Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9486 del 22/05/2020

Cassazione civile sez. lav., 22/05/2020, (ud. 28/11/2019, dep. 22/05/2020), n.9486

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4275-2016 proposto da:

P.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FRANCESCO

PACELLI 24, presso lo studio dell’avvocato LUCA MACRI’,

rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO STARA;

– ricorrente –

contro

A.R.S.T. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PAOLA FALCONIERI 100, presso

lo studio dell’avvocato PAOLA FIECCHI, rappresentata e difesa

dall’avvocato GIUSEPPE MACCIOTTA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 532/2014 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI,

depositata il 11/02/2015, R.G.N. 496/2013.

Fatto

RILEVATO

CHE:

La Corte d’appello di Cagliari con sentenza resa pubblica in data 11/2/2015, confermava la pronuncia del giudice di prima istanza che aveva respinto la domanda proposta da P.A. nei confronti della Arst – Gestione Ferrovie dello Stato s.r.l. – volta a conseguire il riconoscimento della qualifica di operatore tecnico 140 di cui al c.c.n.l. 27/11/2000 piuttosto che quella di operatore di manutenzione parametro 130 rivestita, oltre alla condanna al pagamento delle differenze retributive ed al risarcimento del danno esistenziale risentito per effetto del prolungato sottoinquadramento.

La Corte distrettuale a fondamento del decisum, poneva il rilievo della scarsità di allegazioni da parte attorea, in ordine al profilo contenutistico delle mansioni espletate, essendosi il P. limitato a dedurre di aver fatto parte di un cantiere meccanizzato partecipando alla posa di nuove traversine in cemento armato, elemento di per sè non decisivo ai fini del riconoscimento della superiore qualifica rivendicata.

Inidoneo era poi il quadro probatorio definito in prime cure, a confermare l’allegazione attorea relativa al ruolo di caposquadra che si assumeva espletato, nè poteva dispiegare effetti nel presente giudizio, la circostanza che alcuni colleghi in diversi contenziosi, avessero rinvenuto riconoscimento del diritto azionato.

Da confermare era anche la statuizione della pronuncia impugnata in punto di condanna alle spese, non sussistendo i presupposti òdi cui all’art. 92 c.p.c. per applicare il regime della compensazione, nè la tariffa professionale nello scaglione minimo.

Avverso tale pronuncia interpone ricorso per cassazione il P. con unico motivo al quale resiste con controricorso la società intimata.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con unico, articolato motivo il ricorrente denuncia quanto “ai requisiti richiesti dal R.D. n. 148 del 1031, art. 18 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione”.

Si duole che nella ricognizione del materiale istruttorio, la, Corte distrettuale, facendo laconico rinvio al giudizio sulla scarsità delle allegazioni e della prova già espresso dal giudice di prima istanza, abbia omesso il richiamo alle deposizioni rese da alcuni testimoni i quali avevano confermato che nell’espletamento delle mansioni ascrittegli, aveva fatto uso di macchinari complessi, avendo altresì frequentato il propedeutico corsò di formazione organizzato dalla azienda.

Imputa inoltre, alla Corte, di non aver fatto uso dei poteri conferiti ex art. 421 c.p.c. provvedendo a richiamare i testimoni già assunti in primo grado le cui dichiarazioni erano state trascritte secondo modalità estremamente sintetiche. Nella prospettazione del ricorrente, “questa negligenza fa si che manchino le motivazioni alla decisione del giudice di merito e fa si che non vi sia coerenza con riferimento ai principi di completezza, di causalità logica e di non contraddizione”.

2. La critica non è condivisibile.

Deve infatti rammentarsi l’insegnamento di questa Corte secondo cui in tema di procedimento civile, sono riservate al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento. E’, pertanto, insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice (vedi Cass. 8/8/2019 n. 21187).

Il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito, del resto, non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (cfr. Cass. 10/6/2016 n. 11892).

Il giudizio di cassazione è infatti un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di vàlutare autonomamente il merito della causa. Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti (vedi Cass. 6/3/2019 n. 6519).

Orbene, le critiche formulate dal ricorrente tendono a pervenire ad un rinnovato scrutinio delle acquisizioni probatorie con riesame dei fatti, inammissibile nella presente sede alla stregua del ricordato insegnamento.

Deve infatti rilevarsi che la Corte di appello, con accertamento che investe pienamente la quaestio facti, ha dato conto delle fonti del proprio convincimento ed ha argomentato in modo logicamente congruo innanzitutto, in ordine alla scarsità di allegazioni in fatto contenute nel ricorso introduttivo ed afferenti al contenuto delle mansioni svolte.

Come fatto cenno nello storico di lite, il P. si era limitato ad esporre di aver fatto parte di un cantiere meccanizzato, partecipando alla posa delle nuove traversine in cemento armato, aggiungendo di aver svolto il ruolo di caposquadra; la Corte distrettuale aveva tuttavia argomentato in ordine alla non decisività di tali allegazioni, perchè allo svolgimento di attività presso cantieri meccanizzati, potevano essere addetti operai con “professionalità più o meno elevate”, e l’espletamento del ruolo di caposquadra, non consentiva comunque di collocarlo nel profilo di operatore tecnico, dal momento che tutti i profili della III area, mansioni operative, compreso quello in cui era inquadrato il ricorrente, potevano comportare il coordinamento di altri dipendenti.

I giudici del gravame hanno quindi dato atto che le allegazioni del lavoratore non rendevano conto delle ragioni della inadeguatezza dell’attuale inquadramento che presuppone essenzialmente lo svolgimento di attività non complesse di riparazione e manutenzione su mezzi ed impianti. Hanno poi precisato che le testimonianze acquisite in ordine all’utilizzo da parte del P., di apparecchi complessi come la rincalzatrice e la profilatrice, proprio degli “operatori tecnici”, apparivano generiche ed inidonee pertanto a dimostrarne l’utilizzo in via prevalente, nè l’epoca in cui tale utilizzo aveva effettivamente avuto inizio.

La questione rilevante in causa è stata, quindi., trattata in conformità ai criteri valutativi di riferimento, pur pervenendo il giudice del gravame a conclusioni opposte a quelle indicate da parte ricorrente, onde, sotto tale profilo la pronuncia resiste alla censura all’esame.

3. Nè risulta condivisibile la censura formulata con riferimento al mancato ricorso ai poteri istruttori d’ufficio da parte dei giudici del gravame.

Ed invero, secondo i principi affermati da questa Corte, l’art. 257 c.p.c., che trova applicazione anche nel rito del lavoro, consentendo, senza più specifica limitazione il riesame di ufficio di testimoni già interrogati, al fine di chiarire la loro deposizione, implica un discrezionale apprezzamento del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità (ex plurimis, vedi Cass. 23/3/1994 n. 2808, Cass. 3/10/1995 n. 10371 3/10/1995). Sotto tale profilo non è dunque, in alcun modo configurabile la prospettata violazione della invocata disposizione disciplinante l’esercizio dei poteri istruttori officiosi da parte del giudice di merito.

4. Il ricorrente si duole da ultimo, della motivazione non convincente nè coerente, con la quale la Corte territoriale ha escluso, con riferimento alla liquidazione delle spese, l’applicabilità della tariffa professionale nel minimo. La contraddizione era ravvisabile nella circostanza che la Corte pur avendo dato atto che l’appello era stato respinto per carenza di prova non aveva applicato i valori minimi nella liquidazione delle spese, considerato che la causa si era articolata in sei udienze con l’escussione di otto testimoni.

5. La critica è priva di pregio.

La Corte di merito, dopo aver rimarcato l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione del regime di compensazione ex art. 92 c.p.c., si è conformata al principio della soccombenza che disciplina il regime delle spese giudiziali ex art. 91 c.p.c., riportandosi ai valori medi dello scaglione corrispondente alle cause di valore indeterminato, con approccio corretto e non oggetto di specifica censura, limitata ad un profilo di incongruità del tutto insussistente, per quanto sinora detto.

In definitiva, alla stregua delle sinora esposte considerazioni, il ricorso è respinto.

La regolazione delle spese inerenti al presente giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (che ha aggiunto il comma 1 quater al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13) – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 1.800,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 28 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2020

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