Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9394 del 09/04/2021

Cassazione civile sez. trib., 09/04/2021, (ud. 20/10/2020, dep. 09/04/2021), n.9394

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2507-2014 proposto da:

METAL SIDER SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE REGINA

MARGHERITA 1, presso lo studio dell’avvocato SERGIO TROPEA,

rappresentata e difesa dagli avvocati GIUSEPPE MIRONE, ANTONINO

RECCA;

– ricorrente –

nonchè da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente successivo –

avverso la sentenza n. 311/2012 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di

CATANIA, depositata il 06/12/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

20/10/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI;

lette le conclusioni scritte del pubblico ministero in persona del

sostituto procuratore generale Dott. DE RENZIS LUISA, che ha chiesto

che la Corte di Cassazione accolga il ricorso proposto dall’Agenzia

dell’Entrate e contestualmente respinga il ricorso proposto dalla

Metal Sider spa, conseguenze previste per legge (requisitoria

depositata dal PG per l’adunanza del 25/03/2020 coll. C rinviato

causa covid-19).

 

Fatto

RILEVATO

che:

La Metal Sider s.p.a. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 311/18/2012, depositata il 6 dicembre 2012 dalla Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Catania, che, in parziale accoglimento dell’appello dell’Agenzia delle entrate, ha confermato gli avvisi di accertamento, relativi agli anni d’imposta 2003 e 2004, con i quali, ai fini Ires e Irap, erano stati ripresi a tassazione finanziamenti dei soci considerati fittizzi, annullando per il resto gli atti impositivi, e in particolare annullando la contestazione dell’omessa dichiarazione Iva su operazioni passive del complessivo importo di Euro 8.065.026,88.

Il contenzioso trae origine da una verifica eseguita da militari della GdF sulla società, operante nel settore dei metalli ferrosi. L’Amministrazione finanziaria, condividendo i risultati della verifica, aveva contestato per l’anno 2004 l’omessa contabilizzazione di ricavi, per l’importo di Euro 1.038.380,00, ritenuti occultati come finanziamenti ricevuti dai soci, nonchè l’omessa fatturazione di acquisti di materiale ferroso da soggetti non identificati, con conseguente omessa dichiarazione iva, pari ad Euro 1.613.005,99. Aveva inoltre contestato, con altro atto impositivo relativo all’anno d’imposta 2003, l’omessa contabilizzazione di ricavi dell’importo di Euro 662,550,00, ritenuti sempre occultati sotto forma di finanziamenti dei soci, che l’Ufficio aveva ritenuto fittizi.

La contribuente, che contestava il fondamento degli avvisi di accertamento, aveva adito la Commissione tributaria provinciale di Catania, la quale aveva accolto le ragioni della società con le decisioni nn. 264/8/2009 e 265/8/2009. La Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Catania, sull’appello dell’Amministrazione finanziaria e previa riunione dei ricorsi, con la pronuncia ora al vaglio della Corte aveva confermato la sentenza di primo grado in ordine alle contestazioni di irregolarità ed omessa dichiarazione dell’Iva, e aveva invece riformato la decisione con riguardo all’omessa contabilizzazione di ricavi, riconoscendo la fittizietà dei finanziamenti dei soci alla società.

La sentenza è stata censurata dalla Metal Sider s.p.a. con tre motivi:

con il primo per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per non essersi pronunciata su un punto decisivo della controversia quale l’inammissibilità dell’appello;

con il secondo per violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., D.Lgs. 22 dicembre 1992, n. 546, artt. 57 e 23 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver tenuto conto che l’Ufficio non aveva sollevato alcuna contestazione sulle censure e sui riscontri documentali addotti dalla contribuente avverso gli avvisi di accertamento, sottoponendo invece al giudice d’appello nuove circostanze e fatti inammissibili;

con il terzo per violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver omesso di vagliare le argomentazioni e gli elementi probatori dedotti dalla società.

Ha chiesto pertanto la cassazione della decisione, con ogni consequenziale determinazione.

Con ricorso autonomo, iscritto sotto il medesimo numero di ruolo generale, l’Agenzia delle entrate ha a sua volta censurato la sentenza per quanto soccombente, ossia con riguardo alla omessa fatturazione di acquisti di materiale ferroso, dell’importo di Euro 8.065.029,66, e dunque dell’omesso assolvimento dell’Iva con il meccanismo del reverse charge.

L’Amministrazione finanziaria ha censurato la sentenza con tre motivi:

con il primo per motivazione contraddittoria su un punto decisivo del giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver riconosciuto l’inosservanza del meccanismo del reverse charge, assumendo però che quella condotta non avrebbe integrato alcun illecito sostanziale;

con il secondo per violazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 17,21,25 e art. 74, comma 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver male interpretato la disciplina sul reverse charge e sui meccanismi di adempimento dell’imposta in ipotesi di acquisto di materiale ferroso;

con il terzo per violazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 6, comma 9-bis in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e in ogni caso per difetto di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere escluso l’applicazione della sanzione nell’ipotesi di errata applicazione dell’inversione contabile.

Ha chiesto dunque la cassazione della sentenza.

Nessuna delle parti ha depositato controricorso a fronte del ricorso altrui.

Nell’adunanza camerale del 20 ottobre 2020 la causa è stata discussa e decisa.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Nell’ordine deve esaminarsi il ricorso della contribuente.

Con il primo motivo la società si duole di un error in procedendo del giudice d’appello per l’omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia quale l’inammissibilità dell’appello introdotto dall’Agenzia delle entrate. La ricorrente afferma che il gravame proposto dall’Ufficio era basato su motivi di doglianza e su eccezioni afferenti elementi difensivi della contribuente mai contestati in primo grado, e dunque su motivi inammissibili ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57 in sede d’appello.

Il motivo, quando voglia escludersene l’inammissibilità, è infondato. Quando la decisione d’appello sia censurata sotto il profilo del vizio processuale, sebbene al giudice di legittimità venga riconosciuto l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, resta comunque fermo il presupposto della preventiva valutazione di ammissibilità del motivo di censura. A tal fine il ricorrente non è infatti dispensato dall’onere di specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso (Cass., 20/09/2006, n. 20405; 16/10/2007, n. 21621; 29/09/2017, n. 22880). Nel caso di specie la ricorrente ha denunciato che l’Agenzia non avesse mosso alcuna specifica censura alle ragioni e allegazioni documentali della società nel giudizio di primo grado, per poi articolare l’appello con censure mai prima formulate. Tutto ciò è tuttavia riferito con assoluta genericità, senza indentificare neppure una sola difesa o un solo documento tra quelli mai censurati in primo grado dall’Amministrazione, nè specificare quali siano state le censure articolate in appello dall’Ufficio viziate dal carattere della novità. Manca dunque ogni riferimento concreto a dati che consentano a questo collegio di esaminare la doglianza.

In ogni caso il motivo è infondato, perchè secondo consolidato orientamento di questa Corte il mancato esame del giudice, pur sollecitatone dalla parte, di questione puramente processuale non può dar luogo al vizio di omessa pronunzia, il quale è configurabile con riferimento al solo mancato esame di questioni di merito, sicchè non può assurgere a causa autonoma di nullità della sentenza (cfr. Cass., 28/03/2014, n. 7406; 11/10/2018, n. 25154; 15/04/2019, n. 10422). Nel caso di specie il motivo denunciava l’inammissibilità dell’appello per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, ossia una questione prettamente processuale. Ebbene, la sola circostanza che il giudice regionale abbia esaminato il merito della vicenda, valorizzando gli elementi comunque illustrati dall’Ufficio negli atti impositivi, rende anche implicito il rigetto di ogni questione afferente a vizi processuali.

Infondato, quando non inammissibile, è anche il secondo motivo, con il quale la società lamenta i medesimi fatti afferenti il primo motivo, ma sotto il profilo dell’error iuris in iudicando, quale violazione dell’art. 115 c.p.c. Sostiene infatti che in sentenza il giudice regionale non avrebbe tenuto conto che l’Ufficio non aveva sollevato alcuna contestazione sulle censure e sui riscontri documentali addotti dalla contribuente avverso gli avvisi di accertamento, sottoponendo invece al giudice d’appello nuove circostanze e fatti inammissibili.

Anche in questo caso il motivo manca di autosufficienza, per la sua genericità, non comprendendosi a cosa ci si riferisca in modo specifico.

Deve in ogni caso avvertirsi che la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che il principio di non contestazione, pur operando anche nel processo tributario, va tuttavia coordinato con quello, correlato alla specialità del contenzioso, secondo cui la mancata specifica presa di posizione dell’Ufficio sui motivi di opposizione alla pretesa impositiva, svolti dal contribuente, non equivale ad ammissione dei fatti posti a fondamento di essi, nè determina il restringimento del thema decidendum ai soli motivi contestati (cfr. Cass., 13/03/2019, n. 7127). E d’altronde l’applicabilità del principio di non contestazione al processo tributario, attesa (‘indisponibilità dei diritti controversi, riguarda esclusivamente i profili probatori del fatto non contestato, e semprechè il giudice, in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo, non ritenga di escluderne l’esistenza (Cass., 18/05/2018, n. 12287).

Ebbene, nella fattispecie ora all’esame della Corte il giudice regionale, dopo aver chiarito che “l’indagine deve essere condotta esclusivamente sulla base degli avvisi di accertamento”, afferma che “quanto ai dedotti finanziamenti dei soci, la censura dell’Amministrazione è pertinente secondo la doverosa coordinazione dei seguenti elementi obiettivi”. A questo punto nella sentenza sono elencati gli elementi apprezzati dal giudice d’appello, che evidentemente sono tratti dal contenuto dei medesimi atti impositivi (totale assenza di indicazioni sulle condizioni di rimborso; finanziamenti eseguiti sempre in contanti; assenza di elementi da cui risultino le esigenze di liquidità; corrispondenza tra i finanziamenti e le operazioni commerciali con terzi; mancanza di prova di effettività dei finanziamenti). Quindi il giudice d’appello conclude che “ne risulta un quadro di elementi obiettivi e concreti che integra presunzione ex art. 2729 c.c.”. Alla luce di queste argomentazioni, e dovendo logicamente constatare che gli elementi su cui la decisione è fondata sono quelli già evidenziati negli avvisi di accertamento, risulta quasi incomprensibile la critica articolata dalla difesa della contribuente e la denuncia del carattere di novità (probatoria, di argomentazioni giuridiche?) dell’atto d’appello della Agenzia delle entrate. Il motivo è pertanto infondato.

Le ragioni appena esposte consentono infine di rigettare anche il terzo motivo, con il quale la società si è doluta della violazione dell’art. 116 c.p.c., denunciando, quale vizio processuale, la circostanza che, pur avendo specificato il giudice regionale che l’indagine dovesse condursi sulla sola base degli avvisi di accertamento, l’Ufficio abbia continuato a richiamare in esso il processo verbale di constatazione, che invece, non era stato allegato nel giudizio.

Sennonchè, per un verso il contenuto della sentenza sgombra il campo da ogni dubbio sugli elementi apprezzati dal giudice d’appello, con evidenza desunti dal contenuto degli avvisi di accertamento, che ben potevano riportare stralci o elementi acquisiti dal processo verbale di constatazione. Sotto altro aspetto, quando la difesa lamenta l’omessa considerazione degli elementi probatori dedotti dalla società ricorrente, non solo il motivo è ancora una volta generico, così sfiorando l’inammissibilità, ma tenta di portare la critica sul binario dell’inadeguata motivazione della sentenza, senza tener conto che al giudice di legittimità è inibita una rivalutazione nel merito della vicenda. Per mera completezza, si rileva che le parti in cui la sentenza ha riportato stralci del processo verbale di constatazione sono quelle afferenti l’accoglimento del ricorso della contribuente, sul reverse charge. Anche questo motivo va dunque rigettato.

In conclusione il ricorso della società va rigettato.

Esaminando ora il ricorso dell’Agenzia delle entrate, è inammissibile il primo motivo, con il quale ci si duole del vizio di motivazione della decisione, per aver contraddittoriamente riconosciuto l’omessa osservanza dei meccanismo del reverse charge, assumendo però che quella condotta non avrebbe integrato alcun illecito sostanziale.

Occorre premettere che la sentenza è stata depositata il 6 dicembre 2012, ossia nella vigenza dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv., con modif., dalla L 7 agosto 2012, n. 134. Con esso non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure per contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità su di essa resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (cfr. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053; 20/11/2015, n. 23828; 12/10/2017, n. 23940). Nel caso di specie la critica esula dallo stretto binario del vizio motivazionale.

E’ invece fondato il secondo motivo. Con esso l’Ufficio si duole dell’errore di diritto in cui è incorso il giudice d’appello nella interpretazione della disciplina sul reverse charge e sui meccanismi di adempimento dell’imposta in ipotesi di acquisto di materiale ferroso.

Sul punto nella pronuncia si riporta uno stralcio del processo verbale di constatazione, nel quale sono illustrate le ragioni delle contestate violazioni della disciplina. Si fa riferimento, in particolare, alla circostanza che gli acquisti di rottame ferroso risultano da buoni di acquisto riportanti il prezzo, la natura e la quantità del materiale ferroso, con la dicitura che gli acquisti sono eseguiti da soggetti privati non identificabili e il pagamento avviene solo in contanti; si evidenzia che per il rilevante quantitativo di acquisti debba escludersi che siano effettuati presso privati, dovendo invece ritenersi che si tratti di soggetti passivi d’imposta e che dunque le operazioni siano state eseguite in violazione agli obblighi di fatturazione; si avverte che in ogni caso la società aveva l’obbligo di regolarizzazione dell’acquisto senza fattura, D.Lgs. n. 471 del 1997, ex art. 6, comma 8, e che, attesa la disciplina del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 74 il cessionario aveva l’obbligo del pagamento dell’imposta. Conclusa la riproduzione dello stralcio del pvc, il giudice d’appello, dopo aver descritto la funzione del reverse charge ed aver rammentato che il debitore dell’imposta è il “cessionario/committente/utilizzatore” conclude evidenziando che “l’Appellante da un lato non ha contestato alla società alcuna violazione, di natura necessariamente formale; dall’altro lato postula un fatto di evasione in termini confusi e incomprensibili, oltre che contrastante con la valutazione della G.d.F. Invero, l’inapplicabilità dell’inversione contabile comporterebbe la coincidenza fra soggetto passivo dell’imposta (che è sempre il cedente o prestatore) e il debitore della stessa, ma ciò non integra alcun illecito sostanziale”.

Occorre allora verificare se il ragionamento e le conclusioni cui il giudice regionale perviene siano coerenti con i parametri interpretativi della disciplina sul reverse charge, e in particolare con riferimento alla sua applicazione al commercio di materiale ferroso, previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 74, commi 7 e 8.

Sebbene con alcuni distinguo, in generale la giurisprudenza di questa Corte ha avvertito che nel sistema dell’inversione contabile denominato “reverse charge”, gli obblighi per le operazioni soggette ad IVA di cessione di beni e prestazioni di servizi rese, nel territorio dello Stato, da soggetti residenti all’estero privi di stabile organizzazione in Italia e di rappresentante fiscale ai fini IVA, in favore di soggetti residenti nello Stato, incombono sui cessionari o i committenti (che non siano consumatori finali), i quali, quindi, sono tenuti alla cosiddetta autofatturazione (o, ricorrendone i presupposti, alla numerazione e all’integrazione della fattura ricevuta dal fornitore estero senza l’indicazione dell’IVA) ed alla relativa annotazione sul libro delle fatture emesse, che vale come assunzione dell’obbligo di imposta da parte del cessionario, neutralizzata dall’annotazione nel registro degli acquisti, cui corrisponde il diritto del medesimo cessionario alla detrazione del corrispondente importo. Ne deriva che le predette registrazioni, anche nel caso di reverse charge, assolvono una funzione sostanziale, in quanto, compensandosi a vicenda, con l’assunzione del debito avente ad oggetto l’IVA a monte e la successiva detrazione dell’IVA a valle, comportano che non permanga alcun debito nei confronti dell’Amministrazione, e consentono i controlli e gli accertamenti fiscali sulle cessioni successive. Ne consegue inoltre che l’Amministrazione finanziaria, ove accerti l’omessa registrazione e fatturazione, in qualunque forma idonea, da parte del committente, delle predette prestazioni, può recuperare l’IVA evasa, non compensabile “ex post” quando il diritto alla detrazione sia esercitato tardivamente (Cass., 23/10/2013, n. 24022. Nella sentenza era stata accertata la circostanza che le operazioni intracomunitarie in questione non erano state fatturate dal cedente nè erano state autofatturate dal cessionario -con la numerazione e l’integrazione della fattura eventualmente emessa dal cedente- e non erano state neppure registrate).

L’arresto del 2013 afferma espressamente che gli adempimenti del cessionario (o del committente), che non sia il consumatore finale, in ordine alla autofatturazione o alla integrazione della fattura ricevuta dal cedente, così come gli obblighi di registrazione, assumono una valenza non formale, ma sostanziale non solo ai fini dell’assunzione del debito Iva e dell’obbligo di versamento del tributo allo Stato, ma anche, e soprattutto, per l’emersione del diritto alla detrazione (e conseguentemente alla compensazione con il debito Iva). La costruzione di un sistema che prevede l’autofatturazione o l’integrazione della fattura, nonchè le registrazioni, apparentemente formale, assume invece valenza sostanziale proprio al fine di assicurare le condizioni, concrete, che attribuiscano effettività al principio di neutralità, cui si informa il sistema dell’Iva per i partecipanti alla catena produttiva o di fornitura del bene sino al consumatore finale, vero e unico soggetto passivo dell’imposta. Quegli adempimenti infatti, prescritti dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 17, commi 1, 2 e 3 e, a monte, con riferimento al diritto unionale, dalle norme della sesta direttiva CE (77/388/CEE ratione temporis vigente, ora sostituita dalla direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 ed in vigore dall’1 gennaio 2007, che tuttavia nulla ha modificato nella sostanza della disciplina già vigente) che presidiano la regolamentazione degli adempimenti fiscali degli operatori economici (artt. 17, 18, 19, 21 e 22 della sesta direttiva; ora artt. 167, 168 da 178 a 181, da 244 a 252), costituiscono il presupposto per l’attuazione del principio di neutralità fiscale, emergente nel rapporto “obbligo di versamento/diritto alla detrazione del corrispondente importo”. E alla “linearità” del sistema partecipano gli obblighi di registrazione e annotazione previsti dal D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 23 e 25.

Tale orientamento, confermato poi in successive pronunce (tra le varie cfr. Cass., 19/05/2017, n. 12649), non è stato sempre univoco, sebbene non per contrapposizioni nette ma per alcuni distinguo. Si è in particolare manifestata una interpretazione che distingue l’ipotesi in cui gli inadempimenti formali non incidono sul riconoscimento del diritto alla detrazione, quando comunque risultino soddisfatti gli obblighi sostanziali di assunzione del relativo debito, da quella in cui ciò non si renda possibile. Così si è affermato che nel sistema dell’inversione contabile – ove il destinatario di una cessione di beni o prestazione di servizi, se soggetto passivo nel territorio dello Stato, è tenuto all’assolvimento della stessa in luogo del cedente o prestatore non residenti in territorio UE, non dotati di un rappresentante residente in uno Stato membro, nè muniti di stabile organizzazione – il contribuente, committente di un servizio, che non abbia proceduto all’autofatturazione ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 17, comma 3, (nel testo, applicabile ratione temporis, vigente nel 1999), non perde il diritto alla detrazione, pur incorrendo nell’applicazione delle sanzioni amministrative previste per tale omissione, se, come sancito dalla sentenza della Corte di Giustizia CE dell’8 maggio 2008, in cause riunite C-95/07 e C-RGN 2507/2014 96/07, siano stati comunque soddisfatti gli obblighi sostanziali di assunzione del relativo debito, attesa la salvaguardia del principio di neutralità fiscale (Cass., 03/04/2013, n. 8038). E, ancora, che con riferimento agli acquisti intracomunitari, il principio fondamentale di neutralità dell’IVA esige che la detrazione dell’imposta a monte sia accordata, nonostante l’inadempimento di taluni obblighi formali, se sono soddisfatti tutti gli obblighi sostanziali, di cui le violazioni formali non impediscano la prova certa, sicchè il diritto alla detrazione non può essere negato nei casi in cui, pur non avendo l’operatore nazionale applicato la procedura d’inversione contabile ed in particolare avendo omesso la doppia registrazione delle fatture integrate o autofatture nei registri di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 23 e 25 è comunque dimostrato, o non controverso, che gli acquisti siano fatti da un soggetto passivo IVA e che le merci siano finalizzate a proprie operazioni imponibili (Cass., 15/04/2015, n. 7576; 24/02/2016, n. 3586; 30/07/2020, n. 16367).

Queste pronunce, tra le varie argomentazioni addotte, valorizzano le sentenze della Corte di Giustizia (cause riunite C-95/07 e C-96/07, caso Ecotrade, o C590/2013, caso Idexx), nelle quali è riassunto il principio secondo cui, stante la fondamentale esigenza del rispetto della neutralità dell’IVA, la detrazione dell’imposta a monte va accordata se gli obblighi sostanziali sono soddisfatti, ancorchè taluni obblighi formali siano stati omessi dai soggetti passivi.

A ben vedere, non si tratta di una interpretazione contrapposta al primo degli orientamenti riportati (così come riassunti nella citata n. 24022/2013), ma della ricerca di un equilibrio tra inosservanza di taluni obblighi e perdita del diritto alla detrazione dell’imposta, diritto dal quale se ne riconosce comunque la caducazione quando il contribuente non dia la prova della sussistenza dei requisiti sostanziali che consentano l’esplicazione del diritto alla detrazione dell’Iva. E’ a tal fine significativa l’affermazione secondo cui “se è stata omessa solo la doppia registrazione delle fatture integrate o autofatture nei registri previsti dagli artt. 23 e 25 del decreto IVA ed è dimostrato – o non è controverso – che gli acquisti siano fatti da un soggetto passivo dell’IVA e che le merci siano finalizzate a proprie operazioni imponibili, le inadempienze accertate a carico del contribuente non generano danni erariali, poichè il risultato fiscale finale sarebbe stato comunque identico sul piano impositivo per effetto della prevista neutralizzazione bilaterale dell’IVA” (così la citata 7576/2015, che infatti contempla un’ipotesi in cui l’omissione afferiva alla mancata registrazione della autofatture nei registri previsti dal D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 23 e 25 sussistendo invece tutti gli altri requisiti).

Si tratta in altri termini di un problema di prova, che non implica a ben vedere un vero e proprio contrasto giurisprudenziale, quanto più semplicemente una diversa individuazione della linea che, nell’ipotesi di inadempimento degli obblighi formali imposti dalla normativa nazionale (comprensiva non solo del D.P.R. n. 633 del 1972, ma anche del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, con gli artt. 41 e segg.) e unionale, demarca la possibilità di recupero dei requisiti sostanziali per l’attuazione del principio di neutralità fiscale e per la conseguente possibilità di far valere il diritto alla detrazione.

In questo senso la giurisprudenza successiva evidenzia distinguo sempre meno “distinguibili”, come dimostra l’arresto secondo cui, proprio partendo dalla sentenza della Corte di Giustizia C-590/2013 (caso Idexx), si afferma che con riferimento agli acquisti intracomunitari, l’applicazione del meccanismo d’inversione contabile comporta che la violazione degli obblighi formali di contabilità e dichiarazione, pur non impedendo l’insorgenza del diritto di detrazione, del quale sussistano i requisiti sostanziali in testa al cessionario, incide sul suo esercizio, potendo provocare la decadenza da esso allorchè il contribuente, pur essendo a conoscenza della natura imponibile di una fornitura, ometta, per tardività o per negligenza, di richiedere la detrazione dell’IVA a monte entro il termine previsto dalla legge (Cass., 15/07/2015, n. 14767; 3/03/2017, n. 5401). A tal fine infatti il diritto alla detrazione sorge nel momento in cui diviene esigibile l’imposta e dunque l’obbligo di pagamento dell’Iva. Ebbene, dal verificarsi del momento di insorgenza dell’esigibilità dell’imposta – la cd. Iva a monte assolta dal cessionario, o nell’ipotesi di autofatturazione da lui sopportata -, ove l’omesso adempimento degli obblighi formali prescritti non consenta l’identificazione della sussistenza dei requisiti sostanziali, il decorso del termine biennale di decadenza previsto dal D.P.R. n. 633 cit., art. 19 compromette definitivamente il diritto alla detrazione, con conseguente legittima pretesa dell’Amministrazione al recupero dell’Iva a debito, non versata per una supposta compensazione, in concreto mai giuridicamente insorta.

Quanto alla decadenza biennale dal diritto alla detrazione deve affermarsi che la giurisprudenza di legittimità ha ormai raggiunto un indirizzo consolidato (cfr. la citata 14767 del 2015, e anche la recentissima 30/07/2020, n. 16367, laddove si riconosce che, pur non impedendo l’omessa procedura d’inversione contabile l’insorgenza del diritto alla detrazione, nondimeno, la violazione degli obblighi formali di contabilità e dichiarazione incide sull’esercizio di detto diritto, allorchè il contribuente, per negligenza, ometta di richiedere la detrazione dell’IVA a monte nel termine di decadenza di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19).

Allo stato deve ritenersi che siano state peraltro fugate anche le incertezze sull’identificazione del limes, sconfinato il quale gli inadempimenti formali possono incidere sulla prova della sussistenza dei requisiti sostanziali (che secondo la sentenza Idexx si riassumono nella verifica che gli acquisti siano stati effettuati da un soggetto passivo, che quest’ultimo sia parimenti debitore dell’IVA attinente a tali acquisti e che i beni di cui trattasi siano utilizzati ai fini di proprie operazioni). A tal fine risulta decisiva la sentenza 28 luglio 2016 della Corte di Giustizia, nella causa C-332/2015 (caso Astone), relativa ad un caso in cui, rispondendo il legale rappresentante di una società del reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 5, comma 1, si era posta la questione del diritto alla detrazione dell’Iva, anche molto dopo l’insorgenza dell’esigibilità dell’imposta, questione che se risolta in senso favorevole avrebbe determinato la rideterminazione dell’evasione fiscale in misura inferiore alla rilevanza penale della condotta. Ebbene, nell’ambito di una evoluzione interpretativa relativa al rapporto tra emersione del diritto alla detrazione fiscale e incidenza su tale diritto delle omissioni formali (cfr. CGUE, 12 luglio 2012, in C-284/2011, caso EMS Bulgaria, nel quale si affermava che il mancato rispetto degli obblighi formali non incide sulla detraibilità dell’imposta, fatta salva l’ipotesi in cui la loro violazione comporti l’impossibilità di fornire la prova certa del rispetto dei requisiti sostanziali), la sentenza della CGUE nel caso Astone ha asserito che “Gli artt. 168, 178, 179, 193, 206, 242, 244, 250, 252 e 273 della direttiva 2006/112 devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, la quale permetta all’amministrazione finanziaria di negare a un soggetto passivo il diritto alla detrazione dell’imposta sul valore aggiunto, nel caso in cui sia accertato che tale soggetto ha violato in maniera fraudolenta – circostanza questa che spetta al giudice del rinvio verificare – la maggior parte degli obblighi formali che esso era tenuto ad assolvere per poter beneficiare del suddetto diritto”. A tale principio la Corte di Giustizia è pervenuta avvertendo preliminarmente che il caso sottoposto afferiva ad un contribuente che “non è stato in grado di esibire le scritture contabili, nè i registri IVA per la società di cui è il legale rappresentante. Risulta inoltre che tale società non ha presentato alcuna dichiarazione IVA, pur avendo emesso delle fatture per un imponibile IVA di EUR 320 205, che essa non ha pagato l’IVA di cui era debitrice, che non ha osservato l’obbligo di registrazione delle fatture emesse e che non ha neppure osservato l’obbligo di registrazione delle fatture emesse da ditte terze nei suoi confronti e da essa pagate”. Ha dunque affermato che, pur nella necessità del rispetto del principio di neutralità dell’Iva, “gli Stati membri possono stabilire altri obblighi (formali) che ritengano necessari per assicurare l’esatta riscossione dell’IVA e per evitare le evasioni.”, e ciò perchè “la lotta contro evasioni, elusioni ed eventuali abusi costituisce un obiettivo riconosciuto e incoraggiato dalla direttiva IVA e la Corte ha più volte dichiarato che i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme del diritto dell’Unione. Pertanto, è compito delle autorità e dei giudici nazionali negare il beneficio del diritto a detrazione ove sia dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che tale diritto viene invocato fraudolentemente o abusivamente”. Quindi, tenendo conto delle varie omissioni agli obblighi formali cui la contribuente era tenuta, ha asserito che “anche supponendo che tali inadempimenti ai suddetti obblighi formali che incombevano all’imputato nel procedimento principale, nella sua qualità di legale rappresentante della, ai fini dell’applicazione dell’IVA e del suo controllo da parte dell’amministrazione finanziaria non impediscano di fornire la prova certa del soddisfacimento dei requisiti sostanziali che danno diritto alla detrazione dell’IVA pagata a monte, è giocoforza constatare che, simili circostanze possono dimostrare l’esistenza del caso più semplice di evasione fiscale, nel quale il soggetto passivo omette deliberatamente di rispettare gli obblighi formali che gli incombono allo scopo di sottrarsi al pagamento dell’imposta”.

Si tratta con evidenza di un principio di diritto che inequivocabilmente sancisce che il possibile accertamento dell’esistenza dei requisiti sostanziali per l’esercizio del diritto alla detrazione incontra il limite dei gravi inadempimenti formali. E d’altronde la stessa decisione della Corte di Giustizia riconosce che il diritto alla detrazione, decorrente dell’insorgere del momento di esigibilità dell’imposta, può essere temporalmente limitato, così come dispone il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19.

Questo lo stato della giurisprudenza, nazionale ed Eurounitaria, nel caso di specie il giudice regionale non ha tenuto affatto conto dei principi enunciati.

Deve rammentarsi che la disciplina nazionale per il commercio dei rottami prevede che la fattura sia emessa dal cedente senza addebito d’imposta, nell’osservanza delle disposizioni di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 21 e ss. e con l’indicazione che si tratta di operazione con Iva non addebitata in via di rivalsa, secondo quanto previsto dall’art. 74, comma 8, e con l’annotazione “inversione contabile”. La fattura è quindi integrata dal cessionario, che diviene soggetto passivo d’imposta, con l’indicazione dell’aliquota e della imposta stessa, per essere, poi, registrata nel registro delle vendite dal cessionario, che in tal modo assolve l’obbligo di pagamento del tributo, detratto con la parallela annotazione nel registro degli acquisti. Trattandosi di operazione imponibile, inoltre, il cedente conserva il diritto all’ordinaria detrazione dell’imposta relativa agli acquisti inerenti.

Ebbene, nella stessa sentenza impugnata viene evidenziato che non solo non era stato eseguito alcun adempimento contabile formale, ma non erano state emesse fatture, bensì dei buoni, riportanti la tipologia del rottame, la quantità, il prezzo unitario e complessivo, e l’annotazione che gli acquisti erano fatti “da diversi soggetti privati non identificabili”. Si tratta di un’ipotesi nella quale la completa omissione degli adempimenti formali e l’omessa autofatturazione si accompagna alla totale assenza persino degli elementi sufficienti ad identificare i cedenti, e dunque consentire di verificare la sussistenza dei requisiti sostanziali atti all’insorgenza del diritto alla detrazione dell’Iva. In altri termini nella fattispecie era evidente che non ci fosse stato alcun assolvimento dell’Iva da parte del cessionario, che infatti nulla aveva registrato.

Il contesto documentale a disposizione del giudice regionale, totalmente carente non solo sul piano formale, ma in riferimento agli stessi presupposti sostanziali dei meccanismi di assolvimento dell’imposta e della insorgenza del diritto alla detrazione impedivano in radice di escludere le ragioni della ripresa a tassazione delle operazioni commerciali ai fini Iva. Le conclusioni infatti, secondo cui l’eventuale “inapplicabilità dell’inversione contabile comporterebbe la coincidenza fra soggetto passivo dell’imposta (che è sempre il cedente o prestatore) e il debitore della stessa, ma ciò non integra alcun illecito sostanziale” appaiono esse stesse incomprensibili, e, ove volessero far intendere che il principio di neutralità fiscale dell’Iva impedirebbe di affermare che vi sia stata evasione, si tratterebbe di affermazioni del tutto errate alla luce dei principi di diritto enunciati.

Il motivo trova dunque accoglimento.

L’accoglimento del secondo motivo assorbe il terzo, relativo alle sanzioni non applicate.

In conclusione il ricorso dell’Agenzia va accolto e la sentenza va cassata nei limiti delle statuizioni impugnate dall’Ufficio, per essere rinviata alla Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Catania, che deciderà tenendo conto dei principi di diritto enunciati, oltre che sulle spese.

Attesa la soccombenza della contribuente relativamente al proprio ricorso, sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato.

PQM

Rigetta il ricorso introdotto dalla contribuente; accoglie il ricorso introdotto dall’Agenzia delle entrate, cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso dell’Ufficio e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Sicilia in diversa composizione, cui demanda anche la liquidazione delle spese processuali del giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto, quanto al rigetto del ricorso principale della contribuente, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 aprile 2021

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