Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9398 del 04/04/2019

Cassazione civile sez. II, 04/04/2019, (ud. 23/01/2019, dep. 04/04/2019), n.9398

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORRENTI Vincenzo – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6357-2015 proposto da:

T.M., G.P., T.R., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA ANTONELLI 50, presso lo studio

dell’avvocato FRANCESCO CACCIOPPOLI, rappresentati e difesi

dall’avvocato ETTORE FREDA in virtù di procura a margine del

ricorso;

– ricorrenti –

contro

D.C.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI TRASONE

12, presso lo studio dell’avvocato ERCOLE FORGIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato VINCENZO MARRUZZO in virtù di procura a

margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

G.C., C.A., S.N., SO.NI.,

S.F., S.M.R.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 3-76/2014 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 29/01/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23/01/2019 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

viste le conclusioni del Pubblico Ministero nella persona del

Sostituto Procuratore Generale, Dott. PATRONE IGNAZIO, che ha

chiesto il rigetto del ricorso;

Lette le memorie depositate dai ricorrenti.

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO

1. Con atto di citazione del 19/12/1991 D.C.C. e S.G. convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di S. Angelo dei Lombardi T.R., T.M., G.P. e G.B., quali comproprietari (e la sola G.B. quale usufruttuaria) del terreno sul quale era stato escavato un nuovo pozzo, al fine di sentirli condannare ex art. 911 c.c. alla chiusura del pozzo stesso.

Deducevano di essere proprietari di alcuni appezzamenti di terreno in (OMISSIS) e che per la coltivazione dei fondi si avvalevano delle acque estratte da un pozzo ubicato sulla particella n. (OMISSIS) di proprietà della D.C., secondo quanto stabilito nel titolo con il quale era stato disciplinato l’uso delle acque.

Tuttavia nell’agosto del 1990 venne a mancare del tutto la portata della sorgente a causa dell’emungimento e taglio della vena acquifera ad opera di P. e G.B. che avevano realizzato un pozzo all’interno del loro fondo, ubicato nella particella (OMISSIS), senza adottare gli accorgimenti necessari.

Resistevano i convenuti che deducevano che, allorquando avevano acquistato il loro fondo, avevano anche acquisito il diritto a beneficiare per due giornate e mezzo settimanali dell’acqua di irrigazione e del sussidio giornaliero per uso potabile e domestico, dell’acqua proveniente dalla sorgente ubicata nel terreno del venditore; questi adducevano altresì che, a causa delle precarie condizioni igieniche in cui versava il pozzo dell’attrice, erano stati costretti a crearne uno autonomo e che la carenza di acqua era stata solo temporanea, a causa del pompaggio forzato necessario allo spurgo del nuovo pozzo. Inoltre il depauperamento delle acque del pozzo originario era dovuto anche alla siccità ed all’attingimento straordinario da parte della D.C., ma che una volta cessate tale situazioni, il flusso di acqua era ritornato alla normalità.

Il Tribunale adito con la sentenza n. 55 del 24 gennaio 2007 rigettava la domanda, in quanto riteneva che gli attori non avessero fornito la prova che l’apertura del nuovo pozzo avesse portato ad una sensibile e definitiva diminuzione della portata della sorgente.

A seguito di impugnazione della D.C., la Corte d’Appello di Napoli con la sentenza n. 367 del 29 gennaio 2014 ha accolto l’appello condannando gli appellati alla chiusura del pozzo costruito nella loro proprietà, rigettando tuttavia la domanda risarcitoria.

Rilevava la Corte distrettuale che dalle indagini peritali era emerso che effettivamente il nuovo pozzo si serviva della stessa sorgente che alimenta il pozzo preesistente.

Dai titoli versati in atti risultava poi che tutte le parti, aventi causa da un unico originario proprietario, avevano per titolo il diritto di attingere acqua dal pozzo più antico, secondo una disciplina che assicuri giornalmente l’acqua per fini domestici, e per determinati giorni quella per finalità irrigue.

Il Tribunale pur ritenendo applicabile alla fattispecie la previsione di cui all’art. 911 c.c., che accorda tutela all’utilizzazione cronologicamente prioritaria, così che è dato intervenire sulla vena acquifera solo se ciò non rechi nocumento ai precedenti utenti, aveva però ritenuto che non fosse stata raggiunta la prova di tale nocumento.

Secondo la sentenza d’appello occorreva però considerare l’incidenza nella vicenda della novella di cui alla L. n. 36 del 1994, quasi integralmente abrogata dal successivo D.Lgs. n. 152 del 2006, il cui art. 144 (riprendendo però quanto già innovativamente disposto dalla L. n. 36 del 1994) dispone che tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorchè non estratte dal suolo, appartengono al demanio dello Stato, essendo una risorsa che deve essere tutelata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà, al fine di assicurare la salvaguardia delle aspettative anche delle generazioni future.

Inoltre la disciplina degli usi delle acque è ispirata alla loro razionalizzazione, allo scopo di evitare gli sprechi e di favorire il rinnovo delle risorse.

In tale mutata prospettiva normativa, la norma di cui all’art. 909 c.c., che attribuisce al proprietario del suolo il diritto di utilizzare le acque esistenti, deve essere intesa come limitata al solo utilizzo delle acque raccolte in invasi o cisterne, che pur appartenendo al demanio pubblico, sono però suscettibili di libero uso da parte dei privati.

Le acque sotterranee possono ancora essere utilizzate dai privati, ma tale utilizzo deve ispirarsi al massimo al rispetto dei principi di solidarietà e di risparmio delle risorse idriche.

In tale ottica la condotta dei convenuti doveva reputarsi illegittima.

A monte, l’uso delle acque sorgive era stato disciplinato in maniera tale da soddisfare le esigenze del vari proprietari in base ad una apposita turnazione che includeva anche i convenuti.

Come emergeva dalla CTU, il nuovo pozzo captava circa un terzo dell’acqua emunta dalla sorgente, con la conseguenza che, non essendo stato contestato che il criterio di turnazione risultava idoneo a soddisfare le esigenze del fondo dei convenuti (che si erano determinati all’apertura del nuovo pozzo solo a causa delle condizioni igieniche in cui versava il vecchio pozzo), la condotta dei convenuti era in contrasto con i principi posti dalla vigente legislazione.

Questi ultimi, infatti, oltre a non avere rinunciato ai diritti derivanti dal loro titolo di provenienza, hanno fatto in modo da attingere acqua dalla medesima sorgente senza più alcun controllo, fruendo in tal modo di un quantitativo di acqua del tutto esorbitante rispetto alle esigenze della loro proprietà (esigenze che anche la vecchia turnazione non pregiudicava) danneggiando al contempo gli altri fruitori della sorgente che ora vengono a godere di un quantitativo di acqua inferiore rispetto a quello prima assicurato secondo la turnazione pattiziamente concordata.

La decisione di appello disponeva quindi la chiusura del nuovo pozzo, rigettando però la correlata domanda risarcitoria mancando la prova dei concreti danni patiti dalla D.C..

Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso G.P., T.M. e T.R. articolato in due motivi. D.C.C. ha resistito con controricorso.

Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva in questa fase.

2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 11 preleggi, nonchè dell’art. 909 c.c. e del R.D. n. 1775 del 1933, art. 1.

Deduce parte ricorrente che la decisione dei giudici di appello si fonda sul presupposto che a seguito della novella di cui alla L. n. 36 del 1994, sostanzialmente confermata dal D.Lgs. n. 152 del 2006, le esigenze di solidarietà e di economia cui è ispirata la normativa impongono di ravvisare un’illegittimità nella condotta dei convenuti.

Pur dandosi atto della generale pubblicità delle acque quale effetto scaturente dagli interventi normativi succedutisi nel tempo, si evidenzia che il carattere demaniale oggi previsto per le acque non può operare anche in via retroattiva.

Ne deriva che, stante il mancato inserimento delle acque oggetto di causa tra quelle pubbliche, in base al regime anteriore alla riforma del 1994, dovrebbe trovare ancora applicazione il disposto di cui all’art. 909 c.c. che autorizza il proprietario del suolo all’utilizzo delle acque in esso esistenti.

Il motivo è infondato.

La controversia verte sull’applicazione dell’art. 911 c.c. che appunto disciplina l’ipotesi di apertura di nuove sorgenti e altre opere, al fine, per quanto qui interessa, di estrarre acque dal sottosuolo, prevedendo il legislatore la necessità, oltre che del rispetto delle distanze di cui all’art. 891 c.c., anche dell’esecuzione delle opere che siano necessarie per non recare pregiudizio alle sorgenti ovvero ai fondi altrui.

Tale norma è stata costantemente intesa dalla giurisprudenza di questa Corte nel senso che chi esegue opere per estrarre acque dal sottosuolo, oltre a rispettare la distanza di cui all’art. 889 c.c., deve osservare il dettato della norma di cui all’art. 911 c.c., la quale è diretta a tutelare il proprietario del fondo che già usi delle acque (non pubbliche) di falda, accordando protezione all’utilizzazione cronologicamente prioritaria che quello ne abbia fatto, mediante il divieto, imposto al proprietario del fondo vicino, di eseguire opere che determinino l’emungimento o la recisione della vena acquifera oggetto dello sfruttamento già in atto. Nel caso in cui l’opera del vicino insisti sulla medesima vena, la stessa non deve recare nocumento al precedente utente, ossia in quanto, per l’abbondanza dell’acqua di falda rispetto all’utilizzazione fattane dal medesimo, non arrechi pericolo di limitarla o di comprometterla (così Cass. n. 6928/1995; Cass. n. 7469/1997).

Anche nell’ottica della natura privata delle acque sottostanti fondi privati, si era poi precisato che dava luogo a danno ingiusto l’emungimento di una vena idrica che alimentava un pozzo, per effetto dell’escavazione di altro pozzo in un fondo vicino, eseguita senza l’osservanza delle cautele e distanze necessarie per evitarlo, ancorchè il quantitativo superstite di acqua a disposizione di chi abbia subito l’emungimento raggiunga o, addirittura, ecceda quello di cui l’autorità amministrativa abbia contingentemente assentito l’eduzione e l’utilizzazione (cfr. Cass. n. 1219/1975).

La sentenza impugnata, facendo richiamo anche alla specifica disciplina convenzionale, in base alla quale i danti causa dei contendenti avevano inteso regolamentare le modalità di utilizzo turnarlo dell’acqua a fini irrigui, ed evidenziando che la creazione del pozzo da parte dei convenuti, che attingeva acqua dalla medesima sorgente che alimentava il pozzo preesistente, aveva determinato un prelievo di acqua da parte dei convenuti eccedente quanto in proporzione sarebbe spettato in base alla originaria convenzione (ai cui diritti peraltro gli stessi convenuti non avevano inteso rinunciare, malgrado la nuova opera), ha corroborato la valutazione di contrarietà della condotta dei convenuti al disposto di cui all’art. 911 c.c., facendo richiamo alla novità introdotta dalla L. n. 36 del 1994 e dal successivo D.Lgs. n. 152 del 2006, che impone di leggere, alla luce della trasformazione in demaniali di tutte le acque sotterranee, la norma valutando il pregiudizio arrecato alle sorgenti, come appunto recita l’art. 911 c.c., nel senso che debbano anzi tutto preservarsi i principi di solidarietà e di risparmio delle risorse idriche.

Ne derivava quindi che le opere realizzate dai convenuti, in assenza dell’allegazione di un’inidoneità della preesistente turnazione a garantire il soddisfacimento delle esigenze del fondo dei convenuti, portavano ad un prelievo di acqua eccedente rispetto a quanto, secondo gli accordi presi in passato, era in grado di salvaguardare le esigenze agricole del fondo, con la contemporanea riduzione della quantità di acqua che gli altri fondi avrebbero potuto trarre dalla sorgente.

La censura di parte ricorrente mira essenzialmente a contestare il presupposto da cui parte la sentenza gravata circa la natura ormai pubblica anche della sorgente oggetto di causa, ma trascura di sottoporre ad adeguata critica anche le ulteriori considerazioni mosse in sentenza che, partendo proprio dalla disciplina pattizia, adottata dalle parti quando ancora era pacifica la natura privata della sorgente, hanno evidenziato come la riduzione della portata della sorgente per la parte rimasta a servizio degli altri fondi, concretasse quel pregiudizio che l’art. 911 c.c. mira a prevenire.

Ma anche avuto riguardo alla sola questione concernente l’incidenza sul regime giuridico delle acque della disciplina sopravvenuta, la critica dei ricorrenti è da disattendere.

Non ignora il Collegio come, anche a seguito dell’entrata in vigore della L. n. 36 del 1994, alcune pronunce di questa Corte abbiano optato per la tesi secondo cui la natura di acqua pubblica non poteva essere riconosciuta ad ogni tipo di acqua, bensì solo a quelle che avessero attitudine ad usi di pubblico generale interesse (così Cass. n. 9331/2011).

Tuttavia si ritiene di dover dare continuità a quanto autorevolmente affermato dalla Sezioni Unite che nella sentenza n. 18215/2015 hanno chiarito che tutte le acque superficiali e sotterranee sono pubbliche ai sensi della L. n. 36 del 1994, art. 1 sicchè, tranne particolari categorie oggetto di disciplina speciale, esse rientrano nel demanio idrico e sono incommerciabili, a prescindere dalla loro attitudine a soddisfare un pubblico interesse.

Poichè l’art. 1 di tale legge espressamente dispone che: “Tutte le acque superficiali sotterranee, ancorchè non estratte dal sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa che è salvaguardata e utilizzata secondo criteri di solidarietà”, non è quindi più rilevante, ai fini della pubblicità di tali beni, una ricerca sull’esistenza della loro attitudine a soddisfare un pubblico interesse.

Tutte le acque, quindi per essere state espressamente dichiarate pubbliche, sono ricomprese tra i beni appartenenti allo Stato e facenti parte del pubblico demanio.

La distinzione tra acque pubbliche e private che prima della legge in questione, si fondava su di un giudizio sul pubblico uso al quale esse erano singolarmente destinate viene ormai meno. Mentre ai sensi del testo unico sulle acque del 1933 la riserva derivava dal controllo dei requisiti di idoneità al soddisfacimento del pubblico interesse, e da una valutazione della pubblica amministrazione, la nuova normativa disciplina una riserva che discende direttamente dalla legge, senza che sia necessario procedere alla verifica della sussistenza di ulteriori requisiti.

Trattasi di conclusione che va ribadita anche alla luce dell’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale (10 luglio 1996, n. 259) che, nell’escludere profili di illegittimità della nuova normativa in tema di acque rilevò che “la pubblicità delle acque ha riguardo al regime dell’uso di un bene divenuto limitato, come risorsa comune, mentre il regime (pubblico o privato) della proprietà del suolo in cui esso è contenuto diviene indifferente… potendo formare oggetto di una questione di legittimità costituzionale solo in presenza di acquisizione coattiva di manufatti ed opere o terreni necessari per la captazione o l’utilizzo”.

Il riconoscimento della natura pubblica delle acque risulta quindi fondamentale per il raggiungimento dei fini perseguiti mediante l’art. 117 Cost., ponendo in essere “come scelta non irragionevole operata dal legislatore, un modo di attuazione e salvaguardia di uno dei valori fondamentali dell’uomo”.

Alla luce di tali considerazioni deve pertanto reputarsi priva di fondamento la doglianza mossa dai ricorrenti, essendo invece confermata, alla luce dei precedenti sopra menzionati, la correttezza della soluzione raggiunta dalla Corte distrettuale circa la natura ormai pubblica anche della sorgente oggetto di causa.

3. Il secondo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 167, u.c. (già L. n. 36 del 1994, art. 28), nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.

Si evidenzia che in base al menzionato art. 167, l’utilizzo delle acque sotterranee per usi domestici, quali definiti dal testo unico di cui al R.D. n. 1775 del 1933, art. 93, comma 2 resta disciplinato dalla medesima disposizione, purchè non comprometta l’equilibrio del bilancio idrico di cui all’art. 145 cit. D.Lgs..

L’art. 93 in questione prevede la facoltà per il proprietario di poter estrarre ed utilizzare liberamente, anche con mezzi meccanici, le acque sotterranee, dovendosi intendere ricompresi negli usi domestici l’innaffiamento di giardini ed orti inservienti direttamente al proprietario ed alla sua famiglia e l’abbeveraggio del bestiame.

Si evidenzia che all’atto della costituzione in appello i ricorrenti avevano depositato anche il doc. n. 5 (di cui al foliario della produzione di appello) costituito dalla denuncia da parte di G.P. all’amministrazione provinciale della proprietà del pozzo oggetto di causa, con la specificazione dell’utilizzo delle acque per le finalità di cui al menzionato art. 93.

Orbene alla fattispecie resterebbe sempre applicabile il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 167 con la conseguenza che la Corte d’Appello avrebbe omesso la disamina di tale documento che comproverebbe la legittimità della condotta dei ricorrenti.

Anche tale motivo deve essere disatteso.

In primo luogo va rilevato che della questione concernente la possibilità di invocare la previsione di cui al R.D. n. 1775 del 1933, art. 93 non vi è traccia nella sentenza impugnata, dovendosi quindi ritenere che la censura sottoponga alla Corte una questione nuova, risultando come tale inammissibile.

In tal senso si è, infatti, ribadito che una questione giuridica deve ritenersi nuova, e come tale preclusa in sede di legittimità (cfr. Cass. n. 8206/2016), allorchè implichi un accertamento di fatto – e non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata nè indicata nelle conclusioni ivi epigrafate – sicchè il ricorrente che ponga tale questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, deve non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa.

E’ evidente che la questione concernente la pretesa applicazione della norma di cui al citato art. 93 impone accertamenti di fatto, essendo per l’appunto necessario verificare quale fosse la concreta destinazione delle acque estratte dal pozzo realizzato dai convenuti, al fine di riscontrare se la stessa fosse tutta destinata alle finalità previste dalla norma ovvero se il suo utilizzo eccedesse il limite legale (non potendosi attribuire efficacia probatoria privilegiata alla dichiarazione invocata dai ricorrenti, che essendo evidentemente pro se, non può ritenersi che fornisca la dimostrazione della corrispondenza al vero dei fatti ivi affermati).

I ricorrenti, lungi dallo specificare in quale precedente scritto difensivo la questione de qua fosse stata posta in sede di merito, si sono invece limitati semplicemente a richiamare l’esistenza del documento di cui al motivo in esame, la cui sola produzione non comprova la proposizione in sede di merito della questione giuridica individuata in questa sede, ben potendo la prova documentale essere stata versata in atti per diverse finalità probatorie (si pensi al fine di dimostrare l’epoca di realizzazione del pozzo ovvero la conoscenza della sua esistenza da parte della P.A.).

A tali considerazioni che appaiono già idonee a precludere la possibilità di accoglimento della censura, va poi aggiunto che la doglianza appare anche infondata nel merito.

La giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, affermato che il R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, art. 93 riconosce al proprietario del fondo la facoltà di estrarre ed utilizzare liberamente per gli usi domestici le acque sotterranee del suo fondo, ma tale facoltà presuppone che dette acque siano state scoperte e possedute dallo stesso proprietario e non già da un terzo che le utilizzi in via esclusiva da qualche tempo (così Cass. n. 212/1969).

Nella fattispecie la circostanza pacifica che il pozzo realizzato dai convenuti attinga le acque dalla sorgente che era nel possesso dell’originaria parte attrice, sebbene con la previsione di una modalità di utilizzo turnario anche da parte di altri proprietari di fondi limitrofi, denota quindi come risulti preclusa la possibilità di invocare la previsione in oggetto.

A ciò deve altresì aggiungersi che la norma di cui all’art. 93 impone comunque il rispetto delle cautele previste dalla legge tra le quali devono annoverarsi anche quelle dettate dall’art. 911 c.c. circa l’esigenza, sulla scorta sempre dei principi di solidarietà e risparmio, di evitare pregiudizi alla concorrente possibilità di utilizzo da parte degli altri fruitori della vena d’acqua.

4. Il ricorso deve pertanto essere rigettato e le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo nei confronti della controricorrente.

Nulla a provvedere quanto invece agli intimati che non hanno svolto attività difensiva in questa fase.

5. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al rimborso delle spese del presente giudizio in favore della controricorrente, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 23 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2019

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