Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 952 del 20/01/2021

Cassazione civile sez. lav., 20/01/2021, (ud. 04/11/2020, dep. 20/01/2021), n.952

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12050-2015 proposto da:

D.T.D., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato ARDO ARZENI;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del suo Presidente e legale tempore, in proprio e quale mandatario

della S.C.C.I. S.P.A. – Società di Cartolarizzazione dei Crediti

I.N.P.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE BECCARIA N.

29 presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentati e

difesi dagli avvocati ANTONINO SGROI, LELIO MARITATO, CARLA

D’ALOISIO, ESTER ADA VITA SCIPLINO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 356/2014 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 16/10/2014 R.G.N. 342/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

04/11/2020 dal Consigliere Dott. DANIELA CALAFIORE;

il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Dott. CIMMINO ALESSANDRO

ha depositato conclusioni scritte.

 

Fatto

RILEVATO

che:

con sentenza n. 356 del 13 ottobre 2014, la Corte d’Appello di Genova ha confermato la decisione resa dal Tribunale della stessa sede di rigetto dell’opposizione proposta da D.T.D. nei confronti dell’INPS, anche quale mandatario di S.C.C.I. s.p.a., avverso l’avviso di addebito relativo ai contributi previdenziali a percentuale dovuti alla gestione commercianti omessi in relazione al maggior reddito accertato dall’Agenzia delle Entrate per l’anno (OMISSIS);

la Corte territoriale ha ritenuto dovuta la contribuzione sul maggior reddito da ritenersi definitivamente accertato, risultando irrilevante ai fini dell’entità della base imponibile, cui va commisurato il credito contributivo dell’Istituto, l’accesso consentito al contribuente, ai fini della definizione della lite fiscale, a strumenti deflativi del contenzioso quali, nel caso di specie, la definizione prevista dal D.L. n. 98 del 2011, art. 39, comma 12; inoltre, D.T.D. non aveva, se non tardivamente in sede di gravame, contestato nel merito il contenuto della base imponibile accertata in sede tributaria;

per la cassazione di tale decisione ricorre D.T.D., affidando l’impugnazione a tre motivi, cui resiste con controricorso l’INPS;

il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

con il primo motivo di ricorso, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 98 del 2011, art. 39, comma 12 convertito con mod. in L. n. 111 del 2011 e degli artt. 2727 e 2729 c.c. ed imputa alla Corte territoriale di aver ritenuto rilevante, ai fini della prova del credito vantato dall’INPS per omessa contribuzione, il maggior reddito accertato a carico del ricorrente in sede fiscale e divenuto definitivo nella sua entità per essere stato il contenzioso definito con l’adesione al condono del ricorrente, quando la pronunzia di cessazione della materia del contendere, che definisce il giudizio di impugnazione dell’accertamento tributario a seguito dell’adesione al condono dell’interessato, determina il venir meno dell’efficacia dell’atto amministrativo (avviso di accertamento) oggetto del contendere, dovendosi pertanto escludere l’idoneità del maggior reddito ivi asseverato a rilevare come base imponibile per il ricalcolo dei contributi previdenziali dovuti dall’interessato stesso; inoltre, la sentenza aveva del tutto svalutato l’esito della sentenza della Commissione tributaria provinciale di Genova, resa prima dell’adesione alla definizione agevolata intervenuta durante il giudizio di secondo grado, che era stata favorevole al contribuente ed era certamente idonea quanto meno ad incidere come elemento presuntivo a suo favore anche nel giudizio relativo alla contribuzione previdenziale;

con il secondo motivo, si deduce la violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. in quanto la sentenza impugnata, negando valore alla sentenza tributaria nei confronti dell’INPS, avrebbe errato nel ritenere tardive le offerte di prova tendenti ad incrinare l’esito dell’accertamento tributario in quanto avrebbe dovuto procedere alla valutazione complessiva di tutti gli indizi presenti comprendendovi anche la sentenza della Commissione tributaria di primo grado;

con il terzo motivo, si deduce la violazione dell’art. 92 c.p.c. in quanto la complessità della materia avrebbe dovuto consigliare la compensazione delle spese;

con i primi due motivi, che in quanto connessi, vanno trattati congiuntamente si introduce il tema degli effetti della definizione concordata della lite tributaria sull’obbligazione contributiva previdenziale e dell’esito dell’accertamento da cui è derivata la maggiore pretesa contributiva;

questa Corte di legittimità ha già avuto modo di affrontare la questione con la sentenza n. 21541 del 2019; 23301 del 2019, cui va data continuità;

la definizione ha ad oggetto esclusivamente, come recita il D.L. n. 98 del 2011, art. 39, comma 12, conv., con modificazioni, in L. n. 111 del 2011, “le liti fiscali di valore non superiore a 20.000 Euro in cui è parte l’Agenzia delle entrate, pendenti alla data del 31 dicembre 2011 dinanzi alle commissioni tributarie o al giudice ordinario in ogni grado del giudizio e anche a seguito di rinvio” e si perfeziona “a domanda del soggetto che ha proposto l’atto introduttivo del giudizio, con il pagamento delle somme determinate ai sensi della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 16”;

gli importi sono diversificati in base al valore e alla fase della lite ed è lo stesso legislatore a chiarire, con la L. n. 289 del 2002, art. 16, cosa debba intendersi per valore della lite, vale a dire “l’importo dell’imposta che ha formato oggetto di contestazione in primo grado, al netto degli interessi, delle indennità di mora e delle eventuali sanzioni collegate al tributo, anche se irrogate con separato provvedimento; in caso di liti relative alla irrogazione di sanzioni non collegate al tributo, delle stesse si tiene conto ai fini del valore della lite; il valore della lite è determinato con riferimento a ciascun atto introduttivo del giudizio, indipendentemente dal numero di soggetti interessati e dai tributi in esso indicati”;

il tenore letterale delle due norme in cui si inscrive l’istituto della definizione concordata delle lite fiscali (D.L. n. 98 del 2011, art. 39, comma 12 e L. n. 289 del 2002, art. 16) e la finalità espressamente indicata dal legislatore nella rubrica dell’art. 39, recante “disposizioni in materia di riordino della giustizia tributaria” inducono a ravvisare nella definizione agevolata delle liti tributarie l’esclusiva natura deflativa del contenzioso tributario – di valore inferiore a 20.000 Euro e già pendente alla data del 31 dicembre 2011 – allo scopo di liberare e concentrare le risorse dell’Agenzia delle Entrate sulla proficua e spedita gestione dei procedimenti di natura precontenziosa di cui all’art. 39, comma 9, attraverso il pagamento di un importo percentualmente ridotto del tributo oggetto della lite;

prova ne è che alla deflazione del contenzioso previdenziale il D.L. n. 98 ha dedicato l’art. 38 nel quale fin dalla rubrica, recante “disposizioni in materia di contenzioso previdenziale e assistenziale”, è chiarito l’ambito applicativo, ribadito, nel periodo di apertura del comma 1, con il fine di “deflazionare il contenzioso previdenziale” (art. 38, comma 1, primo periodo D.L. n. 98 cit.).

la ripartita collocazione delle disposizioni tra gli articoli orienta l’interprete nel tenere su piani distinti le misure deflative, del contenzioso fiscale e previdenziale;

inoltre, nel testo dell’art. 39 non si rinviene alcun elemento che permetta di saldare le due disposizioni al punto da ritenere che la definizione concordata del giudizio tributario estenda gli effetti sulla rideterminazione totale o parziale del presupposto impositivo accertato dall’Agenzia ai fini extrafiscali, quali i contributi previdenziali calcolati a percentuale sul reddito;

neanche appare percorribile una diversa soluzione interpretativa, in via analogica, in quanto il chiaro dettato normativo è effetto di una precisa scelta del legislatore che, là dove ha inteso estendere ai contributi previdenziali gli effetti della definizione degli accertamenti compiuti dall’Agenzia delle Entrate, lo ha previsto espressamente, come per la mediazione introdotta dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17-bis, aggiunto dal D.L. n. 98 del 2011, art. 39, comma 9, successivamente modificato dalla L. n. 147 del 2013, art. 1, comma 611, lett. a), (da ultimo sostituito dal D.Lgs. n. 156 del 2015, art. 9, comma 1, lett. l), a decorrere dal 1 gennaio 2016) o l’accertamento definito con adesione (D.Lgs. n. 218 del 1997, art. 2, comma 3);

diversamente da tali istituti, comportanti una rideterminazione del reddito imponibile, l’unico effetto della definizione agevolata ex D.L. n. 98 cit., art. 39, comma 12, è costituito dalla chiusura della lite fra il contribuente e l’Agenzia delle Entrate a fronte del pagamento di un importo pari ad una percentuale ridotta dell’imposta in contestazione e la definizione concordata non incide in alcun modo sul contenuto dell’atto di accertamento dell’Agenzia e non importa definitività, propriamente detta, dell’accertamento compiuto dall’Agenzia ai sensi del D.Lgs. n. 462 del 1997, art. 1, la cui efficacia, ai fini extrafiscali del calcolo dei contributi INPS a percentuale sul maggiore reddito, rimane impregiudicata;

ciò nondimeno l’accertamento conserva valore probatorio che può essere resistito da prove di segno contrario senza che ciò incida sul riparto dell’onere probatorio;

questa Corte di cassazione (v., fra le altre, Cass. n. 13463 del 2017 e n. 19640 del 2018) ha già avuto modo di affermare che tale accertamento costituisce, anche in riferimento all’obbligazione contributiva, un atto amministrativo di ricognizione del suo avveramento, posto che l’accertamento interviene dopo che il contribuente ha adempiuto alla propria obbligazione nella misura che egli ritiene dovuta e gli uffici competenti intervengono con un procedimento amministrativo di secondo grado per verificare la correttezza dell’importo pagato;

come già chiarito da questa Corte (v. Cass. n. 17769 del 2015), ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis, è compito dell’Agenzia delle Entrate in sede di liquidazione delle imposte, contributi e premi dovuti in base alle dichiarazioni dei redditi, di provvedere al controllo formale e sostanziale dei dati in esse contenuti ed il D.Lgs. n. 462 del 1997, art. 1, emanato in attuazione della Legge Delega n. 662 del 1996, al fine di attuare l’unificazione dei criteri di determinazione delle basi imponibili fiscali e di queste con quelle contributive e delle relative procedure di liquidazione, riscossione, accertamento e contenzioso (L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 134, lett. b); ciò significa che a partire dalla dichiarazione 1999 (per i redditi 1998), l’Agenzia delle Entrate svolge un’attività di controllo, effettuando accertamenti formali e sostanziali sui dati denunciati dai contribuenti, richiedendo il pagamento dei contributi e premi omessi e/o evasi da trasmettere successivamente all’Inps ed in caso di mancato pagamento l’Inps procede, sulla base dei dati forniti dalla Agenzia delle entrate, alla iscrizione a ruolo dei contributi totalmente o parzialmente insoluti (ai sensi del D.Lgs. n. 462 del 1997);

si è dunque in presenza di un sistema di accertamento, liquidazione e riscossione comune ai due rapporti, previdenziale e tributario in cui gli atti di accertamento disposti dall’Agenzia delle entrate costituiscono atti di esercizio anche del rapporto previdenziale, rispondendo al fine di semplificare ed uniformare le procedure di iscrizione a ruolo delle somme a qualunque titolo dovute all’INPS, nonchè di assicurare l’unitarietà nella gestione operativa della riscossione coattiva di tutte le somme dovute all’Istituto (cfr. anche D.L. n. 70 del 2011 conv., con modificazioni, in L. n. 106 del 2011, art. 7, comma 2, lett. t) e del resto già con Cass. n. 8379 del 2014 questa Corte aveva chiarito che in materia di iscrizione a ruolo dei crediti degli enti previdenziali (D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 3) l’accertamento, cui la norma si riferisce, non è solo quello eseguito dall’ente previdenziale, ma anche quello operato da altro ufficio pubblico come l’Agenzia delle Entrate;

la giurisprudenza di questa Corte ha inoltre affermato, in ordine alla valenza probatoria degli accertamenti tributari (v., fra le tante, Cass. n. 14237 del 2017), che in tema di accertamento tributario relativo sia all’imposizione diretta che all’IVA, la legge – rispettivamente D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, (richiamato dal successivo art. 40 per quanto riguarda la rettifica delle dichiarazioni di soggetti diversi dalle persone fisiche) e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 – dispone che l’inesistenza di passività dichiarate, nel primo caso, o le false indicazioni, nel secondo, possono essere desunte anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti;

pertanto, il giudice di merito (tributario od ordinario, nel caso della contribuzione previdenziale), investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione, dando atto, in motivazione, dei risultati del proprio giudizio (impugnabile in cassazione solo per inadeguatezza o incongruità logica dei motivi che lo sorreggono) e solo in un secondo momento, qualora ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato ai sensi dell’art. 2727 c.c. e ss. e art. 2697 c.c., comma 2, (v., fra le altre, Cass. n. 9784 del 2010);

va anche ricordato, per completezza, che in tema di prova per presunzioni, il giudice, posto che deve esercitare la sua discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, è tenuto a seguire un procedimento che si articola necessariamente in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi. Ne consegue che deve ritenersi censurabile, in sede di legittimità, la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento” (così Cass. n. 9108 del 2012);

in definitiva, dalla portata presuntiva dell’accertamento tributario si desume la necessità che lo stesso venga in qualche modo resistito dal contribuente che intenda, invece, evitare il consolidamento dell’accertamento stesso e ciò può avvenire con qualsiasi mezzo;

in mancanza di tale resistenza di segno negativo offerta dall’obbligato, evidentemente l’atto di accertamento dovrà ritenersi idoneo a rendere definitivo l’avveramento del fatto nello stesso contenuto;

pertanto, una volta che l’INPS abbia invocato tale accertamento, del quale a quanto detto va aggiunto che, diversamente dai verbali ispettivi (frutto ed espressione di attività investigativa), costituisce applicazione di parametri matematici volti a verificare l’esistenza di redditi ulteriori, esso può essere sufficiente a suffragare la pretesa contributiva ove non resistita da prove di segno contrario;

nel caso di specie, l’odierno ricorrente ha del tutto trascurato di contestare tempestivamente l’idoneità degli apprezzamenti posti a base dell’atto di accertamento tributario che ha fondato l’avviso di addebito notificato dall’Inps, limitandosi ad invocare a proprio favore la regola di riparto dell’onere probatorio quale conseguenza della irrilevanza ai fini contributivi dell’accettazione del condono tributario ai sensi del D.L. n. 98 del 2011, art. 39, comma 12, e da ciò consegue che l’accertamento è divenuto definitivo con consequenziale riflesso sull’obbligazione contributiva;

quanto, infine, al rilievo da attribuire alla sentenza di primo grado del giudice tributario è evidente che alla stessa, travolta dalla successiva declaratoria di cessazione della materia del contendere, non può attribuirsi rilievo alcuno difettando sia l’effetto del giudicato, mai realizzatosi, che quello della efficacia riflessa nei confronti dell’INPS, soggetto titolare del credito contributivo; nè tanto meno tale sentenza può ritenersi elemento valido alla costruzione del sillogismo presuntivo di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c. trattandosi non di fatto noto ma dell’esito di un giudizio svoltosi tra parti diverse da quelle dell’odierno giudizio ed in ordine al quale il ricorrente non ha neanche reso noti i fatti ivi acquisiti;

da ultimo, anche il terzo motivo va rigettato essendo stato applicato il principio della soccombenza e posto che (vd. da ultimo Cass. n. 11329 del 26/04/2019) la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione;

il ricorso va dunque rigettato; le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.500,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1- quater, dichiara sussistenti i presupposti processuali per il versamento, a carico del ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso ex art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2021

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