Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9515 del 12/04/2017


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Cassazione civile, sez. II, 12/04/2017, (ud. 07/02/2017, dep.12/04/2017),  n. 9515

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2987/2013 proposto da:

M.L.G., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, LUNGOTEVERE MELLINI 24, presso lo studio dell’avvocato

GIOVANNI GIACOBBE, che lo rappresenta e difende unitamente a sè

medesimo;

– ricorrente –

e contro

M.A.F., UNICREDIT SPA IN PERSONA DEL LEGALE

RAPP.TE P.T.;

– intimati –

contro

F.M.M. C.F. (OMISSIS), M.M.V.

C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in FOGGIA, VIALE GIUSEPPE

DI VITTORIO 115, presso lo studio dell’avvocato LUCA MIRANDA, che li

rappresenta e difende per proc. spec. del 17/1/2017 rep. n.

(OMISSIS);

– resistenti –

avverso la sentenza parziale n. 1155/2011 della CORTE D’APPELLO di

BARI, depositata il 22/12/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/02/2017 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;

udito l’Avvocato Giacobbe Giovanni difensore del ricorrente e l’avv.

M.L.G. difensore di sè stesso, i quali chiedono che

parli il difensore oggi costituitosi con procura speciale notarile,

e successivamente insistono sui motivi di ricorso e ne chiedono

l’accoglimento, così come per la memoria;

udito l’avv. Miranda Luca difensore dei resistenti, il quale non si

oppone, ed espone le proprie difese oralmente chiedendo che venga

anche trattato congiuntamente altro ricorso in cassazione pendente

sulla sentenza definitiva ed iscritto nel 2017, e chiede il rigetto

dei cinque motivi di ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, il quale non si oppone, in subordine,

successivamente chiede il rigetto del ricorso o l’inammissibilità

dello stesso.

Fatto

I FATTI DI CAUSA

1. M.A.F. e M.M.V., nell’anno 1989, convennero in giudizio il fratello M.L.G., al fine di procedere alla divisione del complesso immobiliare versante in comunione ereditaria, sia da parte del padre M.A. che della madre D.C..

M.L.G., costituitosi, si oppose alla richiesta di divisione, a suo avviso inopportuna, trattandosi di bene indivisibile. Il processo vide la partecipazione volontaria della banca Unicredito, creditore ipotecario di M.A.F. e M.V., al solo scopo di seguire la regolarità delle operazioni.

Con una prima sentenza parziale, depositata il 17 maggio 2005, il Tribunale di Foggia, risolte plurime questioni attinenti all’eredità materna, che qui non rilevano, dispose la prosecuzione del giudizio, includente le indagini peritale del caso, in ordine alla parte dell’immobile derivante dall’eredità paterna.

Nel corso del giudizio il convenuto, mutando radicalmente opinione, dedusse la divisibilità del complesso immobiliare. Per contro, parte attrice, modificando l’originaria richiesta di divisione, sollecitò la vendita all’incanto dell’immobile oggetto della successione paterna.

Con una seconda sentenza parziale, depositata il 27 maggio 2008, il Tribunale, considerati gli insorti contrasti sulla comoda divisibilità dello stabile, per la parte proveniente dal de cuius M.A. e stimato che la divisione avrebbe imposto onerose, disfunzionali, nonchè complesse, operazioni di “autonomizzazione in molte unità immobiliare dell’unico complesso esistente”, concluse per la non comoda divisibilità del cespite immobiliare e ne dispose la vendita all’incanto, assegnando all’ulteriore prosecuzione del giudizio la definitiva composizione del quadro successorio in contestazione.

La Corte d’appello di Bari, registrato il mutamento di richiesta da parte di M.M.V., la quale aveva chiesto che l’assegnazione avvenisse congiuntamente al nipote F.M.M., nonchè l’intervento volontario di quest’ultimo, il quale qualificatosi successore a titolo particolare di M.A.F., in forza di atto di cessione di quota ereditaria indivisa, aveva assunto posizione assimilabile a quella della zia M.M.V., con sentenza depositata il 22 dicembre 2011, rigettato l’appello avanzato da M.L., dispose rimettersi “al seguito del giudizio innanzi al Tribunale di Foggia l’assegnazione dell’immobile sito in (OMISSIS) a M.M.V. ed a F.M.M., con contemporanea determinazione e attribuzione a M.L.G. del conguaglio pecuniario in eccedenza di quote delle altre due parti condividendi” e regolò le spese di causa.

2. Avverso quest’ultima determinazione propone ricorso per cassazione M.L.G., illustrando cinque motivi di censura. Il predetto ricorrente, inoltre, nell’imminenza dell’udienza ha depositato memoria; in replica alle conclusioni del P.G., l’epilogo dell’udienza, ha ulteriormente dedotto per iscritto. Per la controparte risulta essere stata depositata procura notarile, con la quale è stato nominato nuovo difensore in persona dell’Avvocato Luca Miranda da Foggia.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denunzia l’omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Si assume che la corte locale ha omesso di fornire congrua motivazione in ordine alla “realtà oggettivamente accertata”, che vedeva il complesso immobiliare “già diviso in cinque unità immobiliari”. Costituisce, per il ricorrente, “circostanza di fatto” pretermessa dalla Corte d’appello la divisibilità del complesso immobiliare. Invero, prosegue il ricorrente, secondo le indicazioni di legittimità “ove esistano immobili già divisi, individuabili come lotti, non è possibile escludere alcuni eredi dalla assegnazione in natura”. In altri termini la indivisibilità di cui all’art. 720 c.c., non può riguardare blocchi di beni; con la conseguenza che “proprio la pluralità dei lotti avrebbe consentito all’attuale ricorrente di soddisfare in natura, attraverso la mia assegnazione in suo favore di uno di tali lotti, il proprio diritto”.

Con il secondo motivo viene dedotta violazione degli artt. 718, 719, 720 c.c., il Giudice d’appello, secondo l’assunto censuratorio, aveva violato la legge nel ritenere che l’immobile per cui è causa non fosse comodamente divisibile, così confermando la statuizione di primo grado. Per contro, il principio generale da favorire, anche nel rispetto dell’art. 42 Cost., impone di soddisfare ciascuno dei coeredi mediante l’assegnazione di una parte dei beni. L’art. 720 c.c., rappresenta un’eccezione alla descritta regola e, pertanto impone interpretarsi la non comoda divisibilità “con riferimento all’aspetto strutturale, ovvero alla estrema ipotesi di irrealizzabilità fisica del frazionamento, ovvero la impossibilità in concreto di realizzare porzioni suscettibili di formare oggetto di autonomo e libero godimento, non compromesso da servitù o pesi o limitazioni eccessive; infine, per affermare la non comoda divisibilità dell’immobile, sempre nel contesto dei principi sopra delineati, deve dimostrarsi che la divisione richieda opere complesse e/o di notevole costo, sotto l’aspetto economico funzionale e determini sensibile deprezzamento del valore delle porzioni rispetto all’intero”, ciò secondo le indicazioni della giurisprudenza di legittimità. La Corte di merito non si era tenuta alla predetta interpretazione avendo, anzi, introdotto un criterio valutativo non previsto dal codice, condizionando la non comoda divisibilità “ad ipotesi di polemiche tra le parti condividende, e dalla diversa situazione delle ipotetiche conseguenti dilatazioni nelle operazioni di scioglimento della comunione ereditaria”. In definitiva, precisa ricorrente, si tratta di condizioni non rientranti della disciplina normativa e che, in ogni caso non risultano, nella fattispecie ricollegate ad elementi fattuali effettivamente accertati.

Con il terzo motivo viene allegato vizio motivazionale per essere stato adottato un criterio estraneo al precetto normativo e per non essere state valutate le circostanze di fatto indicate nell’atto d’appello.

Con l’atto d’appello, in particolare, si erano contestate le conclusioni del CTU ingegnere Papa, rilevandosene aporie e contraddizioni, in relazione a quanto logicamente prospettato dal CTU ingegnere T., le cui conclusioni erano state immotivatamente disattese.

Pare evidente al ricorrente che la obliterazione della censura d’appello da parte della Corte locale meritava la proposta cassazione della sentenza d’appello.

Il ricorso evidenzia ulteriormente che non si era adeguatamente considerata la relazione dell’ingegnere T., ove questa aveva, descrivendo lo stato dei luoghi, evidenziato che, attraverso i lavori effettuati dalla s.p.a. Rinascente, l’immobile era stato suddiviso in autonome quote. Peraltro la medesima relazione si era fatta carico di predisporre un progetto divisionale, che non includeva la necessità di far luogo ad opere particolarmente difficoltose od onerose o che avessero comportato il deprezzamento di valore dell’immobile. Precisa ancora il ricorrente che “nell’ipotesi di relazioni tecniche di ufficio divergenti, – come si è avuto modo di osservare – l’adesione all’una piuttosto che all’altra delle relazioni medesime, richiede, soprattutto quando vi siano specifiche puntualizzazioni a cura delle parti del processo, che il giudice del merito dia conto attraverso analitica motivazione delle ragioni per le quali aderisca all’una piuttosto che all’altra conclusione”; ciò secondo le indicazioni maturata in sede di legittimità.

La relazione dell’ingegnere P., per il ricorrente, non precisa per quali motivi i progetti divisionali predisposti da altri tecnici non erano da ritenersi attuabili.

In definitiva, la sentenza impugnata non aveva valutato le specifiche ragioni di censura mosse alla sentenza di primo grado, aveva affermato la indivisibilità del bene senza una reale presa in considerazione delle argomentazioni sviluppate, sia pure non sovrapponibili, dai due CTU e dal CTP. Con l’ulteriore precisazione che se ciò avesse fatto avrebbe dovuto riscontrare la maggiore affidabilità delle conclusioni del CTU ingegnere T..

1.1. I primi tre motivi, unitariamente scrutinati, stante la loro intima compenetrazione, non meritano di essere accolti.

Nonostante gli sforzi argomentativi appare del tutto evidente che, al di là dei simulacri normativi addotti come violati, il ricorrente si duole della ricostruzione della vicenda rilevante (la natura del compendio immobiliare da dividere) e della soluzione di merito adottata dalla Corte territoriale. Trattasi, quindi, di doglianza che in questa sede non può essere prese in considerazione.

Non può farsi a meno di evidenziare che, come spesso accade, con il ricorso si propone l’approvazione di una linea interpretativa dei fatti di causa alternativa rispetto a quella fatta propria dal giudice, così sperdendosi del tutto il senso del sindacato di legittimità.

Come reiteratamente affermato in questa sede, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, prima dell’ulteriore modifica di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile “ratione temporis”), il quale implica che la motivazione della “quaestio facti” sia affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che si presentasse tale da determinarne la logica insostenibilità (cfr., Sez. 3, n. 17037 del 20/8/2015, Rv. 636317). Con l’ulteriore corollario che il controllo di legittimità del giudizio di fatto non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe in una nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Con la conseguenza che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (cfr. Sez. 6, ord. n. 5024 del 28/3/2012, Rv. 622001). Da qui la necessità che il ricorrente specifichi il contenuto di ciascuna delle risultanze probatorie (mediante la loro sintetica, ma esauriente esposizione e, all’occorrenza integrale trascrizione nel ricorso) evidenziando, in relazione a tale contenuto, il vizio omissivo o logico nel quale sia incorso il giudice del merito e la diversa soluzione cui, in difetto di esso, sarebbe stato possibile pervenire sulla questione decisa (cfr. Sez. 5, n. 1170 del 23/1/2004, Rv. 569607).

Appare, quindi, evidente che il vizio di insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, si configura nella ipotesi di carenza di elementi, nello sviluppo logico del provvedimento, idonei a consentire la identificazione del criterio posto a base della decisione, ma non anche quando vi sia difformità tra il significato ed il valore attribuito dal giudice di merito agli elementi delibati, e le attese e deduzioni della parte al riguardo.

Parimenti, il vizio di contraddittoria motivazione, che ricorre in caso di insanabile contrasto tra le argomentazioni logico – giuridiche addotte a sostegno della decisione, tale da rendere incomprensibile la “ratio decidendi”, deve essere intrinseco alla sentenza, e non risultare dalla diversa prospettazione addotta dal ricorrente (Sez. 2, n. 3615 del 13/04/1999, Rv. 525271). Con l’ulteriore implicazione che il vizio di contraddittorietà della motivazione, deducibile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non può essere riferito a parametri valutativi esterni, quale il contenuto della consulenza tecnica d’ufficio Sez. 1, n. 1605 del 14/02/2000, Rv. 533802). Peraltro, osservandosi che il vizio di insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, resta integrato solo ove consti la carenza di elementi, nello sviluppo logico del provvedimento, idonei a consentire la identificazione del criterio posto a base della decisione, ma non anche quando vi sia difformità tra il significato ed il valore attribuito dal giudice di merito agli elementi delibati, e le attese e deduzioni della parte al riguardo; mentre il vizio di contraddittoria motivazione, che ricorre in caso di insanabile contrasto tra le argomentazioni logico-giuridiche addotte a sostegno della decisione, tale da rendere incomprensibile la “ratio decidendi”, deve essere proprio della sentenza, e non risultare dalla diversa prospettazione addotta dal ricorrente (Sez. L., n. 8629 del 24/06/2000, Rv. 538004; Sez. 1, n. 2830 del 27/02/2001, Rv. 544226).

Si è condivisamente ulteriormente precisato, così da scolpire nitidamente l’ambito di legittimità, che il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Sez. L, n. 2272 del 02/02/2007, Rv. 594690). Proprio per ciò non è ammesso perseguire con il motivo di ricorso un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, finalità sicuramente estranea alla natura e allo scopo del giudizio di cassazione. Infatti, il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr., fra le tante, Sez. L., n. 9233 del 20/4/2006, Rv. 588486 e n. 15355 del 9/8/2004, Rv. 575318).

La spiegazione alternativa proposta con il ricorso, fronteggiante una insanabile contraddittorietà della motivazione, deve essere tale da apparire l’unica plausibile e la deduzione di un vizio di motivazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì il solo potere di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente o illogico, e non già quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore ed un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (cfr., fra le tante, Sez. 3, n. 20322 del 20/10/2005, Rv. 584541; Sez. L., n. 15489 dell’11/7/2007, Rv. 598729). Lo scrutinio di merito resta, in definitiva, incensurabile, salvo l’opzione al di fuori del senso comune (Sez. L., n. 3547 del 15/4/1994, Rv. 486201); la stessa omissione non può che concernere snodi essenziali del percorso argomentativo adottato (cfr., Sez. 2, n. 7476 del 4/6/2001, Rv. 547190; Sez. 1, n. 2067 del 25/2/1998, Rv. 513033; Sez. 5, n. 9133 del 676/2012, Rv. 622945, Sez. U., n. 13045 del 27/12/1997, Rv. 511208).

Quanto poi all’apporto di sapere proveniente dalla CTU va ribadito che se, per un verso, il giudice del merito, ove dia mostra di aver conosciuto e apprezzato le conclusioni del consulente, non è tenuto a fornire alcuna ulteriore motivazione, è altrettanto evidente che il ricorrente non può limitarsi a dissentire dalle predette conclusioni in sede di legittimità, ricadendo su di lui l’onere di puntualmente controdedurre, riportando i singoli passaggi della relazione e le specifiche ragioni poste a suo tempo in contrapposizione. In altri termini, è necessario che la parte alleghi di avere rivolto critiche alla consulenza stessa già dinanzi al giudice “a quo”, e ne trascriva, poi, per autosufficienza, almeno i punti salienti onde consentirne la valutazione in termini di decisività e di rilevanza, atteso che, diversamente, una mera disamina dei vari passaggi dell’elaborato peritale, corredata da notazioni critiche, si risolverebbe nella prospettazione di un sindacato di merito inammissibile in sede di legittimità. La parte che lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di motivazione (cfr., Sez. 1, n. 11482 del 03/06/2016, Rv. 639844; Sez. 1, n. 16368 del 17/07/2014, Rv. 632050; Sez. 1, n. 3224 de/ 12/02/2014, Rv. 630385). Nel caso di specie, non solo le critiche appaiono frammentate e nebulose, ma devesi rilevare, come prima si è detto, la non autosufficienza sul punto della lamentela.

La sentenza gravata, nonostante un evidente svarione interpretativo, di cui appresso si dirà, rimasto, tuttavia, ininfluente, alla prova di resistenza delle altre argomentazioni addotte, non mostra vizi logici intrinseci, nè aporie argomentative.

In ispecie a pagina cinque, dal terzo paragrafo in poi vengono esattamente evidenziate le ragioni per le quali il compendio immobiliare non può ritenersi comodamente divisibile, ragioni, peraltro, in perfetta sintonia con il contenuto dell’art. 720 c.c.. Di decisivo rilievo risulta l’osservazione secondo la quale l’autonomizzazione del fabbricato, oltre ad implicare costi significativi e perdita di valore per ciascuno delle due fabbriche, importerebbe l’ulteriore divisione “in tre parti lungo una ideale linea verticale, ricavando dall’unico complesso espositivo commerciale oggi esistente, (…) ben 12 unità commerciali di circa 80-130 mq ciascuna (tre unità per ciascuno dei quattro piani). La conseguenza sarebbe intanto che singole unità espositive non avrebbero alcun senso commerciale, ubicate in altezza invece che a piano terra, e difficilmente riceverebbero variazione di destinazione ad altro uso; e in secondo luogo tale segmentazione ovviamente richiederebbe opere di completa autonomizzazione individuale per dodici unità (servizi completi, porte di accesso, impiantistiche varie, eccetera), con costi sicuramente esorbitanti nel complesso”.

Questa costituisce la ratio decidendi della ritenuta indivisibilità, in perfetta sintonia con il contenuto dell’art. 720 c.c., laddove la incomoda divisibilità trova fondamento nella necessità di un frazionamento, non solo costoso, ma tale da snaturare la funzione del complesso immobiliare, da svilirne il valore patrimoniale e da renderne scarsamente appetibile e redditizio l’impiego economico.

1.1.1. Per contro non trova supporto normativo la addotta tutela di altre ed eterogenee esigenze, quali quelle individuate nell’opportunità di “non creare nè polemiche ulteriori fra le stesse parti contendenti, nè dilatazioni dell’operazione di scioglimento della comunione ereditaria”. Costituisce, del pari, un requisito non incluso nella previsione normativa “l’assenza di seri problemi legali o comunque di ordine giuridico, che comporterebbero intralci concreti alle operazioni medesime”.

In definitiva si tratta di una interpretazione dell’art. 720 c.c., radicalmente priva di agganci con il contenuto della norma, e in aperto contrasto con la sua ratio e natura di tassativa deroga, che deve essere in questa sede corretta richiamando, seppure in sintesi, le indicazioni maturate in sede di legittimità. Si è precisato che la deroga di cui all’art. 720 cit., trova ragion d’essere non solo nel caso di mera non divisibilità dei beni, ma anche in ogni ipotesi in cui gli stessi non siano comodamente divisibili, situazione, questa, che ricorre nei casi in cui, pur risultando il frazionamento materialmente possibile sotto l’aspetto strutturale, non siano tuttavia realizzabili porzioni suscettibili di formare oggetto di autonomo e libero godimento, non compromesso da servitù, pesi o limitazioni eccessive, e non richiedenti opere complesse o di notevole costo, ovvero porzioni che sotto l’aspetto economico-funzionale, risulterebbero sensibilmente deprezzate in proporzione al valore dell’intero (Sez. 2, n. 3635, 16/2/2007, RV. 595263). Ed ancora, la non comoda divisibilità di un immobile, integrando un’eccezione al diritto potestativo di ciascun partecipante alla comunione di conseguire i beni in natura, può ritenersi legittimamente praticabile solo quando risulti rigorosamente accertata la ricorrenza dei suoi presupposti, costituiti dalla irrealizzabilità del frazionamento dell’immobile, o dalla sua realizzabilità a pena di notevole deprezzamento, o dalla impossibilità di formare in concreto porzioni suscettibili di autonomo libero godimento, non compromesso da servitù, pesi o limitazioni eccessive (Sez. 2, n. 12406, 28 maggio 2007 – RV. 597810; Sez. 2, n. 25888, 15/12/20016).

2. Con il quarto motivo il ricorrente si duole della violazione degli artt. 718, 720 712 c.p.c..

Chiarisce il ricorrente che la sentenza d’appello, affermata l’astratta necessità di porre in vendita il compendio immobiliare, “tenuto conto che le parti condividendoti, M.M.V. e F.M.M., successivamente alla pronuncia del Tribunale, avevano presentato richiesta di assegnazione dell’intero immobile, e, rilevato che non vi sarebbe opposizione da parte di M.L.G., nè contestazione sulla titolarità soggettiva dei predetti due condividendi, afferma non potersi accogliere la richiesta ma doversi rimettere la valutazione alla sentenza definitiva emananda da parte del Tribunale”.

Trattasi, soggiunge ricorrente, di statuizione non condivisibile per più ragioni. Ove il ricorso fosse accolto e quindi il compendio dichiarato divisibile, la statuizione risulterebbe incongrua; inoltre, la disposizione “deve ritenersi caducata ove vengano accolti i primi motivi del presente ricorso”; infine, il capo della statuizione “fuoriesce dagli schemi processuali propri del giudizio di appello, nell’ambito del quale i casi di rimessione primo giudice sono tassativamente indicate”.

2.1. La censura è sicuramente fondata avuto riguardo al profilo processuale di essa.

La statuizione esame, invero, si pone in insanabile contrasto con l’art. 354 c.p.c., il quale enumera tassativamente i casi di rimessione della causa al primo giudice. Peraltro l’assegnazione e la determinazione del conguaglio non importa alcuna ulteriore attività accertativa, che giustifichi incombenti istruttori o attività materiali (come nel caso della vendita), trattandosi di una disposizione avente natura meramente giuridica, accompagnata degli ordini trascrizionali consequenziali.

3. Con il quinto motivo, denunziante violazione dell’art. 91 c.p.c., il ricorrente si duole della determinazione riguardante il regolamento delle spese, sia sotto il profilo dell’an, che sotto il profilo del quantum.

Il ricorrente perora una determinazione che tenga conto del suo complessivo atteggiamento, caratterizzato da coerenza e linearità; nonchè dalla pronta accettazione di varie rinunce utili a rendere facilmente divisibile il bene; nè, corrispondeva al vero che avesse improvvisamente mutato opinione in ordine alla divisibilità del bene, stante che la discrasia era dipesa da un mero lapsus; per contro era stata la parte resistente ad aver cambiato opinione. “Anche sul quantum della condanna alle spese la Corte territoriale non ha tenuto conto dell’unicità del centro di interessi dei germani M. ed A. (…), nonchè della unicità dell’attività difensiva”.

Il motivo resta assorbita dall’epilogo.

PQM

accoglie il quarto motivo, dichiara assorbito il quinto e rigetta gli altri. Cassa e rinvia alla Corte d’appello di Bari, altra sezione, anche per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2017

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