Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9409 del 08/05/2015


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 9409 Anno 2015
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: FALASCHI MILENA

SENTENZA

sul ricorso 20660-2013 proposto da:
TASCO ANTONIO (TSCNTN50A17F052\), elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA ANDREA FULVIO 7 – interno 9, presso
lo studio dell’avvocato CARMELA BARBARA GATTO,
rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO SALERNO, giusta
procura speciale alle liti in calce al ricorso;
– ricorrente contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA 8018440587 in persona del
Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI

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Data pubblicazione: 08/05/2015

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende, ope legis;
– resistente –

avverso il decreto nel procedimento RG. 680/2011 della CORTE
12/01/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
26/11/2014 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA FALASCHI.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Antonio TASCO, con ricorso depositato il 22 aprile 2011, chiedeva la condanna
del Ministero della giustizia al risarcimento dei danni non patrimoniali a titolo di
equa riparazione per effetto del mancato rispetto del termine di ragionevole
durata in ben sette procedimenti civili che lo avevano riguardato, in particolare:
(1) un primo ricorso ex art. 442 c.p.c., depositato il 22.5.2001 dinanzi al
Tribunale di Matera, in funzione di giudice del lavoro, con il quale contestava la
legittimità della cartella di pagamento in favore dell’INPS per presunti contributi
agricoli non versati dal 1996 al 1999, definito con sentenza del 22.9.2010, con la
quale veniva dichiarata la cessazione della materia del contendere; (2) altro
ricorso ex art. 442 c.p.c. depositato il 12.7.2001, sempre avanti al Tribunale di
Matera e nella medesima materia (per presunti contributi agricoli non versati dal
1983 al 1995), deciso sempre con sentenza del 22.9.2010, dichiarata ugualmente
la cessazione della materia del contendere; (3) ulteriore ricorso ex art. 442 c.p.c.
depositato il 6.5.2002 (per presunti contributi agricoli non versati dal 1999 al
2000) e definito con sentenza del 22.9.2010, con pronuncia della medesima
natura dei precedenti giudizi; (4) altro ricorso ex art. 442 c.p.c. depositato il
2.4.2003 (per presunti contributi agricoli non versati dal 2000 al 2001), deciso
sempre il 22.9.2010 con pronuncia di cessazione della materia del contendere; (5)
Ric. 2013 n. 20660 sez. M2 – ud. 26-11-2014
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D’APPELLO di CATANZARO del 26.6.2012, depositato il

altro ricorso ex art. 442 c.p.c. depositato il 3.7.2004 (per presunti contributi
agricoli non versati dal 2001 al 2002), deciso il 19.5.2010 con sentenza che
dichiarava cessata la materia del contendere; (6) un ultimo ricorso ex art. 442
c.p.c. depositato il 25.3.2005 (per presunti contributi agricoli non versati dal 2002
al 2003), definito con sentenza del 19.5.2010, con la quale il giudice del lavoro
introdotto avanti al Giudice di pace di Pisticci, con atto di citazione notificato nel
2001 (iscritta la causa a ruolo il 20.12.2001), con il quale chiedeva il risarcimento

dei danni subiti nel sinistro stradale a lui occorso il 7.6.2001, terminata in primo
grado con sentenza del 1 0 .6.2004, che veniva appellata, con iscrizione ruolo del
6.7.2005, definita la causa in secondo grado con pronuncia del 23.2.2010.
La Corte di appello adita con decreto depositato il 12.1.2013, in parziale
accoglimento della domanda, condannava l’Amministrazione al risarcimento del

danno nella complessiva misura di C. 5.270,83, oltre interessi dalla domanda,
riconoscendo – per il primo giudizio – un ritardo non ragionevole di soli 4 mesi,
essendo quasi completamente addebitabile alla parte l’intera durata del processo

(il primo rinvio, di 11 mesi, era stato imposto dalla necessità di integrare il
contraddittorio nei confronti del litisconsorte necessario e, dunque, trattavasi di
svista processuale della difesa, l’udienza del 26.3.2004, rinviata alla data del
30.4.2004, laddove nessuno compariva, per cui veniva effettuato un rinvio ex art.

309 c.p.c. di tre mesi, al 24.6.2004, imputabile alle parti, a detta udienza veniva,

dichiarava cessata la materia del contendere; (7) infine un ulteriore giudizio

altresì, riscontrato che il ricorrente non aveva integrato il contraddittorio, per cui
la causa veniva rinviata al 10.2.2005, in considerazione dell’omissione della parte;
effettuati rinvii di ufficio, la causa riprendeva il 12.5.2006 e rinviata per la
discussione al 13.6.2008, data in cui le parti chiedevano rinvio per poter
“verificare l’adesione alla regolarizzazione governativa” e alla successiva udienza

veniva pronunciata sentenza di cessazione della materia del contendere per avere
il ricorrente aderito al condono proposto dall’Ente previdenziale) dovendo il
periodo in cui il ricorrente poteva soffrire un paterna con riguardo all’eventuale
Ric. 2013 n. 20660 sez. M2 – ud. 26-11-2014
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lungaggine del processo essere valutato dal momento della integrazione del
contraddittorio (il 10.2.2005) fino a quello in cui dichiarava l’intenzione di

verificare la possibilità di aderire al condono (il

13.6.2008); analoghe

argomentazioni venivano svolte per il secondo (liquidate €. 250,00), per il terzo
(un anno di ritardo non ragionevole) e per il quarto (per il quale non spettava
regolare dalla data della sua introduzione (il 15.7.2004) al 13.10.2005, poi veniva
rinviato ex art. 309 c.p.c. e le successive udienze venivano rinviate sino al
6.10.2006 su istanze delle parti non motivate da ragioni processuali, poi un rinvio
al 18.5.2007 ed al 5.6.2009, udienza quest’ultima in cui veniva richiesto un

termine per “verificare l’adesione alla regolarizzazione governativa”, sentenza
emessa (nella quale veniva dichiarata la cessazione della materia del contendere) il
19.5.2010, quantificato il ritardo non ragionevole in 11 mesi; il sesto dei processi

aveva superato il termine ragionevole di durata per 1 anno e 4 mesi; l’ultimo dei
processi, in materia diversa dai precedenti, aveva avuto durata complessiva pari a
9 anni e 2 mesi, addebitabile alla parte un lasso temporale di 1 anno ed 1 mese
impiegato per proporre appello, il ritardo non ragionevole era di 3 anni ed 1
mese, detratti da 8 anni ed 1 mese, anni cinque per il primo ed il secondo grado.
Il TASCO propone ricorso per cassazione avverso il decreto della Corte di
appello di Catanzaro sulla base di due motivi, illustrati anche da memoria ex art.
378 c.p.c..
L’Amministrazione non ha svolto difese, limitandosi a produrre richiesta di
partecipazione all’udienza di discussione.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Il Collegio ha deliberato l’adozione di una motivazione semplificata nella
redazione della sentenza.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia omessa, illogica, insufficiente
e/o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia
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alcun risarcimento) processo; il quinto dei processi aveva un andamento

errata motivazione sulla durata dei procedimenti ed errata valutazione di un fatto
decisivo della controversia — nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 2 e
segg. della legge n. 89 del 2001 per avere la corte di merito ritenuto che per
ognuno dei procedimenti i rinvii delle udienze fossero piena responsabilità del
TASCO, per cui allo stesso non poteva essere riconosciuto nessun danno
paterna non avendo avuto alcun interesse a proseguire le liti. Ad avviso del
ricorrente non poteva a lui essere imputato il ritardo imposto dalla necessità di
integrare il contraddittorio nei confronti del litisconsorte necessario, mentre si
tratta di circostanza che fa parte dell’eventuale svolgimento del processo, almeno

nella parte iniziale (dal 22.5.2001 al 26.3.2004). Aggiunge il ricorrente che la
motivazione appare del tutto illogica quanto alla carenza di interesse della parte
alla prosecuzione del giudizio. Eguali censure vengono svolte dal ricorrente con
riferimento agli ulteriori tre giudizi presupposti; relativamente al quinto il Tasco
lamenta che non sia comprensibile il criterio di determinazione del tempo che la
corte di merito ha considerato al fine della liquidazione del danno. Per i sei
procedimenti in materia previdenziale, si censura, altresì, il fatto che il giudice di
merito abbia considerato ragionevole la durata di tre anni anziché quella
ordinaria biennale.
Il motivo non può trovare accoglimento.
Esso, infatti, sollecita valutazioni di merito in ordine all’accertamento effettuato

rilevante, anche perché dopo un certo periodo non aveva potuto soffrire alcun

dalla Corte di appello circa i segmenti detraibili dalla durata complessiva del
processo presupposto perché addebitabili alle parti e specificamente indicati, con
la conseguenza che la censura, in sostanza, più che evidenziare vizi logici o
giuridici, sollecita un inammissibile nuovo giudizio di fatto.
Invero “per la valutazione della ragionevole durata del processo deve tenersi

conto dei criteri cronologici elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell’uomo, alle cui sentenze, riguardanti l’interpretazione dell’art. 6, par.
1, della CEDU, richiamato dalla norma interna, deve riconoscersi soltanto il
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valore di precedente, non sussistendo nel quadro delle fonti meccanismi
normativi che ne prevedano la diretta vincolatività per il giudice italiano. Anche
in tale prospettiva, l’accertamento della sussistenza dei presupposti della

domanda di equa riparazione — ossia la complessità del caso, il comportamento
delle parti e la condotta dell’autorità — così come la misura del segmento,

giudiziario, in relazione al quale deve essere emesso il giudizio di ragionevolezza
della relativa durata, risolvendosi in un apprezzamento di fatto, appartiene alla
sovranità del giudice di merito e può essere sindacato in sede di legittimità solo
per vizi attinenti alla motivazione” (Cass. n. 24339 del 2009).
Quanto alla censura proposta ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., di cui alla
prima parte del mezzo (omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione), è
inammissibile perché formulata con riferimento alla ormai superata formulazione
dell’art. 360, n. 5, c.p.c., ed è per ciò solo inammissibile (Cass., S.U., n. 8053 del
2014).

In proposito, occorre ricordare che le Sezioni Unite di questa Corte hanno
affermato che «la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.,
disposta dall’art. 54 del d.L 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012,
n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12
delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di
legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo
l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente
rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio
risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le
risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di
motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel
“contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione
perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del
semplice difetto di ” sufficienza” della motivazione», precisando altresì che il
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all’interno del complessivo arco temporale del processo, riferibile all’apparato

medesimo art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., come riformulato,
introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cessazione,
relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui
esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia
costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire

Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo
comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve
indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o
extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia
stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo
restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio
di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa,
sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza
non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie» (Cass. SS.UU. n. 8053 del
2014).

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta il vizio di motivazione e la
violazione dell’art. 6 CEDU per avere la corte di merito computato il danno

esclusivamente dopo avere detratto dalla durata complessiva del processo il
tempo ritenuto ragionevole, con ciò non tenendo conto dell’orientamento della
giurisprudenza comunitaria.
Il motivo è manifestamente infondato.
Occorre precisare che l’art. 2 comma 3 lett. a) della L n 89/2001 limita
testualmente il risarcimento del danno al solo periodo eccedente la ragionevole
durata e a tale disposizione si deve necessariamente attenere il giudice nazionale.
Pur vero che più decisioni della Corte Europea, emesse a carico dell’Italia in data
10 novembre 2004, hanno affermato che il termine, da prendere in
considerazione ai fini della liquidazione dell’indennizzo per la eccessiva durata
del processo, è quello della intera durata del procedimento (tra queste in
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che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

particolare le pronunce sul ricorso n. 62361/00, proposto da Riccardi Pizzati c.
Italia e sul ricorso n. 64897/01 proposto da Zullo c. Italia), e in applicazione
dell’art. 41 CEDU, ha condannato lo Stato Italiano al pagamento di ulteriori
somme, prendendo quale base per la liquidazione del danno morale la intera
durata del procedimento e non il periodo di ritardo (rispetto al termine da
manifestamente infondata la questione di costituzionalità della L 24 marzo 2001,
n. 89, art. 2, comma 3, lett a), nella parte in cui stabilisce che, al fine dell’equa
riparazione, rileva soltanto il danno riferibile al periodo eccedente il termine di
ragionevole durata, alla luce del principio – di recente ribadito (Cass. n. 478 del
2011) – per il quale non è ravvisabile “alcuna violazione dell’art. 117 Cost,
cornrna 1, in riferimento alla compatibilità con gli impegni internazionali assunti
dall’Italia mediante la ratifica della Convenzione Europea per la salvaguardia dei
Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. Infatti, qualora sia sostanzialmente
osservato il parametro fissato dalla Corte EDU ai fini della liquidazione
dell’indennizzo, la modalità di calcolo imposta dalla norma nazionale non incide
sulla complessiva attitudine della legislazione interna ad assicurare l’obiettivo di
un serio ristoro per la lesione del diritto in argomento, non comportando una
riduzione dell’indennizzo in misura superiore a quella ritenuta ammissibile dal
giudice europeo; diversamente opinando, poiché le norme CEDU integrano il
parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello

ritenersi ragionevole) per la sua definizione; tuttavia questa Corte ha ritenuto

subcostituzionale, dovrebbe valutarsi la conformità del criterio di computo
desunto dalle norme convenzionali, che attribuisce rilievo all’intera durata del
processo, rispetto al novellato art. 111 Cost., comma 2, in base al quale il
processo ha un tempo di svolgimento o di durata ragionevole, potendo profilarsi,
quindi, un contrasto dell’interpretazione delle norme CEDU con altri diritti
costituzionalmente tutelati” (Cass. 6 maggio 2009 n. 10415).
Conclusivamente il ricorso va rigettato.

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tl-

Nessuna statuizione occorre pronunciare sulle spese del giudizio di legittimità in
mancanza di difese della controparte.
Risultando dagli atti del giudizio che il procedimento in esame è considerato
esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla
dichiarazione di cui all’art. 13, comma 1 quater del T.U. approvato con il D.P.R

comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato – Legge di stabilità 2013).

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della VI-2^ Sezione Civile, il 26
novembre 2014.

30 maggio 2002, n. 115, introdotto dalla L 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,

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