Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9441 del 21/04/2010

Cassazione civile sez. III, 21/04/2010, (ud. 08/03/2010, dep. 21/04/2010), n.9441

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VARRONE Michele – Presidente –

Dott. PETTI Giovanni Battista – Consigliere –

Dott. TALEVI Alberto – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – rel. Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 1229/2006 proposto da:

C.V. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato GRELLA Domenico con studio in 81058 in VAIRANO

PATENORA (CE), VIA PIAVE 15 giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.D., M.L., B.F.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 147/2004 del TRIBUNALE di SANTA MARIA CAPUA

VETERE SEDE DISTACCATA DI PIEDIMONTE MATESE, emessa il 15/10/2004,

depositata il 26/10/2004, R.G.N. 162/2003;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

08/03/2010 dal Consigliere Dott. ADELAIDE AMENDOLA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata l’11 dicembre 1999 M.G., B.F., M.D. e M.L. proponevano opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso dal Giudice di Pace di Piedimonte Matese in data 22 settembre 1999, col quale, a istanza di C.V., era stato loro ingiunto il pagamento della somma di euro 1.032,00, in virtù di dichiarazione scritta rilasciata da M.G..

Con sentenza del 20 maggio 2002 il giudice adito rigettava l’opposizione.

Proponevano appello i soccombenti e il Tribunale, in data 26 ottobre 2004, in accoglimento del mezzo, revocava il decreto opposto.

Secondo il decidente l’impegno assunto dal M. di restituire la somma ricevuta per agevolare l’assegnazione di una casa popolare, in caso di mancato raggiungimento dell’obiettivo avuto di mira, non poteva essere addotto a fondamento della domanda di restituzione, ostandovi il disposto dell’art. 2035 cod. civ.. Conseguentemente, in applicazione del principio per cui in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis, quanto pagato dall’opposta doveva ritenersi irripetibile.

Avverso detta pronuncia propone ricorso per cassazione C. V. affidato a due motivi.

Nessuno degli intimati ha svolto attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1 Col primo motivo l’impugnante denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 99 cod. proc. civ., perchè in primo grado gli eredi si erano limitati a eccepire la propria carenza di legittimazione e l’inopponibilità nei loro confronti della pretesa attrice, laddove in appello avevano operato una non consentita mutatio libelli.

1.2 La censura è destituita di ogni fondamento.

Dalla ricostruzione dell’iter processuale esposto in ricorso emerge che l’opponibilità agli eredi di M.G. dell’obbligo da questi assunto costituì solo un profilo della questione intorno a cui ruota tutta la causa, e cioè la natura dell’invalidità del negozio sotteso a quella dichiarazione. Non a caso la stessa ricorrente ha ammesso che gli opponenti avevano eccepito l’inopponibilità nei loro confronti dell’impegno a restituire la somma in ragione della illiceità del fatto (cofr. pagg. 4 e 5 del ricorso), specificamente ponendo dunque il problema della soluti retentio da parte dell’accipiens, in un’ottica che, non condivisa dal giudice di prime cure, sulla base di un’interpretazione restrittiva dell’art. 2035 cod. civ., è stata invece fatta propria dal Tribunale.

Ne deriva che la denunziata violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. è, a prescindere da ogni altro rilievo, insussistente in fatto.

2.1 Col secondo mezzo l’impugnante lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113 e 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 99 cod. proc. civ. e art. 2033 cod. civ., per non avere il giudice d’appello considerato che nella scrittura versata in atti M.G. si era impegnato a restituire la somma a semplice richiesta, indipendentemente dai motivo per cui l’aveva ricevuta e che il disposto dell’art. 2035 cod. civ. si applica soltanto al contratto immorale o a causa turpe, e non si estende al contratto contrario a norme imperative o in frode alla legge.

2.2 Anche tali critiche non hanno pregio.

Esse investono la già enucleata questione giuridica centrale della causa, e cioè i limiti di operatività del disposto dell’art. 2035 cod. civ., che sanziona con l’irripetibilità la prestazione contraria al buon costume.

Pacifico che il negozio contra bonos mores è sempre anche contrario all’ordine pubblico o a norme imperative e che può tuttavia non essere vero l’inverso (confr. Cass. civ. 2 settembre 1998 n. 8722;

Cass. civ. 18 novembre 1995, n. 11973), ritiene il collegio che consentire al solvens di invocare, per ottenere la restituzione dell’importo pagato, le finalità truffaldine o corruttive della sua azione, significherebbe, perciò stesso, affermare che quelle finalità, benchè contrarie a norme imperative, sono tuttavia esenti da turpitudine. Ma tali conclusioni sono in contrasto con i valori obiettivati nell’ordinamento, valori che postulano che la nozione di buon costume non individui solo le prestazioni contrarie alle regole della morale sessuale o della decenza, ma comprenda anche quelle contrastanti con i principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico (confr. Cass. civ. 18 giugno 1987, n. 5371).

Ne deriva che correttamente il giudice di merito ha ritenuto applicabile alla fattispecie la regola per cui nemo auditur suam turpitudinem allegans, e che dunque in casi siffatti melior est condicio possidentis.

Il ricorso deve in definitiva essere rigettato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla spese.

Così deciso in Roma, il 8 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2010

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