Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9535 del 04/04/2019

Cassazione civile sez. I, 04/04/2019, (ud. 12/02/2019, dep. 04/04/2019), n.9535

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 25282/2016 proposto da:

V.A., elettivamente domiciliato in Roma, Via Federico Cesi

n. 30, presso lo studio dell’Avvocato Maurizio Pagani, rappresentato

e difeso dall’Avvocato Manlio Giaquinto giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

F.F., elettivamente domiciliata in Roma, Via Albenga n.

45, presso lo studio dell’Avvocato Rita Brandi, rappresentata e

difesa dagli Avvocati Laura Rita Granata e Antonio Sciacca giusta

procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 72/2016 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

pubblicata il 19/7/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/2/2019 dal cons. PAZZI ALBERTO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SORRENTINO Federico, che ha concluso per l’accoglimento;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato Pagani M., con delega, che ha

chiesto l’accoglimento;

udito, per la contro ricorrente, l’Avvocato Sciacca A. che si

riporta.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale della Spezia, dopo aver pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto fra F.F. e V.A., disponeva che quest’ultimo corrispondesse all’ex coniuge un assegno divorzile pari a Euro 2.000 mensili.

2. La Corte d’appello di Genova, adita su iniziativa del V. al fine di escludere l’obbligo di versamento di qualsiasi assegno di divorzio, rilevava che l’età della F. rendeva insussistente la sua capacità lavorativa, reputava scarsamente convincente la documentazione relativa ai redditi percepiti dal V. e, tralasciate le somme percepite in sede esecutiva dall’appellata a titolo di arretrati dell’assegno di mantenimento e spese legali, confermava l’obbligo dell’appellante di versare l’assegno divorzile nella misura già fissata; ciò fino a quando la ex moglie non sarebbe stata in possesso della somma di Euro 800.000, a lei riconosciuta con sentenza oramai definitiva a titolo di utile come associata in partecipazione nella farmacia del V..

3. Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso V.A. prospettando tre motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso F.F..

La sesta sezione di questa Corte, inizialmente investita della decisione della controversia, ha rimesso la causa a questa sezione per la trattazione in pubblica udienza.

Parte controricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4.1 Il primo motivo denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 10 L. n. 74 del 1987, modificativo del disposto della L. n. 898 del 1970, art. 5: la corte distrettuale, pur essendo tenuta a valutare l’intera consistenza del patrimonio dei due coniugi ricomprendendovi qualsiasi utilità suscettibile di valutazione economica, non avrebbe considerato, al fine di determinare l’entità dell’assegno di divorzio facendo applicazione dei criteri previsti dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, il totale ed esclusivo godimento della casa coniugale, il completo disinteresse della F. al mondo del lavoro dopo la separazione, il grado di formazione professionale e il bagaglio di esperienza dalla stessa maturato negli anni di lavoro presso la farmacia di famiglia e l’esigua durata della sua attività lavorativa in rapporto alla vita lavorativa media di una donna.

4.2 Il motivo non è fondato, non essendo ravvisabile il vizio di violazione di legge ipotizzato dal ricorrente.

La corte territoriale infatti ha diffusamente motivato in ordine allo sproporzionato differenziale economico – patrimoniale esistente fra i coniugi, considerando in particolare – rispetto al momento della pronuncia, quale epoca a cui il giudice deve far riferimento ai fini dell’individuazione delle condizioni per riconoscere il diritto alla percezione dell’assegno divorzile – il venir meno della capacità lavorativa dell’appellata a motivo dell’età oramai raggiunta.

Nessuna censura può poi essere mossa rispetto alla mancata valorizzazione del godimento della casa familiare, non solo perchè la conferma delle considerazioni compiute dal primo giudice – che già aveva tenuto conto del fatto che la donna abitasse nella casa familiare senza nulla corrispondere all’ex coniuge – implica l’implicita condivisione delle valutazioni dallo stesso compiute a questo specifico riguardo, ma soprattutto perchè la stessa giurisprudenza evocata dall’odierno ricorrente (Cass. 223/2016) chiarisce che l’uso di una casa di abitazione determinante un risparmio di spesa deve sì essere considerato ai fini di individuare la consistenza patrimoniale di ciascuno dei coniugi, salvo però che l’immobile sia occupato in via di mero fatto, trattandosi in questo caso di una situazione precaria ed essendo le difficoltà di liberazione un aspetto estraneo alla ponderazione delle rispettive posizioni patrimoniali e reddituali.

4.2 Il secondo mezzo lamenta la violazione o falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5: la corte territoriale, benchè nell’accertamento del diritto all’emolumento dovesse mettere a confronto le rispettive potenzialità economiche, intese non solo come disponibilità attuali di beni e introiti ma anche come attitudini a procurarsene in grado ulteriore, non aveva tenuto in alcun conto il credito della F. quale associata in partecipazione – trascurando in particolare di considerare che la stessa aveva omesso di versare il conguaglio dovuto a seguito dell’assegnazione in sua proprietà esclusiva della ex casa coniugale, che era stato trattenuto in acconto di quanto dovutole, e aveva già incamerato in sede esecutiva la somma di Euro 113.191,39 -, così come non aveva considerato che l’immobile abitativo di pregio ubicato in (OMISSIS) già appartenente al V. era stato venduto all’asta su impulso della ex moglie.

4.3 Il motivo è inammissibile.

Il ricorrente sostiene che il credito della F. quale associata in partecipazione della farmacia del marito sarebbe stato già parzialmente incassato tramite compensazione con il conguaglio dovuto o in via esecutiva, aggiungendo poi che l’immobile attribuito al V. dai giudici di merito in realtà non era più di sua proprietà.

La sentenza impugnata tuttavia non fa il minimo cenno a simili questioni, che dalla lettura decisione non risulta fossero state poste dal reclamante al vaglio del giudice di appello; nè dalla narrativa del ricorso per cassazione, come pure dallo svolgimento dei motivi, risulta che l’appellante, nel corso del giudizio di merito, avesse allegato simili circostanze.

Al riguardo non può quindi che trovare applicazione il principio secondo cui, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni comportanti accertamenti in fatto di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 6089/2018, Cass. 23675/2013).

5.1 Con il terzo motivo la sentenza impugnata è censurata per violazione e falsa applicazione della L. n. 74 del 1987, art. 10, modificativo del disposto della L. n. 898 del 1970, art. 5, ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio: la Corte d’appello – erroneamente qualificando il V., titolare di una farmacia, come professionista piuttosto che come commerciante – si sarebbe limitata a negare l’attendibilità della dichiarazione dei redditi dell’appellante, senza disporre alcuna indagine al riguardo e basando le proprie valutazioni unicamente sull’assetto economico relativo alla separazione.

5.2 Il motivo è in parte infondato, in parte inammissibile.

La L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9, non impone al Tribunale in via diretta e automatica di disporre indagini avvalendosi della polizia tributaria ogni volta in cui sia contestato un reddito indicato e documentato, ma rimette allo stesso la valutazione di detta esigenza, in forza del principio generale dettato dall’art. 187 c.p.c., che affida al giudice la facoltà di ammettere i mezzi di prova proposti dalle parti e ordinare gli altri che può disporre d’ufficio, previa valutazione della loro rilevanza e concludenza (Cass. 7435/2002).

Va poi escluso che esista un rapporto di correlazione necessaria, come pretende il ricorrente, fra l’esito dell’apprezzamento della congerie istruttoria disponibile e l’esercizio del potere discrezionale di svolgere, d’ufficio o su istanza di parte, indagini patrimoniali tramite la polizia tributaria, nel senso che in tanto il giudicante possa qualificare come inattendibili le dichiarazioni reddituali a lui prodotte in quanto egli abbia disposto indagini patrimoniali al riguardo.

Una simile interpretazione pretende di far discendere la valutazione delle dichiarazioni dei redditi e delle prove documentali relative ai redditi delle parti non dallo scrutinio che ne faccia il giudice, ma dal risultato delle indagini esperite.

Al contrario anche in queste controversie la valutazione delle prove è rimessa, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., al prudente apprezzamento del giudicante e non può ritenersi in alcun modo condizionata dalla scelta, parimenti discrezionale, di disporre, d’ufficio o su istanza di parte, indagini patrimoniali tramite polizia tributaria al fine di procedere al doveroso accertamento dei fatti rilevanti per la decisione.

Infine la doglianza tesa a criticare l’erroneo riferimento alle statuizioni patrimoniali operanti in vigenza della separazione dei coniugi è priva di qualsiasi correlazione con la sentenza impugnata, la quale, al contrario, ha fatto riferimento ai ricavi delle vendite – tenendo così ben presente il fatto storico denunciato come trascurato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – rappresentate nella dichiarazione dei redditi per l’anno 2008 e ai redditi dichiarati per l’anno 2010 piuttosto che agli obblighi di mantenimento operanti nel regime di separazione.

6. In forza dei motivi sopra illustrati il ricorso deve essere pertanto respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 6.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri titoli identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 12 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2019

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