Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9491 del 22/05/2020

Cassazione civile sez. lav., 22/05/2020, (ud. 19/12/2019, dep. 22/05/2020), n.9491

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE� Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19729-2014 proposto da:

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE C.N.R., in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA,

alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– ricorrente –

contro

P.D., + ALTRI OMESSI, tutti elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 2, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO

ANTONINI, rappresentati e difesi dall’avvocato LUCIA BARSACCHI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 247/2013 del TRIBUNALE di PISA, depositata il

23/05/2013 R.G.N. 314/2011;

avverso l’ordinanza n. 431/2013 della CORTE DI APPELLO DI FIRENZE,

depositata il 27/05/2014 R.G.N. 831/2013.

Fatto

RILEVATO

che:

1. la Corte di appello di Firenze, con ordinanza resa ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., dichiarava l’inammissibilità dell’appello proposto dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) avverso la sentenza del Tribunale di Pisa che aveva riconosciuto il diritto degli odierni controricorrenti, ricercatori o tecnologi già dipendenti del medesimo Consiglio come precari e poi stabilizzati ex L. n. 296 del 2006, all’anzianità maturata nei rapporti di lavoro a termine precedentemente intercorsi tra le parti anche a fini economici con ricostruzione della relativa posizione stipendiale;

2. il primo giudice considerava applicabile il principio di non discriminazione previsto dall’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato, attuato dalla direttiva 1999/70 CE, osservando che il dipendente che aveva lavorato per la stessa Amministrazione in un arco temporale con contratti a tempo determinato non poteva essere trattato in maniera deteriore, in carenza di ragioni oggettive (tra l’altro, non provate nè ancor prima allegate), rispetto all’altro lavoratore che avesse lavorato nello stesso periodo in forza di un’assunzione a tempo indeterminato;

3. la Corte territoriale riteneva che l’impugnazione del CNR non avesse ragionevole probabilità di accoglimento e richiamava, al riguardo, un proprio precedente costituito dalla sentenza n. 109/2014 il cui indirizzo interpretativo era da confermare anche alla luce della decisione della Corte di Giustizia Europea n. C393/11;

4. per la cassazione della sentenza del Tribunale nonchè dell’ordinanza resa ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c. il CNR ha proposto ricorso affidato ad un unico motivo;

5. hanno resistito con controricorso i lavoratori;

6. non sono state depositate memorie.

Diritto

RILEVATO

che:

1. va preliminarmente rilevata l’inammissibilità per difetto di interesse del ricorso proposto avverso l’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c., emessa in uno dei casi in cui ne è consentita l’adozione e come nella specie contenente un giudizio prognostico negativo circa la fondatezza nel merito del gravame;

ed infatti tale ordinanza, in quanto emanata nell’ambito suo proprio, non è ricorribile per cassazione, non avendo carattere definitivo, giacchè il medesimo art. 348 ter, comma 3 consente di impugnare per cassazione il provvedimento di primo grado (Cass., 27 marzo 2014, n. 7273; Cass. 12 ottobre 2015, n. 20470; Cass. 29 gennaio 2016, n. 1748; Cass., Sez. Un., 2 febbraio 2016, n. 1914);

l’ordinanza in esame, peraltro, rispetta il dato normativo, dal momento che la Corte ha ritenuto inammissibile l’appello per la sua manifesta infondatezza, ovvero per ragioni di merito, ed ha così inteso dare continuità ad un proprio orientamento richiamando le argomentazioni riferite a casi analoghi decisi nel medesimo senso. Il riferimento a precedenti decisioni è espressamente contemplato nell’art. 348 ter c.p.c., che autorizza la motivazione succinta, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi (così Cass. 14 ottobre 2015, n. 20717);

2. tanto premesso il ricorrente, con l’unico articolato motivo, denuncia violazione e falsa applicazione della direttiva n. 1999/70/CE e dell’Accordo Quadro del lavoro a tempo determinato in allegato, dell’art. 4, comma 5 c.c.n.l. Comparto Ricerca 5/3/1998; dell’art. 20 c.c.n.l. Comparto Ricerca 21/2/2002 relativo al quadriennio 1998-2001; dell’art. 4 c.c.n.l. Comparto Ricerca (quadrienni normativo 2006-2009 e 1 biennio economico) 24/2/2009; della L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 519 e 520; del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 36 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3;

censura la sentenza di primo grado per avere ritenuto sussistente una discriminazione tra i lavoratori laddove il regime previsto dalla contrattazione collettiva tra le due categorie di personale (ricercatore a termine e ricercatore a tempo indeterminato) non disattende affatto la normativa dell’Unione Europea, essendo la diversità di trattamento ampiamente giustificata da ragioni oggettive alla luce delle peculiarità riscontrabili nel settore di riferimento, profili che escludono, in capo al lavoratore a tempo determinato, il diritto ad una progressione economica nei sensi statuiti dai giudici territoriali;

sostiene che nella specie è da escludere che il ricercatore a termine e quello a tempo indeterminato si trovino in situazioni comparabili e che quindi l’anzianità maturata possa considerarsi equivalente a quella svolta nell’ambito del rapporto a tempo indeterminato e ciò con particolare riferimento alle seguenti circostanze: a) l’instaurazione del rapporto di lavoro dei ricercatori a tempo indeterminato del CNR è sempre preceduta da un periodo, almeno triennale, di esperienza maturata con rapporti di lavoro a termine di vario genere e tali attività di ricerca post-laurea sono ontologicamente diverse, per loro natura, dalle attività svolte nel periodo di ruolo, in quanto tendono ad una fase formativa del ricercatore che, attraverso l’esperienza maturata con l’attività di ricerca svolta nel triennio di dottorato e/o attraverso altre forme di lavoro specificamente previste e puntualmente disciplinate dall’ordinamento, crea i presupposti per potere accedere ai ruoli; b) sono differenti le professionalità presupposte, le modalità di selezione e l’utilizzo del ricercatore all’interno della struttura organizzativa dell’ente; infatti, il lavoro svolto da un ricercatore in virtù di un contratto a termine è ancorato allo sviluppo di un determinato progetto scientifico e non può ritenersi identico e nemmeno simile a quello svolto ricercatore nell’ambito del rapporto a tempo indeterminato, in ragione delle diverse qualifiche e competenze richieste nei due casi dalla legge per poter accedere alle due diverse posizioni; c) sussistono concrete e precise ragioni oggettive, che sono rinvenibili nella natura stessa delle attività di ricerca per singoli programmi e con specifici requisiti professionali, come rinvenibili nell’assunzione ai sensi della L. n. 266 del 1997, art. 5, comma 2;

evidenzia che la soluzione fatta propria dalla Corte territoriale condurrebbe al paradosso che il contrattista a termine, una volta stabilizzato, avrebbe diritto ad un trattamento retributivo superiore rispetto ad un dipendente a tempo indeterminato, in violazione dei principi comunitari di non discriminazione;

3. il motivo è infondato;

3.1. vanno, infatti, richiamati i principi già espressi da questa Corte nelle numerose pronunce in materia di contratti a tempo determinato nel settore scolastico (ex plurimis, Cass. n. 22558/2016) oltre che di contratti a tempo determinato stipulati con gli Enti di Ricerca Cass. 27950/2017; Cass. n. 7112/2018, Cass. n. 3473/ 2019; Cass. n. 6146/2019);

3.2. con le indicate pronunce si è premesso che la clausola 4 dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla Direttiva 1999/70/CE, nella parte in cui stabilisce che “per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano condizioni oggettive”, è stata più volte interpretata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha evidenziato che: a) la clausola 4 dell’Accordo esclude in generale ed in termini non equivoci qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, sicchè la stessa ha carattere incondizionato e può essere fatta valere dal singolo dinanzi al giudice nazionale, che ha l’obbligo di applicare il diritto dell’Unione e di tutelare i diritti che quest’ultimo attribuisce, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (Corte Giustizia 15.4.2008, causa C- 268/06, Impact; 13.9.2007, causa C307/05, Del Cerro Alonso; 8.9.2011, causa C-177/10 Rosado Santana); b) il principio di non discriminazione non può essere interpretato in modo restrittivo, per cui la riserva in materia di retribuzioni contenuta nell’art. 137, n. 5 del Trattato (oggi 153 n. 5), “non può impedire ad un lavoratore a tempo determinato di richiedere, in base al divieto di discriminazione, il beneficio di una condizione di impiego riservata ai soli lavoratori a tempo indeterminato, allorchè proprio l’applicazione di tale principio comporta il pagamento di una differenza di retribuzione” (Del Cerro Alonso, cit., punto 42); c) le maggiorazioni retributive che derivano dall’anzianità di servizio del lavoratore, costituiscono condizioni di impiego ai sensi della clausola 4, con la conseguenza che le stesse possono essere legittimamente negate agli assunti a tempo determinato solo in presenza di una giustificazione oggettiva (Corte di Giustizia 9.7.2015, in causa C177/14, Regojo Dans, punto 44, e giurisprudenza ivi richiamata); d) a tal fine non è sufficiente che la diversità di trattamento sia prevista da una norma generale ed astratta, di legge o di contratto, nè rilevano la natura pubblica del datore di lavoro e la distinzione fra impiego di ruolo e non di ruolo, perchè la diversità di trattamento può essere giustificata solo da elementi precisi e concreti di differenziazione che contraddistinguano le modalità di lavoro e che attengano alla natura ed alle caratteristiche delle mansioni espletate (Regojo Dans, cit., punto 55 e con riferimento ai rapporti non di ruolo degli enti pubblici italiani Corte di Giustizia 18.10.2012, cause C302/11 e C305/11, Valenza; 7.3.2013, causa C393/11, Bertazzi);

3.3. la stessa Corte di Giustizia, chiamata a pronunciare in fattispecie nelle quali veniva in rilievo il mancato riconoscimento dell’anzianità di servizio maturata in epoca antecedente alla procedura di stabilizzazione prevista dalla L. n. 296 del 2006, ha evidenziato che la clausola 4 “osta ad una normativa nazionale, quale quella controversa nei procedimenti principali, la quale escluda totalmente che i periodi di servizio compiuti da un lavoratore a tempo determinato alle dipendenze di un’autorità pubblica siano presi in considerazione per determinare l’anzianità del lavoratore stesso al momento della sua assunzione a tempo indeterminato, da parte di questa medesima autorità, come dipendente di ruolo nell’ambito di una specifica procedura di stabilizzazione del suo rapporto di lavoro, a meno che la citata esclusione sia giustificata da ragioni oggettive ai sensi dei punti 1 e/o 4 della clausola di cui sopra. Il semplice fatto che il lavoratore a tempo determinato abbia compiuto i suddetti periodi di servizio sulla base di un contratto di un rapporto di lavoro a tempo determinato non configura una ragione oggettiva di tal genere” (Corte di Giustizia 18.10.2012 in cause riunite da C- 302/11 a C-305/11, Valenza e negli stessi termini Corte di Giustizia 4.9.2014 in causa C 152/14 Bertazzi);

3.4. i richiamati principi sono stati ribaditi dalla Corte di Giustizia nella recente sentenza 20 settembre 2018 in causa C-466/17, Motter, con la quale si è, in sintesi, osservato che al fine di “raggiungere un equilibrio tra i legittimi interessi dei lavoratori a tempo determinato e quelli dei lavoratori a tempo indeterminato” e di evitare “discriminazioni alla rovescia” è consentito, nel rispetto del principio del pro rata temporis, tener conto dei periodi di servizio prestati in misura non integrale, fermo però restando che al momento dell’assunzione come dipendente pubblico di ruolo deve essere valorizzata ai fini dell’anzianità anche la carriera pregressa del lavoratore a tempo determinato; in tale pronuncia, peraltro, il ricorso al principio del pro rata temporis trova giustificazione nella ritenuta necessità di “(..) rispecchiare le differenze tra l’esperienza acquisita dai docenti assunti mediante concorso e quella acquisita dai docenti assunti in base ai titoli, a motivo della diversità delle materie, delle condizioni e degli orari in cui questi ultimi devono intervenire, in particolare nell’ambito di incarichi di sostituzione di altri docenti” (così, Corte di Giustizia, 20/09/2018, causa C-466/17, Motter);

3.5. l’interpretazione delle norme Eurounitarie è riservata alla Corte di Giustizia, le cui pronunce hanno carattere vincolante per il giudice nazionale perchè a tali sentenze, siano esse pregiudiziali o emesse in sede di verifica della validità di una disposizione, va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto della Unione Europea, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell’ambito dell’Unione (cfr. Cass. n. 22558/2016);

4. ai principi sopra richiamati si è correttamente attenuta la Corte territoriale la quale, come evidenziato nello storico di lite, ha accertato che nel passaggio dal precariato alla stabilizzazione la lavoratrice (odierna controricorrente) aveva continuato a svolgere le medesime mansioni, sicchè l’unico elemento differenziazione era costituito dalla natura, a termine e non a tempo indeterminato, del rapporto;

5. anche in questa sede l’Ente ricorrente, al netto delle questioni nuove di cui sopra si è detto, si limita a fare leva sull’autonomia dei singoli contratti a termine e sulla necessità di evitare discriminazioni in danno degli assunti a tempo indeterminato (peraltro sulla base di affermazioni generiche e prive di ogni riscontro fattuale), ossia su circostanze che, alla luce della richiamata giurisprudenza della Corte di Giustizia, non sono idonee a giustificare la totale esclusione dei periodi di lavoro a tempo determinato ai fini del calcolo dell’anzianità;

6. il ricorso va, pertanto, rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

7. ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dalla ricorrente.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 19 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2020

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