Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9406 del 27/04/2011

Cassazione civile sez. III, 27/04/2011, (ud. 04/02/2011, dep. 27/04/2011), n.9406

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIFONE Francesco – Presidente –

Dott. FILADORO Camillo – Consigliere –

Dott. FINOCCHIARO Mario – Consigliere –

Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere –

Dott. VIVALDI Roberta – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.L. (OMISSIS), S.F.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA VALLE

CORTENO 41, presso lo studio dell’avvocato MONTANI SILVIA, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato PRIMIERI MORENO giusta

delega a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELLA SALUTE (OMISSIS) in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui è difeso per legge;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 350/2005 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

emessa il 14/4/2005, depositata il 28/09/2005, R.G.N. 353/2002;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/02/2011 dal Consigliere Dott. ROBERTA VIVALDI;

udito l’Avvocato LEONARDO DEL VECCHIO per delega dell’Avvocato SILVIA

MONTANI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GOLIA Aurelio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. S.F. e M.L., in proprio e nella qualità di genitori esercenti la potestà sul figlio minore M., convenivano, davanti al tribunale di Perugia, il Ministero della sanità chiedendone la condanna al risarcimento del danno derivato al figlio ed ai suoi genitori dalle gravi lesioni conseguenti alla vaccinazione obbligatoria antipolio praticata il (OMISSIS) al minore.

Il Ministero si costituiva contestando la fondatezza della domanda.

Il tribunale, con sentenza in data 8.2.2002, accoglieva la domanda proposta dal S. e dalla M., quali genitori esercenti la potestà sul minore, condannando il convenuto Ministero al risarcimento dei danni in favore degli attori, nella qualità indicata, quantificati in L. 302.790.900. Rigettava, invece, la domanda proposta in proprio dagli attori.

A diversa conclusione perveniva la Corte d’Appello che, sull’appello principale proposto dal Ministero e su quello incidentale proposto da S.F. e M.L., con sentenza del 20.9.2005, accoglieva il principale rigettando la domanda, e riteneva assorbito l’appello incidentale.

Hanno proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi illustrati da memoria S.F. e M.L..

Resiste con controricorso il Ministero della salute, il quale propone anche ricorso incidentale condizionato affidato a due motivi.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

2. Il ricorso per cassazione è stato proposto per impugnare una sentenza depositata (20.9.2005) anteriormente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, non soggetto, pertanto, alle norme – in particolare l’art. 366 bis c.p.c. – dallo stesso previste.

2.1. Ricorso principale.

Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la nullità della sentenza per violazione delle norme sul processo civile ed in particolare per violazione dell’art. 112 c.p.c. per ultrapetizione (art. 360 c.p.c., n. 4).

Affermano che la Corte di merito, con la sentenza impugnata, avrebbe dovuto statuire soltanto in ordine alla domanda proposta in proprio dal S. e dalla M. “in primo luogo perchè chiamati in giudizio e costituitisi nello stesso esclusivamente in proprio; in secondo luogo, perchè la domanda del Ministero della Salute era diretta a chiedere il rigetto della pretesa attorea per infondatezza solo ed esclusivamente nella veste propria assunta nel processo di appello dai ricorrenti”.

Il motivo non è fondato per le ragioni che seguono.

A tal fine, è opportuno ripercorrere l’iter processuale.

Il tribunale, nel giudizio di primo grado, aveva riconosciuto il danno – morale e biologico – soltanto in favore del minore, escludendo, invece, il risarcimento del danno in favore dei genitori.

Nel giudizio di appello, il Ministero conveniva gli attuali ricorrenti inizialmente “quali esercenti la patria potestà sul figlio M.” (così si legge nell’atto di appello), chiedendo che fosse dichiarata la nullità della sentenza di primo grado per vizio di ultrapetizione, avendo la stessa riconosciuto la responsabilità del Ministero della salute ai sensi dell’art. 2043 c.c. diversamente dalla domanda proposta di riconoscimento dell’indennità di cui alla L. n. 210 del 1992; in ogni caso, per la mancanza di prova in ordine alla ricorrenza della fattispecie di cui all’art. 2043 c.c., concludendo come segue “… in accoglimento del presente gravame, dichiarare nulla la sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c.; in subordine rigettare la pretesa attorea per infondatezza”.

S.M. e M.L., nel costituirsi, contestavano i motivi dell’appello principale ed, al tempo stesso, proponevano appello incidentale per l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno in proprio, non riconosciuto dal primo giudice, concludendo con la richiesta di rigetto dell’appello proposto dal Ministero della sanità e di condanna dello stesso Ministero “al pagamento dell’ulteriore somma di Euro 104.732,28 in favore di S.F. e M.L………”.

La Corte d’Appello, in parziale accoglimento dell’appello principale proposto dal Ministero della salute, così pronunciava “respinge la domanda proposta da S.F. e M.L. in proprio e nella qualità di genitori esercenti la potestà sul figlio minore S.M.”.

Gli attuali ricorrenti, però, con il motivo, contestano l’efficacia della sentenza impugnata nei confronti del loro figlio in quanto questi, nelle more del giudizio di primo grado, era divenuto maggiorenne, con la conseguente necessità della sua vocatio in ius.

Argomento evidentemente fondato alla stregua dei fatti processuali sopra richiamati, e non oggetto di controversia.

Il vizio di ultrapetizione lamentato, però, seppure sussistente, come si è visto, non può essere sollevato dagli attuali ricorrenti per essere, gli stessi, privi di legittimazione attiva.

A ben vedere, la Corte di merito, rigettando la domanda nei termini che precedono, ha accolto l’impugnazione proposta dal Ministero perchè, pur riconoscendo la sussistenza della fattispecie di cui all’art. 2043 c.c. e la sufficienza della prova fornita dagli attori ai sensi dell’art. 2697 c.c. in ordine al fatto della vaccinazione ed alla sua efficienza causale rispetto al fatto delle lesioni, ha affermato che sarebbe mancata la prova della colpa da parte del Ministero convenuto (pagg. 8 – 9 della sentenza).

2.2. Con il secondo motivo denunciano la violazione dell’art. 328 c.p.c. per omessa notificazione dell’atto di appello al ricorrente divenuto maggiorenne alla data del 16.12.1998 ed effettuata ai soli genitori in data 9 luglio 2002 – con conseguente nullità della sentenza 350/2005 – (art. 360 c.p.c., n. 4).

Anche questo motivo non è fondato.

Trattasi, sotto altro profilo, dello stesso tema affrontato con l’esame del primo motivo.

I ricorrenti affermano che, con il raggiungimento della maggiore età del minore nelle more del giudizio di primo grado, questi avrebbe dovuto essere chiamato in giudizio personalmente “avendo i genitori perso la rappresentanza legale dello stesso”.

Di qui la nullità della sentenza di appello, per avere statuito in merito alla posizione di un soggetto non evocato in giudizio, e su di un punto della sentenza dì primo grado ormai passato in giudicato.

Anche in questo caso, il vizio non può essere fatto valere dagli odierni ricorrenti, perchè privi di legittimazione attiva.

Avrebbe dovuto, infatti, essere S.M. a proporre autonomamente ricorso per cassazione facendo valere il vizio, denunciato, invece, dai suoi genitori, privi, a tal fine, di legittimazione attiva (v. in questo senso, specie in motivazione, Sez. Un. 28 luglio 2005, n. 15783).

Lo stesso S.M. – sussistendo le condizioni di legge – potrà fare accertare, nella sede competente, l’eventuale definitività – nei suoi confronti – della sentenza di primo grado, per la sua mancata corretta vocatio in ius nel giudizio di appello;

od, invece, impugnare la sentenza di primo grado ai sensi dell’art. 327 c.p.c., comma 2.

2.3. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 2050 c.c. per mancata applicazione al caso di specie (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Il motivo è fondato nei termini e per le ragioni che seguono.

Gli odierni ricorrenti principali lamentano il mancato riconoscimento di un danno subito quali genitori – quindi in proprio – per l’evento lesivo occorso al figlio M..

Tale danno non è stato riconosciuto nei loro confronti, nè dal primo giudice – che pure ne aveva affermato la ricorrenza in favore dell’allora minore – nè dalla Corte di merito che, sugli appelli proposti dal Ministero della salute e da S.F. e M.L., aveva rigettato la domanda originariamente proposta.

La Corte di merito afferma che, nella specie, ricorre un’ipotesi di responsabilità aquiliana ai sensi dell’art. 2043 c.c., per la lesione del diritto alla salute, negando, invece, l’applicabilità della norma di cui all’art. 2050 c.c. in tema di attività pericolosa, ulteriormente sostenuta, in sede di appello incidentale, dagli odierni ricorrenti principali.

La Corte rigetta, poi, la domanda perchè, pur avendo gli attori “provato il fatto della vaccinazione e la sua efficienza causale rispetto al fatto dannoso delle lesioni”, “non hanno provato la colpa” del Ministero, affermando che questa “non può consistere dalla semplice derivazione del danno dal fatto della P.A.”, ma “..Occorre invece che sia allegata e provata una negligenza, imprudenza o imperizia presente nella condotta causativa del danno”.

I ricorrenti, nel censurare l’erroneità della sentenza per la mancata applicazione della norma dell’art. 2050 c.c., contestano, però, nell’illustrazione dello stesso motivo, anche il mancato riconoscimento del danno a titolo di responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. (come si desume dalle pagg. 19 e 20 del ricorso principale) per il difetto dell’elemento soggettivo della colpa da parte del Ministero della Salute (all’epoca dei fatti, della Sanità), con il conseguente, ammissibile esame, in questa sede, del motivo sotto tale profilo.

Per esaminare il motivo, occorre focalizzare il tipo di attività che sarebbe alla base della responsabilità del Ministero della salute per attività pericolosa.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno operato – con la sentenza n. 576 del 2008, in materia di responsabilità civile per danni da emoderivati – una fondamentale distinzione di problemi: a) il problema della qualificazione come attività pericolosa ex art. 2050 c.c. dell’attività di produzione, commercializzazione ed effettiva trasfusione sui singoli pazienti del sangue; b) il diverso problema dei contenuti e dei profili di responsabilità dell’attività del Ministero in tale settore, che attiene alla sfera non direttamente gestionale, ma piuttosto di supervisione e controllo.

Affermano, in particolare, le Sezioni Unite: “La pericolosità della pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso degli emoderivati non rende ovviamente pericolosa l’attività ministeriale, la cui funzione apicale è solo quella di controllare e vigilare a tutela della salute pubblica. Anche gli interventi per la distribuzione e ripartizione del plasma tra le strutture sanitarie o le autorizzazioni per l’importazione del plasma non possono considerarsi elementi di conferma di un’attività in senso lato imprenditoriale – ritenuto da parte della dottrina, elemento necessario per la responsabilità ex art. 2050 c.c. -, in quanto si tratta di incombenze meramente complementari e funzionali all’organizzazione generale di un settore vitale per la collettività”.

Affermano, invece, che la responsabilità del Ministero della salute per i danni conseguenti ad infezioni da HIV e da epatite, contratte da soggetti emotrasfusi per l’omessa vigilanza esercitata dall’Amministrazione sulla sostanza ematica negli interventi trasfusionali e sugli emoderivati è inquadrabile nella violazione della clausola generale di cui all’art. 2043 c.c..

Principi analoghi, pur con le precisazioni dovute alle diversità della fattispecie in esame, valgono anche per l’attività di controllo e vigilanza esercitata dal Ministero della salute in tema di vaccinazioni obbligatorie, come quella antipoliomielitica.

Rilevante, a tal fine, è che il Ministero – sotto questo profilo – non svolge in concreto attività imprenditoriale in relazione all’acquisto e distribuzione di prodotto immunizzato antipolio, ma soltanto di controllo e vigilanza a tutela della salute pubblica.

Al che consegue l’insussistenza di una sua eventuale responsabilità per attività pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 c.c..

In questa ottica, va ricordato quel complesso normativo che, specie dopo il trasferimento di alcune funzioni statali in tema di sanità dal Ministero della salute alle regioni, in attuazione della riforma dell’art. 117 Cost. operata dalla Legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, -successiva, peraltro, ai fatti oggetto del presente giudizio (v. sul punto anche Sez. Un. 11 gennaio 2008, n. 584) – ed alle USL e, poi, alle ASL, avalla il carattere generale e di indirizzo proprio delle competenze ministeriali rispetto a quelle direttamente operative delle regioni: 1) così la L. 23 dicembre 1978, n. 833, art. 6 (istitutiva del servizio sanitario nazionale), che riserva allo Stato compiti di carattere generale e di indirizzo;

2) così il successivo art. 7, comma 2 in base al quale sono le regioni che “provvedono all’approvvigionamento di sieri e vaccini necessari per le vaccinazioni obbligatorie” ed in base ad un programma concordato con il Ministero della sanità”, con sub – delega delle funzioni delegate dallo stesso articolo ai comuni; 3) così l’art. 53 della medesima legge che riserva al Governo la proposizione del Piano Sanitario Nazionale, contenente “linee generali di indirizzo”, da sottoporre all’approvazione del parlamento, rimesse, dall’art. 55, per l’attuazione alle regioni.

Deve, però subito osservarsi che, in ogni caso, è rimasto all’amministrazione centrale, non solo un ruolo primario nella programmazione, ma anche un ruolo centrale di controllo, che si attua attraverso il servizio sanitario nazionale.

Affermata, quindi, l’insussistenza dì una responsabilità del Ministero della salute per attività pericolosa, si deve passare ad esaminare la fattispecie sotto il profilo dell’art. 2043 c.c. In questa prospettiva va ribadito che al Ministero della sanità, prima, ed ora al Ministero della salute spettano compiti di vigilanza e controllo preventivo, istituzionalmente attribuitigli.

E la fonte normativa che integra la norma primaria del neminem laedere, da cui ricavare l’esistenza di tali doveri in capo al Ministero della sanità, è costituita dalla L. 13 marzo 1958, n. 296, art. 1 che gli attribuisce “il compito di provvedere alla tutela della salute pubblica”, di “sovrintendere ai servizi sanitari svolti dalle amministrazioni autonome dello Stato e dagli enti pubblici, provvedendo anche ad emanare, per la tutela della salute pubblica, istruzioni obbligatorie per tutte le amministrazioni pubbliche che provvedono a servizi sanitari…”.

Ora le indicazioni normative, di rango primario e secondario, che si sono susseguite nel tempo, con riferimento alla materia della vaccinazione antipoliomielitica – e di cui è opportuno dare conto – sono le seguenti: 1) L. 30 luglio 1959, n 695 Provvedimenti per rendere integrale la vaccinazione antipoliomielitica” e la successiva L. 4 febbraio 1966, n. 51 “Obbligatorietà della vaccinazione antipoliomielitica” che ha abrogato la precedente rendendo obbligatoria la vaccinazione antipoliomielitica; 2) il D.M. 25 maggio 1967 “Disposizioni relative alla quantità e tipo di vaccino antipoliomielitico”, con il quale espressamente si prescriveva che la vaccinazione contro la poliomielite “è temporaneamente sospesa nei confronti dei soggetti che presentano manifestazioni di malattia acuta, febbrile o diarrea e dovrà essere ripresa appena scomparso lo stato di controindicazione”; 3) il D.M. 14 gennaio 1972 “Nuove norme in materia di vaccinazione antipoliomielitica”; 4) il D.M. 25 novembre 1982: Modificazioni al D.M. 14 gennaio 1972 “Nuove norme in materia di vaccinazione antipoliomielitica”; 5) il D.M. 19 aprile 1984 “Impiego del vaccino antipoliomielitico inattivato tipo Salk”;

6) Circolare n. 11/97 “Completamento della schedula vaccinale antipolio mediante impiego di vaccini iniettabili aventi caratteristiche diverse”; 7) D.M. 7 aprile 1999 “Nuovo calendario delle vaccinazioni obbligatorie e raccomandate per l’età evolutiva”;

Circolare n. 5 del 7 aprile 1999 “Nuovo calendario delle vaccinazioni obbligatorie e raccomandate per l’età evolutiva”; 8) D.M. 18 giugno 2002 “Nuovo Calendario della Vaccinazione antipolio”; 9) Circolare 6 agosto 2002 “Piano per il mantenimento della situazione di eradicazione della poliomielite; 10) Circolare del Ministero della Salute – 20/02/2004 Eradicazione della Polio – Sorveglianza della paralisi flaccida acuta nel 2003; D.M. 15 luglio 2005 “Modifica al calendario delle vaccinazioni antipoliomielitiche per adeguamento al Nuovo Piano nazionale Vaccini 2005-2007”.

L’excursus effettuato rende evidente come, nel tempo, siano intervenuti cambiamenti nei tipi e qualità di vaccino da impiegare e nei tempi e modi della sua somministrazione, che hanno determinato modifiche della “schedula vaccinale antipolio” “con l’utilizzo esclusivo di vaccino antipoliomielitico inattivato (IPV), alla luce dell’evoluzione della situazione epidemiologica nazionale, europea e globale di tale malattia” (D.m. salute del 18 giugno 2002 pubblicato sulla G.U. n. 163 del 13 luglio 2002).

In particolare il D.M. 14 gennaio 1972 “Nuove norme in materia di vaccinazione antipoliomielitica “, applicato ratione temporis nella specie per essere state le vaccinazioni effettuate nel 1981 prevedeva che “A partire dal 28 febbraio 1912 la vaccinazione obbligatoria contro la poliomielite viene eseguita gratuitamente dagli appositi servizi istituiti dai comuni a mezzo del vaccino a base di virus attenuati secondo Sabin, del tipo trivalente”, stabilendo modalità e tempi della somministrazione.

E’ opportuno anche, per la prossimità temporale ai fatti oggetto del presente giudizio, menzionare il D.M. 19 aprile 1984 “Impiego del vaccino antipoliomielitico inattivato tipo Salk” con il quale il Ministero della sanità, ribadendo che la vaccinazione antipoliomielitica continuava ad essere effettuata con vaccino attenuato orale tipo Sabin, emanava, però, indicazioni che prevedevano l’impiego del vaccino inattivato parenterale tipo Salk per la immunizzazione contro la poliomielite di soggetti con riscontrato stato di controindicazione duratura all’uso del vaccino attenuato orale tipo Sabin precisandone le condizioni e ricomprendendovi le situazioni di immunodeficienza.

Quanto, poi, alle conoscenze dei due tipi di vaccini, delle loro caratteristiche, delle loro potenzialità e delle loro indicazioni e controindicazioni all’assunzione, la comunità scientifica – per la fondamentale importanza della vaccinazione – ha compiuto, da tempo risalente (fin dal loro apparire sulla scena mondiale), ricerche accurate e su larga scala, pervenendo a risultati condivisi dalla comunità scientifica mondiale; dando atto dei risultati raggiunti, che potevano ritenersi condiviso e comune patrimonio mondiale; come tali conosciuti o conoscibili da parte delle singole comunità nazionali.

Le premesse normative così esposte conducono ad una successione logicamente concatenata di domande, articolabili come segue: a) se, all’epoca dei fatti, sul Ministero gravasse un obbligo giuridico, la cui violazione poteva condurre – con il concorso di ulteriori elementi – all’affermazione di una sua responsabilità; b) se la condotta omissiva del Ministero (nel caso di risposta affermativa al primo quesito) abbia avuto efficacia causale rispetto all’evento di danno (c.d. causalità dell’omissione); c) se in tale omissione – qualora la si ritenga dotata di efficacia causale – siano ravvisabili i profili della colpa (colpevolezza dell’omissione), e se tale colpa sia stata a sua volta causale rispetto al danno (c.d. causalità della colpa).

La sentenza impugnata ha risposto positivamente a tutte le domande tranne l’ultima.

Infatti, il motivo di ricorso concerne esclusivamente il punto relativo alla colpevolezza dell’omissione.

Così circoscritto il thema decidendum, va osservato che – in mancanza di fattori eccezionali che abbiano impedito di compiere l’azione doverosa – il contenuto dell’omissione ed il contenuto della colpa finiscono per sovrapporsi.

A tal fine, consideriamo alcune informazioni cruciali.

La prima è che – alla stregua della consulenza in atti, non controversa – il danno al minore fu certamente derivato dalla somministrazione del vaccino.

Pertanto – operando un ragionamento controfattuale – l’omessa somministrazione del vaccino avrebbe scongiurato l’evento.

In altri termini, se il Ministero della sanità avesse proibito – per la ricorrenza di precise controindicazioni tale forma di vaccinazione, l’evento non si sarebbe verificato.

Dunque, la condotta omissiva del Ministero, che non ha proibito tale somministrazione (ma può dubitarsi che si tratti di condotta omissiva e non attiva: invero, a rigore, la condotta causale è la somministrazione del vaccino, disposta dal Ministero della Salute) è stato un antecedente causale dell’evento.

La seconda informazione – trascurata dalla sentenza impugnata – è che, già all’epoca, era conosciuta la pericolosità di tale vaccino, e vi erano statistiche accreditate sui gravi effetti collaterali che esso poteva provocare.

E’ chiaro, allora, che la sentenza impugnata ha omesso di valutare punti decisivi della controversia così determinabili: a) se all’epoca della somministrazione era conosciuta o conoscibile – secondo le migliori cognizioni scientifiche disponibili – la pericolosità del vaccino; b) se alla stregua di tali conoscenze, il rispetto del fondamentale principio di precauzione imponesse di vietare tale tipo di vaccinazione, o di consentirla con rigorose modalità tali da minimizzare i rischi ad essa connessi.

L’eventuale esito favorevole delle indagini che il giudice del rinvio andrà a compiere, e di cui ai punti a) e b) indicati, costituirà, poi, il presupposto per la riconoscibilità agli odierni ricorrenti – ricorrendone le condizioni probatorie, di natura anche presuntiva – del danno lamentato (Sez. Un. 11 novembre 2008, n. 26972 punti 4.8 e 4.9).

3. Ricorso incidentale condizionato.

L’accoglimento del ricorso principale, nei termini indicati, impone l’esame di quello incidentale condizionato.

3.1. Con il primo motivo il ricorrente incidentale condizionato denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. Il motivo non è fondato.

In primo luogo, deve sottolinearsi che l’esame del motivo appare irrilevante alla luce delle conclusioni raggiunte in ordine alla ricorrenza, nel caso in esame, della fattispecie disciplinata dall’art. 2043 c.c. e non dall’art. 2050 c.c..

Una volta, infatti, escluso che si tratti di attività pericolosa – come peraltro riconosciuto anche dalla Corte di merito – stabilire la tardività o meno della domanda ex art. 2050 c.c. perchè proposta soltanto in appello – a fronte di quella ex art. 2043 c.c. introduttiva del primo giudizio – e la conseguente omissione di pronuncia, da parte della Corte di merito, sulla relativa eccezione sollevata dal Ministero in quel grado di giudizio – non produrrebbe alcun effetto favorevole per il proponente.

L’eventuale affermazione di correttezza della tesi sostenuta, infatti, – alla luce delle conclusioni raggiunte dalla Corte di legittimità in precedenza, in ordine alla sussistenza di un’ipotesi riconducibile alla generale responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. – non sortirebbe alcuna ricaduta sull’iter processuale, privando la parte dell’utilità degli eventuali risultati favorevoli.

La Corte di merito sul punto così si è espressa: “Indipendentemente dalle pur possibili discussioni sulla novità della domanda ove fondata sull’art. 2050 c.c. piuttosto che semplicemente sull’art. 2043 c.c. (l’eccezione è stata puntualmente svolta dall’Avvocatura), è opinione della Corte che l’attività della Pubblica Amministrazione volta all’esecuzione delle disposizioni di legge sulla vaccinazione obbligatoria non possa essere inserita tra le attività pericolose ex art. 2050 c.c.”.

Ed ha, quindi, accolto l’appello del Ministero ritenendo che ” gli attori hanno provato il fatto della vaccinazione e la sua efficienza causale rispetto al fatto dannoso delle lesioni, ma non hanno provato la colpa”; con ciò qualificando, evidentemente, l’azione quale extracontrattuale derivante dalla clausola generale di cui all’art. 2043 c.c. non riconoscendone, però, la fondatezza – diversamente dal primo giudice – per difetto di prova con riferimento all’elemento soggettivo della colpa.

Fondatezza della domanda – in termini di violazione dell’art. 2043 c.c. – affermata, invece, in questa sede di legittimità.

3.2. Con il secondo motivo il Ministero denuncia la motivazione omessa ovvero insufficiente su un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti nonchè rilevabile d’ufficio (art. 360 c.p.c., n. 5).

Il motivo non è fondato.

La Corte di merito ha rigettato l’appello sul punto della individuazione della domanda proposta dagli attuali ricorrenti principali nel giudizio di primo grado così motivando: ” …

effettivamente gli attori esordirono in giudizio chiedendo espressamente il risarcimento del danno per lesione del diritto alla salute ex art. 2043 c.c.”; proseguendo “Del resto, altro non avrebbero potuto chiedere, posto che all’epoca non era stata ancora promulgata la L. n. 210 del 1992 con la quale fu stabilito il diritto all’indennizzo per coloro che avevano riportato lesioni a seguito di vaccinazioni antipolio”.

Ed ha puntualizzato “Nel corso del giudizio di primo grado non c’è mai stato alcun esplicito aggiustamento o riconsiderazione delle conclusioni prese nell’atto di citazione, e quindi non ha violato l’art. 112 c.p.c. il primo giudice che si è pronunciato sulla pretesa risarcitoria”; concludendo “Infine, nessuna incidenza sembra avere portato nè sull’ammissibilità della domanda, nè sui presupposti per il suo accoglimento, la sopravvenienza della normativa speciale sull’indennizzo”.

Il ricorrente incidentale condizionato contesta, invece, che gli attuali ricorrenti principali avrebbero inizialmente proposto domanda di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c. per poi limitarla, all’udienza del 28.11.1991 (e non 29.11.1991 come erroneamente riportato), a quella esclusivamente diretta ad ottenere l’indennizzo introdotto con la L. n. 210 del 1992; e su tale punto, evidenziato come essenziale ai fini della decisione, la Corte di merito sarebbe incorsa in un vizio di motivazione.

Il rilievo è destituito di fondamento per un duplice ordine di ragioni.

Il ricorrente incidentale condizionato contesta un’omessa od insufficiente motivazione in ordine al punto decisivo prospettato dall’appellante Ministero o rilevabile d’ufficio.

Nessuno dei vizi contestati sussiste.

La lettura del verbale di udienza, in cui sarebbe stata limitata la domanda, non è, neppure, riportato in ricorso; con ciò violando il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione.

Ma, quel che è più rilevante è che la Corte di merito, nella qualificazione della domanda – che spetta al giudice del merito -, non è incorsa in alcun vizio, motivando correttamente in ordine alla persistenza della domanda di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c.; con ciò, ovviamente, interpretando implicitamente il tenore del verbale del 28.11.1991 e pervenendo ad escludere l’abbandono o la limitazione dell’originaria domanda di risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c.; non dando, a tale fine, alcuna rilevanza preclusiva all’eventuale puntualizzazione, in ordine ad un fatto sopravvenuto (L. n. 210 del 1992), che nulla toglie – ma anzi si aggiunge – all’originaria domanda.

Conclusivamente, vanno rigettati il primo e secondo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale condizionato.

Va accolto, invece, il terzo motivo del ricorso principale.

La sentenza va cassata in relazione al motivo accolto, e la causa va rinviata alla Corte d’Appello di Perugia in diversa composizione.

Le spese vanno rimesse al giudice del rinvio.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il primo e secondo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale condizionato. Accoglie il terzo motivo del ricorso principale. Cassa in relazione e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Perugia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione terza civile della Corte di cassazione, il 4 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2011

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