contesto di onere probatorio attenuato), ma non sostitutivo della loro allegazione (cfr. n. 17185/20, secondo cui in tema di protezione internazionale, il richiedente ha l’onere di allegare in modo circostanziato i fatti costitutivi del suo diritto circa l’individualizzazione del rischio rispetto alla situazione del paese di provenienza, atteso che l’attenuazione del principio dispositivo, in cui la cooperazione istruttoria consiste, si colloca non sul versante dell’allegazione ma esclusivamente su quello della prova. Ne consegue che solo quando il richiedente abbia adempiuto all’onere di allegazione sorge il potere-dovere del giudice di cooperazione istruttoria, che tuttavia è circoscritto alla verifica della situazione oggettiva del paese di origine e non alle individuali condizioni del soggetto richiedente).

5. – Il terzo mezzo espone la violazione, in rapporto dell’art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, per la mancata concessione della protezione sussidiaria in ragione delle condizioni socio-economiche del Paese di provenienza, per l’esistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile, derivante dalla violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato interno o internazionale.

6. – Il motivo è infondato.

Ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (nn. 18306/19, 9090/19 e 13858/18).

Nella specie, il Tribunale ha escluso, in maniera coerente alla suddetta premessa normativa, la ricorrenza di una tale situazione sulla base delle COI (acronimo di Country of Origin Information) tratte dalla fonte qualificata EASO (European Asylum Support Office) del giugno 2017, concludendo che l’attuale situazione della Nigeria non è sovrapponibile al concetto di violenza generalizzata in situazione di conflitto armato interno o internazionale, pur nell’ampia accezione che ne fornisce la giurisprudenza.

7. – Il quarto motivo denuncia la “errata applicazione” del T.U. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione alla mancata concessione della protezione umanitaria, in quanto il Tribunale non avrebbe preso in considerazione la “ormai consolidata prassi di rilasciare un permesso di soggiorno per motivi umanitari a tutti i soggetti stranieri integrati sul territorio dello Stato e in possesso di un contratto di lavoro e/o di documentazione scolastica”, prassi a riprova della quale parte ricorrente cita precedenti di merito (v. pag. 16 del ricorso). E lamenta, altresì, il mancato apprezzamento del grado di integrazione sociale raggiunto dal richiedente, in contrapposizione alle precarie condizioni socio-politiche della Nigeria.

8. – Il motivo è inammissibile.

In disparte la totale ininfluenza – ai fini del controllo di legittimità cui è chiamata questa Corte – di precedenti di merito di segno opposto rispetto al provvedimento impugnato, deve rilevarsi che parte ricorrente enuncia un avvenuto radicamento sociale senza tuttavia specificarne i fattori produttivi e gli estremi della relativa allegazione in giudizio, sicchè la doglianza in esame non eccede l’ambito di una generica, e come tale inammissibile, postulazione di veridicità del proprio assunto.

9. – In conclusione, il ricorso va giudicato inammissibile a stregua dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1, come (re)interpretato da S.U. n. 7155/17.

10. – Seguono le spese, liquidate come in dispositivo.

11. – Ricorrono i presupposti processuali per il raddoppio, a carico del ricorrente, del contributo unificato, se dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 2.100,00, oltre spese prenotate e prenotande a debito.

Sussistono a carico del ricorrente i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 1 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2021

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