Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9480 del 22/05/2020

Cassazione civile sez. lav., 22/05/2020, (ud. 28/11/2019, dep. 22/05/2020), n.9480

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23730-2015 proposto da:

MADAMA OLIVA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE, 38,

presso lo studio dell’avvocato MARIA LUCIA SCAPPATICCI,

rappresentata e difesa dall’avvocato GIOVANNI FARAONE;

– ricorrente –

contro

I.F.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 6838/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 29/09/2014 R.G.N 4712/2011.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. il Tribunale di Avezzano accolse parzialmente il ricorso proposto da I.F. e condannò la Madama Oliva Srl al pagamento della somma di Euro 256,03 a titolo di differenze retributive spettanti alla predetta, oltre accessori; rigettò invece la domanda tesa alla declaratoria di nullità e/o inefficacia del licenziamento intimato oralmente, ritenendo giustificata e legittima l’apposizione del termine al contratto stipulato tra le parti;

2. sul gravame interposto dalla I., la Corte di Appello di L’Aquila, con sentenza depositata in data 8.2.2007, in riforma parziale della decisione di primo grado, ritenuto il difetto dei presupposti di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1, per l’apposizione del termine – dichiarato, dunque, nullo – disponeva la conversione del rapporto a tempo indeterminato e, rilevato che in tali casi era consentita la recedibilità solo con atto scritto, affermava l’inefficacia del licenziamento orale del 26.10.2000, disponendo la condanna della società alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro, nonchè al pagamento, in favore della stessa, delle retribuzioni come per legge;

3. proponeva ricorso per cassazione la società affidandosi ad un unico motivo, cui resisteva la I. con controricorso contenente impugnazione incidentale;

questa Corte, con sentenza n. 4523 del 2011, accoglieva il ricorso principale e rigettava quello incidentale;

la pronuncia rilevava che “la corte territoriale, pur ritenendo che si vertesse in ipotesi di conversione del contratto, cui era stato apposto un termine dichiarato nullo, in rapporto a tempo indeterminato ai sensi della disciplina sopra citata, ha erroneamente ritenuto che la disdetta, intimata allo spirare del suddetto termine dal datore di lavoro, integrasse un licenziamento verbale affetto da nullità, condannando la società” alle conseguenze previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 nella formulazione dell’epoca; richiamati precedenti di questa Corte “alla cui stregua non è parificabile l’ipotesi del recesso del datore di lavoro, fattispecie tipica cui è collegata la tutela prevista dall’art. 18 St. dei Lav., a quella della disdetta con la quale il datore di lavoro, allo scopo di evitare la rinnovazione tacita del contratto, comunichi al dipendente la scadenza del termine, sia pure invalidamente apposto, in relazione alla quale lo svolgimento delle prestazioni cessa in ragione della esecuzione che le parti danno ad una clausola nulla”, la decisione rescindente, ribadita “l’impossibilità di parificare – ai fini della determinazione di “mora accipiendi” – alla offerta delle prestazioni lavorative la domanda di annullamento del licenziamento illegittimo con la richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro”, ha rimesso “tale valutazione, in relazione al caso in esame,… al giudice del rinvio, tenuto ad esaminare i termini in cui era stata prospettata la questione della invalidità del termine e delle relative conseguenze sanzionatorie e la configurabilità nella specie di una valida messa in mora ai fini del risarcimento del danno secondo le regole civilistiche”; ha quindi cassato la sentenza impugnata… in relazione alla censura accolta, rinviando al giudice del rinvio “per nuovo accertamento, alla luce dei principi affermati, della imputabilità della mancata prestazione di attività lavorativa a rifiuto di riceverla da parte della società”, “con riferimento alla individuazione di valido atto di messa in mora e di determinazione del risarcimento dei danni”;

4. riassunto il giudizio ad opera sia della I. che della società, la Corte di Appello di Roma, con sentenza pubblicata il 29 settembre 2014, ritenuta la sussistenza di un valido atto di messa in mora e l’applicabilità della L. n. 183 del 2010, art. 32 quanto ai profili risarcitori, ha così disposto: “dichiara la nullità del termine apposto al contratto di lavoro a termine intercorso fra le parti e dichiara la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a far data dal 16.10.2000 e per l’effetto ne ordina il ripristino della funzionalità. Condanna la Madama Oliva Srl al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, di una indennità pari alla somma corrispondente a 4 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto pari ad Euro 1002,95”, oltre accessori;

5. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società con due motivi, mentre non ha svolto attività difensiva l’intimata.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 384 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cit. codice, lamentando che il giudice del rinvio avrebbe esorbitato dai compiti assegnati dalla pronuncia rescindente, statuendo “sulla natura del rapporto di lavoro, sulla natura del termine apposto stabilendo la sussistenza di un rapporto subordinato a tempo indeterminato a far data dal 16.10.2010 e ne ha ordinato il ripristino della funzionalità”;

2. il motivo è infondato;

come riportato nello storico della lite, questa Corte con la sentenza n. 4523 del 2011 “ha cassato la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta”, mantenendo dunque ferma la nullità del termine, ed ha espressamente demandato al giudice del rinvio di “esaminare i termini in cui era stata prospettata la questione della invalidità del termine e delle relative conseguenze sanzionatorie e la configurabilità nella specie di una valida messa in mora ai fini del risarcimento del danno secondo le regole civilistiche”;

pertanto non esorbita dai limiti posti dall’art. 384 c.p.c. la sentenza qui impugnata che ha individuato in fatto l’esistenza di un atto di costituzione in mora della lavoratrice e riconosciuto, dal punto di vista risarcitorio, l’applicabilità della L. n. 183 del 2010, art. 32 il quale presuppone e conferma la nullità del termine originariamente apposto e, per espressa previsione del comma 5, a conversione del contratto in un rapporto a tempo indeterminato (per cui risulta priva di qualsiasi pregio la tesi della ricorrente secondo cui sarebbe “cosa giudicata il fatto che il contratto di lavoro sia stato stipulato a tempo determinato”), rapporto perdurante in assenza di un efficace evento risolutivo;

3. con il secondo motivo si denuncia “l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”; ci si duole che la Corte territoriale non abbia “preso in considerazione il fatto della intervenuta transazione delle parti relativa alla esecutività della sentenza di appello oggetto del primo giudizio di cassazione allegato sia nel ricorso per riassunzione che nella comparsa di costituzione al ricorso avversario dinanzi la Corte di Appello di Roma”;

4. la censura è infondata;

è principio consolidato, infatti, che la riassunzione della causa innanzi al giudice di rinvio instaura un processo chiuso, nel quale è preclusa alle parti, tra l’altro, ogni possibilità di proporre nuove domande, eccezioni, nonchè conclusioni diverse, salvo che queste, intese nell’ampio senso di qualsiasi attività assertiva o probatoria, siano rese necessarie da statuizioni della sentenza della Cassazione; (da ultimo Cass. n. 5137 del 2019; Cass. n. 4096 del 2007; Cass. n. 13719 del 2006; in senso analogo, Cass. n. 13006 del 2003); pertanto, la riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio si configura non già come atto di impugnazione, ma come attività d’impulso processuale volta alla prosecuzione del giudizio conclusosi con la sentenza cassata (cfr. per tutte, Cass. n. 4018 del 2006);

ne consegue che la Corte del rinvio non poteva pronunciarsi su domande e conclusioni nuove e diverse rispetto a quelle proposte nel giudizio di appello che aveva dato luogo alla sentenza poi cassata e, comunque, l’eventuale omissione di attività da parte del giudice del rinvio, il quale non si sarebbe pronunciato sul punto, avrebbe dovuto essere denunciata ai sensi dell’art. 112 c.p.c., quale error in procedendo rilevante a mente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, e non certo come omesso esame di fatto decisivo ai sensi del n. 5 dello stesso articolo, rendendo comunque inammissibile la relativa censura (cfr. Cass., n. 329 del 2016; Cass. n. 27387 del 2005; Cass. n. 1701 del 2006; Cass. n. 3190 del 2006; Cass. n. 12952 del 2006; Cass. n. 24856 del 2006; Cass. n. 25825 del 2009; Cass. n. 26598 del 2009; Cass. n. 7268 del 2012);

5. conclusivamente il ricorso va rigettato; nulla per le spese in difetto di attività difensiva dell’intimata;

occorre invece dare atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 28 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2020

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