Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9395 del 12/04/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 12/04/2017, (ud. 25/01/2017, dep.12/04/2017),  n. 9395

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorso 22399/2014 proposto da:

T.A., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA FRANCESCO DENZA 15, presso lo studio dell’avvocato SUSANNA

LOLLINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

GIUSEPPE NIERI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

INGROSS LEVANTE S.P.A., P.I. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA MANCINI 4, presso lo studio dell’avvocato GIAN FRANCO

D’ONOFRIO, rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO LOGRIECO,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 640/2014 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 17/07/2014 R.G.N. 1131/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/01/2017 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito l’Avvocato FRANCESCO LOGRIECO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI Francesca, che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Livorno accoglieva il ricorso proposto da T.A. nei confronti della s.p.a. Ingross Levante – che lo aveva assunto in quanto iscritto negli elenchi degli invalidi ex lege n. 482/68 – inteso a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli in data 5/10/2005 per superamento del periodo di comporto e condannava la società alla reintegra del ricorrente nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno L. n. 300 del 1970, ex art. 18.

Detta pronuncia veniva riformata dalla Corte d’Appello di Firenze che rigettava le domande proposte dal lavoratore e lo condannava alla restituzione delle somme percepite in esecuzione della sentenza di primo grado.

Nel pervenire a tali conclusioni il giudice dell’impugnazione – in estrema sintesi – considerava innanzitutto che il quadro probatorio delineato in prime cure alla luce delle deposizioni testimoniali raccolte, non era univoco quanto alla individuazione delle mansioni espletate dal ricorrente, essendo emerso Io svolgimento di compiti promiscui di magazziniere, in cui il sollevamento di pesi di tipo manuale si alternava a quello eseguito con carrelli.

Richiamava quindi, gli approdi ai quali era pervenuto l’ausiliare medico legale nominato in sede di gravame, da ritenere preferibili rispetto alle conclusioni rassegnate dal CTU nominato in prime cure per il maggiore approfondimento critico della vicenda sottoposta al suo scrutinio, giacchè era risultato accertato: che la patologia da cui era scaturita l’assenza del lavoratore protrattasi dal gennaio all’ottobre 2005, era conseguita al decorso di una pregressa degenerazione retinica; che essa non era riconducibile ad una causa violenta, trattandosi di patologia di origine comune; che gli sforzi fisici quali il sollevamento di pesi anche inferiori ai 15 chilogrammi o la ripetuta movimentazione di carichi connessi alle mansioni di magazziniere per le quali era stato avviato obbligatoriamente al lavoro, non avevano determinato l’aggravamento di una patologia preesistente, considerato il breve periodo di lavoro di circa tre mesi, svolto alle dipendenze della società, prima del manifestarsi della degenerazione retinica.

La cassazione di tale decisione è domandata dal lavoratore sulla base di unico motivo.

Resiste con controricorso la società intimata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con unico articolato motivo si deduce violazione o falsa applicazione della L. n. 69 del 1999, nonchè omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione fra le parti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Si lamenta che la Corte distrettuale non abbia tenuto conto del fatto che l’assunzione era avvenuta mediante i canali preferenziali sanciti dalla legge sul collocamento degli invalidi, dai quali scaturiva l’obbligo di adibire il lavoratore a mansioni compatibili con le proprie condizioni di salute, circostanza quest’ultima, non suffragata dal quadro probatorio delineato in prime cure, da cui era scaturita, per contro, la dimostrazione che gli erano state assegnate mansioni gravose, connesse alla movimentazione manuale di pesi, non compatibili con la patologia retinica da cui era affetto.

2. Ci si duole altresì che la Corte distrettuale abbia fatto esclusivo affidamento sugli esiti della perizia medico legale espletata in sede di gravarne, da ritenersi logicamente contraddittoria in quanto, da un lato, recavano l’accertamento che il quadro morboso da cui era affetto il ricorrente, fosse incompatibile con le mansioni lavorative ascritte; dall’altro, escludevano il riconoscimento di un aggravamento della patologia, in ragione della brevità del periodo di lavoro svolto alle dipendenze della società.

3. Il motivo va disatteso.

Sussistono innanzitutto profili di improcedibilità del motivo giacchè si omette di indicare la collocazione in atti della consulenza medica espletata in grado di appello – della quale peraltro, si riportano solo alcuni stralci – in violazione del principio espresso in questa sede di legittimità, alla cui stregua la parte che intende far valere in sede di legittimità un motivo di ricorso fondato sulle risultanze della consulenza tecnica è tenuta – in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso – anche ad indicare se la relazione cui si fa riferimento sia presente nel fascicolo di ufficio del giudizio di merito (specificando, in tal caso, gli estremi di reperimento della stessa), ovvero a chiarire alla Corte il diverso modo in cui essa possa essere altrimenti individuata, non potendosi affidare al giudice di legittimità il compito di svolgere un’attività di ricerca della relazione, in sede decisoria, senza garanzia del contraddittoria ed in violazione del principio costituzionale di ragionevole durata del processo (vedi Cass. 22/2/2010 n. 4201).

4. Può soggiungersi comunque, anche al di là di ogni considerazione circa le modalità promiscue di denuncia vizio di violazione di legge e di motivazione, che il ricorrente abbia inteso censurare gli approdi ai quali è pervenuto il giudice dell’impugnazione uniformandosi agli esiti della consulenza medico legale espletata in grado di appello, in violazione dei dettami di cui alla L. n. 68 del 1999, secondo cui (vedi art. 10, comma 2) il datore di lavoro non può chiedere al disabile una prestazione non compatibile con la sua minorazione.

La Corte, pur prendendo atto che gli sforzi fisici quali il sollevamento continuativo di pesi ovvero la movimentazione di carichi con mezzi di trasporto manuale, potevano essere incompatibili con le condizioni fisiche in cui versava il T., aveva infatti ritenuto che non si fosse verificato alcun aggravamento della patologia da cui era affetto, anche considerando il breve periodo di adibizione alle mansioni, e la non univocità del quadro probatorio in ordine al contenuto delle mansioni stesse.

Le conclusioni alle quali è addivenuta la Corte distrettuale, non vulnerano i principi affermati da questa Corte secondo cui “nell’ipotesi di rapporto di lavoro con invalido assunto obbligatoriamente ai sensi della L. 12 aprile 1968, n. 482, le assenze dovute a malattie collegate con lo stato di invalidità non possono essere computate nel periodo di comporto, ai fini della conservazione del posto di lavoro ex art. 2110 c.c., se l’invalido sia stato adibito, in violazione della L. n. 482 del 1968, art. 20, a mansioni incompatibili con le sue condizioni di salute, in quanto la impossibilità della prestazione deriva, in tale caso, dalla violazione, da parte del datore di lavoro, dell’obbligo di tutelare l’integrità fisica del lavoratore, il quale è tuttavia gravato dell’onere di provare gli elementi oggettivi della fattispecie, sulla quale si fonda la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, dimostrandone l’inadempimento, nonchè il nesso di causalità tra l’inadempimento stesso, il danno alla salute e le assenze dal lavoro che ne conseguano” (vedi Cass. 23/4/2004 n.7730, Cass. 15/12/1994 n. 10769).

Il percorso motivazionale che ha condotto i giudici del gravame ad escludere un nesso eziologico fra lo stato morboso in cui era versava il lavoratore nel periodo considerato, e lo svolgimento delle mansioni cui era stato adibito, era fondato, invero, sullo scrutinio del materiale probatorio acquisito in giudizio, ritenuto non univoco quanto all’effettivo contenuto delle mansioni svolte (riferite all’espletamento di compiti “promiscui di magazziniere, in cui sollevamenti manuali di pesi si alternavano a movimentazioni eseguite con carrelli”).

Era fondato altresì sulle motivate conclusioni rese dall’ausiliare nominato nei giudizio di appello, il quale – a differenza di quanto dedotto dal ctu nominato in prime cure – aveva rimarcato come in ogni caso, le mansioni ascritte al dipendente, non sarebbero state comunque idonee ad aggravare la patologia retinica da cui era affetto il ricorrente.

Può dunque ritenersi che, nello specifico, il lavoratore non avesse adempiuto all’onere di dimostrare la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, comprovando la adibizione a mansioni incompatibili con il proprio stato di salute e che di tanto abbia dato atto la Corte territoriale, corroborando il proprio assunto con il richiamo alle motivate conclusioni rassegnate dal consulente medico d’ufficio nominato in sede di gravame.

5. Il tessuto argomentativo che innerva l’impugnata sentenza si sottrae, poi, alle doglianze formulate dal ricorrente anche sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Nella interpretazione resa dai recenti arresti delle Sezioni Unite di questa Corte, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi (vedi Cass. S.U. 7/4/2014 n.8053), la disposizione va letta in un’ottica di riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione.

Scompare, quindi, nella condivisibile opinione espressa dalla Corte, il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta quello sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della motivazione, ossia con riferimento a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata.

Il controllo previsto dall’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5), concerne, quindi, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo.

L’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.

Applicando i suddetti principi alla fattispecie qui scrutinata, non può prescindersi dal rilievo che tramite la articolata censura, la parte ricorrente, contravvenendo ai detti principi, sollecita un’inammissibile rivalutazione dei dati istruttori acquisiti in giudizio, esaustivamente esaminati dalla Corte territoriale, auspicandone un’interpretazione a sè più favorevole, non ammissibile nella presente sede di legittimità.

Lungi dal denunciare una totale obliterazione di fatti decisivi che potrebbero condurre ad una diversa soluzione della controversia ovvero una manifesta illogicità nell’attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dai senso comune od ancora un difetto di coerenza tra le ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi, si limita a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito al diverso convincimento soggettivo patrocinato, proponendo un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, sia pure anche per il tramite del vizio di violazione di legge. Tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, non attengono ai possibili vizi rilevanti ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

6. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Infine si dà atto che il ricorrente è stato ammesso al gratuito patrocinio, di guisa che non è tenuto al pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (cfr. Cass. 2/9/2014 n. 18523).

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15%, ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 25 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2017

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