Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9390 del 08/04/2021

Cassazione civile sez. un., 08/04/2021, (ud. 09/02/2021, dep. 08/04/2021), n.9390

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CASSANO Margherita – Presidente Aggiunto –

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente di Sez. –

Dott. MANNA Felice – Presidente di Sez. –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23333/2020 proposto da:

S.T., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA MINCIO 4,

presso lo studio dell’avvocato VALERIO SPIGARELLI, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, MINISTRO DELLA

GIUSTIZIA;

– intimati –

avverso l’ordinanza n. 99/2020 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA

MAGISTRATURA, depositata il 30/07/2020.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/02/2021 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato Valerio Spigarelli.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. In data 22 marzo 2019 la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, a seguito di una trasmissione di atti per competenza ex art. 11 c.p.p., da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Spoleto, apriva un procedimento penale nei confronti del Dott. S.T., giudice civile presso il Tribunale di (OMISSIS), per i reati di corruzione propria e impropria di cui agli artt. 318,319,321 e 110 c.p. (proc. pen. 5043/2019 r.g.n.r.). Tale procedimento traeva origine da una notitia criminis che la Procura della Repubblica presso il Tribunale di (OMISSIS) aveva tratto da intercettazioni telefoniche disposte a carico dell’avv. B.M., nell’ambito di indagini aventi ad oggetto la morte del fratello di costui, sig. Be.Mi., in un incidente sul lavoro (proc. pen. 5151/2018 r.g.n.r.).

2. Secondo l’ipotesi accusatoria della Procura della Repubblica di Firenze, l’avvocatessa P.N., all’epoca dei fatti legata sentimentalmente al Dott. S., si era accordata con il proprio collega di studio, avvocato B.M., per dividere al 50% i proventi degli incarichi di delegato alle vendite giudiziarie che l’avvocato B. confidava di poter ricevere dall’Ufficio esecuzioni civili del Tribunale di (OMISSIS) contando sull’aiuto del Dott. S.. A quest’ultimo è stato quindi contestato di essersi prestato, su sollecitazione della sua compagna, a favorire il B., compiendo i seguenti atti contrari ai doveri del proprio ufficio:

a) essere intervenuto reiteratamente sulla propria cancelliera O.N., per verificare indebitamente l’inserimento dell’avvocato B. negli elenchi dei delegati alle vendite e appurare il perfezionamento della procedura di iscrizione di costui in tali elenchi;

b) essere intervenuto il 9 settembre 2019 sul collega Sa.Si. per far nominare l’avvocato B. delegato alle vendite;

c) aver manifestato la propria disponibilità a rendersi assegnatario di una causa civile che l’avvocato B. intendeva promuovere nei confronti di una compagnia di assicurazioni per il risarcimento dei danni conseguiti al decesso del proprio fratello, il suddetto sig. Be.Mi..

3. Nell’ambito del suddetto procedimento penale, il GIP presso il Tribunale di Firenze, con ordinanza delle 7 gennaio 2020, ha adottato nei confronti del Dott. S. la misura cautelare personale dell’interdizione dallo svolgimento della attività di giudice per due mesi (dal 7 gennaio al 7 marzo 2020).

4. Conseguentemente, il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione ha aperto un procedimento disciplinare nei confronti del Dott. S. per l’illecito di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 4, comma 1, lett. d), per aver commesso i fatti sopra elencati, costituenti reato, ed ha chiesto la sospensione cautelare obbligatoria dell’incolpato dalle funzioni e dallo stipendio ai sensi dell’art. 21 del medesimo D.Lgs..

5. La sospensione obbligatoria è stata disposta dalla Sezione disciplinare del CSM con ordinanza del 21 gennaio 2020.

6. Con nota del 22 gennaio 2020 il Ministro della giustizia ha richiesto l’estensione dell’incolpazione a carico del Dott. S., aggiungendo alla contestazione dell’illecito di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, comma 1, lett. d), già effettuate dalla Procura Generale, anche la contestazione degli ulteriori illeciti:

– di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 e art. 3, comma 1, lett. a), per aver utilizzato la sua qualità di magistrato con l’avvocato B. al fine di far conseguire vantaggi ingiusti alla avvocatessa P.;

– di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1 e art. 2, comma 1, lett. d), per aver tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti della cancelliera O., assoggettandola a reiterate e indebite pressioni affinchè verificasse l’inserimento dell’avvocato B. nelle liste dei delegati alle vendite e per far sì che lo stesso fosse effettivamente inserito in tali liste pur in assenza di tutti i requisiti necessari;

– di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1 e art. 2, comma 1, lett. e), per avere ingiustificatamente interferito nell’attività giudiziaria del giudice Sa., sollecitando l’affidamento di incarichi di delegato alle vendite giudiziarie in favore dell’avvocato B.; incarichi da quest’ultimo effettivamente ottenuti con provvedimenti del giudice Sa. del 9 ottobre e del 12 dicembre del 2019.

7. Contestualmente all’estensione dell’imputazione il Ministro ha chiesto altresì l’applicazione al Dott. S. della sospensione cautelare facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 22. Il 30 marzo 2020, scaduta la misura cautelare disposto dal GIP fiorentino, l’incolpato ha chiesto, a propria volta, la revoca della sospensione obbligatoria.

8. Nella Camera di consiglio partecipata del 16 giugno 2020 la Sezione disciplinare ha trattato congiuntamente, senza riunirle, l’istanza dell’incolpato di revoca della sospensione obbligatoria e la richiesta del Ministro di applicazione della sospensione facoltativa, rigettando la prima con l’ordinanza n. 99/2020 e accogliendo la seconda con l’ordinanza n. 98/2020.

9. Nell’ordinanza 99/2020, che qui interessa, la Sezione disciplinare ha, in primo luogo, rigettato l’eccezione del ricorrente di inutilizzabilità – ex art. 270 c.p.p., comma 1 – delle intercettazioni telefoniche acquisite in sede penale; in tale ordinanza si richiama la giurisprudenza di legittimità alla cui stregua nel giudizio disciplinare dei magistrati non operano i limiti posti dall’art. 270 c.p.p., alla utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi da quelle in cui le stesse sono state disposte.

10. Nel merito, la Sezione disciplinare ha preliminarmente affermato, in conformità agli insegnamenti di questa Corte (cfr. Cass. SSUU. n. 1239/2015), che la sospensione obbligatoria dalle funzioni e dallo stipendio per adozione di misura cautelare penale, a norma del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 21, è soggetta, quando la misura cautelare penale sia cessata per motivi diversi dalla carenza dei gravi indizi di colpevolezza, a revoca facoltativa, e non obbligatoria; e che il criterio di esercizio del potere di revoca è, in tal caso, identico a quello concernente la sospensione facoltativa ex art. 22 del medesimo D.Lgs.. Sulla scorta di tali premesse, il Giudice disciplinare ha ritenuto che il quadro indiziario a carico del Dott. S. fosse sufficientemente solido, anche in ragione dell’intervenuta emissione del decreto di conclusione delle indagini ex art. 415 bis c.p.p..

11. In particolare, secondo la Sezione disciplinare, dalle intercettazioni della conversazione del 18/01/19 tra i colleghi di studio P. e B. emergerebbe chiaramente il loro accordo volto alla spartizione dei proventi dell’attività di delegato alle vendite giudiziarie che il secondo sperava di svolgere; dalle intercettazioni delle conversazioni intercorse tra il ricorrente e l’avvocatessa P. il 16/04/19, il 04/06/19 e il 03/09/19 emergerebbe come l’incolpato fosse a conoscenza dei vantaggi economici che la nomina dell’avvocato B. nelle procedure immobiliari avrebbe comportato nei confronti dell’avvocatessa P.; da alcune conversazioni intercettate (segnatamente, quelle tra l’avvocato B. e un terzo del 2 e del 17 maggio 2019 e quelle tra il Dott. S. e l’avvocatessa P. del 13/05/19 e del 04/07/19) e dalle dichiarazioni rese al P.M. il 23 dicembre 2019 dalla cancelliera O. emergerebbero le pressioni esercitate su quest’ultima dall’incolpato; da ulteriori conversazioni intercettate tra il Dott. S. e l’avvocatessa P. nelle date 03/09/10, 09/09/19, 18/09/19 e 09/10/19, tra l’avvocato B. e sua cugina in data 09/10/19, nonchè tra l’avvocatessa P. e la madre in data 11/10/19, emergerebbe, poi, l’interferenza esercitata dal Dott. S. sul giudice Sa. ed il suo esito positivo, dato che il 09/10/19 venne notificata all’avvocato B. l’assegnazione di un incarico presso il Tribunale di (OMISSIS); dalla conversazione del 23/07/19 tra gli avvocati B. e P. emergerebbe, infine, l’interesse dell’incolpato a farsi assegnare la causa che il primo avrebbe avuto intenzione di intentare.

12. In riferimento agli argomenti difensivi spesi dall’incolpato, la Sezione disciplinare ha affermato: che sulla scorta delle intercettazioni del 16/04/19 e del 03/09/19 si poteva desumere come il Dott. S. “fosse a conoscenza degli accordi di studio intercorsi fra la propria compagna e il suo collega B.” (pag. 14 ord.); che il tono seccato del Dott. S., che emergeva in alcune conversazioni (in particolare, quella del 04/06/19), doveva essere interpretato come “ulteriore indicatore della consapevolezza dell’incolpato circa la illiceità delle proprie condotte” (pag. 15 ord.); che dalle intercettazioni telefoniche del 13/05/19, del 15/05/19 e del 04/07/19) si poteva inferire che l’iscrizione di B. non fosse avvenuta, come affermato dalla difesa, in data 1 febbraio 2019 e che “anche a voler considerare come effettivamente automatica l’iscrizione dei professionisti nelle liste dei delegati alle vendite ex art. 179-ter c.p.c. (…) resta il fatto che l’incolpato avrebbe comunque esercitato reiterate pressioni sul cancelliere affinchè questa iscrizione avvenisse il prima possibile, secondo il volere di B. e P.” (pag. 16 ord.); che, in merito all’interferenza sul giudice Sa., le difese volte a negare un’efficacia causale dell’intercessione di S. sarebbero ininfluenti, visto che “resta dimostrato che l’incolpato ha effettivamente interferito nell’attività del collega, con lo scopo di influenzare le sue decisioni” e che “in ogni caso, comunque, detta condotta è certamente quanto meno idonea, in astratto ed ex ante, a mettere in pericolo la libertà di determinazione del Sa.” (pag. 18 ord.); che, ai fini dell’applicazione del più grave reato contestato al ricorrente, quello di corruzione propria (art. 319 c.p.), ricorrevano gli estremi del compimento di atto contrario ai doveri d’ufficio, giacchè “dal compendio indiziario esaminato e presente in atti si deve, dunque, ritenere che le più volte richiamate condotte di interferenza si siano effettivamente realizzate e che esse siano astrattamente qualificabili come ipotesi di corruzione propria, essendo rimesso poi al vaglio dibattimentale penale un maggiore e più completo approfondimento” (pag. 19 ord.).

13. Quanto alle esigenze cautelari, la Sezione disciplinare le ha ritenute sussistenti “a causa dell’assoluta incompatibilità tra la permanenza in servizio dell’incolpato e il decoro e la credibilità della funzione”; tanto in ragione della gravità stessa dell’illecito corruttivo contestato, della pluralità di condotte poste in essere dall’incolpato, della piena e reiterata disponibilità di costui all’utilizzo strumentale della propria funzione, ulteriormente dimostrata dalla circostanza che il Dott. S. si era “mostrato tanto sensibile ad ogni pressione proveniente dalla sua compagna” (pag. 13 ord.). Donde la conclusione che “l’unica misura idonea proporzionata rispetto al quadro conoscitivo delle emergenze investigative, messa a disposizione dall’Autorità Giudiziaria, sia costituita dalla sospensione cautelare dalla funzione dallo stipendio” (pag. 14 ord.).

14. Avverso l’ordinanza n. 99/2020 il Dott. S. ha proposto ricorso per cassazione sulla scorta di otto motivi.

15. Il ricorso è stato discusso all’udienza pubblica del 9 febbraio 2021, in prossimità della quale il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta. In udienza il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso e il difensore del ricorrente, avv. Spigarelli, ha concluso per l’accoglimento del medesimo; all’esito, la Corte ha deciso in Camera di consiglio, come segue.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

16. Col primo motivo di ricorso, riferito all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), il Dott. S. denuncia la violazione dell’art. 270 c.p.p., in cui la Sezione disciplinare sarebbe incorsa ritenendo utilizzabili nel giudizio disciplinare i risultati delle intercettazioni telefoniche acquisite nei procedimenti penali n. 5151/18 della Procura della Repubblica di (OMISSIS) e n. 5043/19 della Procura della Repubblica di Firenze; in tal guisa violando il divieto, fissato nel suddetto articolo, di utilizzare i risultati delle intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi da quelli in cui le stesse siano state disposte.

17. Il ricorrente si dichiara edotto del costante orientamento di queste Sezioni Unite secondo cui la previsione dell’art. 270 c.p.p., non opera nei giudizi disciplinari (sentenze nn. 741/2020, 14552/2017, 3020/2015, 3271/2013, 15314/2010, 27292/2009, 12717/2009), ma sollecita un ripensamento di tale indirizzo sulla scorta delle seguenti argomentazioni:

17.1. In primo luogo si contesta l’argomento, svolto nei citati precedenti di legittimità, secondo cui il disposto dell’art. 270 c.p.p., non sarebbe compatibile con il giudizio disciplinare per la specialità che caretterizza quest’ultimo in ragione della specifica ampiezza dei poteri investigativi e istruttori dell’organo inquirente e dell’organo giudicante. In proposito il ricorrente osserva che tale peculiare ampiezza (la quale, si argomenta a pag. 9 del ricorso, “poco o nulla ha a che fare col tema dell’applicabilità nel procedimento disciplinare di un divieto processuale e della sanzione conseguente alla sua violazione”) non sarebbe incompatibile con il disposto dell’art. 270 c.p.p.; in proposito si sostiene che i suddetti poteri, per quanto estesi, sarebbero comunque da esercitare nel rispetto delle regole di utilizzabilità delle prove fissate dal codice di rito penale e, anzi, proprio la loro peculiare ampiezza andrebbe bilanciata con il più rigoroso rispetto dei limiti fissati da dette regole.

17.2. In secondo luogo si contesta l’argomento, pur esso speso nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il divieto di “esportazione” delle intercettazioni di cui all’art. 270 c.p.p., si giustificherebbe nel giudizio penale, ma non in quello disciplinare, “in forza dell’esigenza, tipica del procedimento penale, di garantire speciali guarentigie alla persona esposta al rischio di un pregiudizio alla propria libertà” (pag. 9 del ricorso). Il ricorrente, per contro, adottando la prospettiva della tutela del diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni, sostiene la irragionevolezza di una lettura del sistema sulla cui base l’interesse pubblico alla repressione dei crimini finirebbe con il ricevere dall’ordinamento una tutela inferiore rispetto all’interesse al perseguimento di meri illeciti deontologici.

17.3. In terzo luogo il ricorrente sottolinea il pregiudizio al diritto di difesa derivante dal fatto che in sede disciplinare sarebbe consentita “l’acquisizione indiscriminata dei “brogliacci” di polizia giudiziaria”, mentre resterebbe preclusa, a suo dire, “ogni possibilità per l’incolpato di verificare ex post il reale contenuto o la legittimità del procedimento seguito per disporre ed eseguire la captazione” (pag. 11 del ricorso). Il che, si argomenta nel mezzo di impugnazione, confliggerebbe con gli artt. 15,24 e 117 Cost. (quest’ultimo in riferimento all’art. 8, par. 2, CEDU, per il quale la corrispondenza di una persona non può formare oggetto di ingerenza di una autorità pubblica “a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”). Con riguardo alla dedotta violazione della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo il ricorrente richiama, in particolare, la sentenza della Corte EDU 29.3.2005 Matheron c. France, alla cui stregua l’utilizzo di intercettazioni telefoniche in un procedimento penale diverso da quello in cui esse sono state disposte contrasta con l’art. 8 CEDU qualora, nel giudizio ad quem, non sia consentito l’esercizio di un’efficace controllo sulla relativa legittimità.

18. Nessuna delle suddette argomentazioni risulta idonea a sovvertire il consolidato orientamento di questa Corte.

19. Per quanto riguarda le considerazioni sintetizzate nei paragrafi 17.1 e 17.2, da trattare congiuntamente in ragione della loro stretta connessione, il Collegio osserva, in via preliminare, che l’argomento secondo il quale proprio la peculiare ampiezza dei poteri istruttori del pubblico ministero e del giudice disciplinare imporrebbe il rispetto più rigoroso delle regole procedurali, di indubbia efficacia retorica, si risolve tuttavia in un paralogismo, giacchè dà per dimostrato ciò che deve invece essere dimostrato, ossia che tra le regole del procedimento disciplinare dei magistrati ve ne sarebbe una che impedisce di utilizzare in tale procedimento intercettazioni disposte nell’ambito di un procedimento penale.

20. Al contrario, va qui ribadito che, come affermato da queste Sezioni Unite già nella citata sentenza n. 12717/2009, l’ampio potere di indagine del pubblico ministero, prima, e il non meno ampio potere officioso della Sezione disciplinare nell’acquisire la prova dell’illecito disciplinare, poi, connotano di specialità il procedimento disciplinare dei magistrati, evidenziando come esso sia marcatamente orientato all’accertamento dell’effettiva sussistenza dell’addebito disciplinare, al fine di consentire il controllo più penetrante sulla correttezza dei comportamenti dei magistrati e, in tal modo, alimentare la fiducia dei consociati nell’Ordine giudiziario. Nel procedimento disciplinare dei magistrati, pertanto, il rispetto delle regole del codice di procedura penale (e, per quanto qui interessa, il rispetto del disposto dell’art. 270 c.p.p.) – prescritto dal D.Lgs. n. 109 del 2006, tanto nella fase delle indagini (art. 16) quanto in quella del giudizio (art. 18) – va coniugato con la suddetta connotazione di specialità; ciò in ragione della clausola di compatibilità (“si osservano, in quanto compatibili, le norme del codice di procedura penale”) contenuta in entrambi detti articoli. La ratio di tale clausola va infatti individuata, appunto, nella volontà del legislatore di salvaguardare le specifiche esigenze di un procedimento volto a garantire – sempre nel rispetto dell’inviolabile diritto di difesa dell’incolpato (cfr. Cass. SSUU n. 1771/2013, p. 4.5: “Il procedimento disciplinare a carico di magistrato ha piena natura giurisdizionale e quindi durante l’intero procedimento devono essere rispettati il diritto di difesa e il principio del contraddittorio… ai sensi dell’art. 24 Cost. e art. 111 Cost., comma 2”) – l’efficacia dell’azione di accertamento e repressione degli illeciti disciplinari dei magistrati demandata dall’art. 105 Cost., al Consiglio Superiore della Magistratura.

21. Ciò posto, il Collegio osserva che è innegabile che, come insegna la Corte costituzionale, la libertà della comunicazione – che, al pari della segretezza, è “inviolabile” e può essere limitata soltanto nel rispetto della duplice garanzia della riserva assoluta di legge e della riserva di giurisdizione – “risulterebbe pregiudicata, gravemente scoraggiata o, comunque, turbata ove la sua garanzia non comportasse il divieto di divulgazione o di utilizzazione successiva delle notizie di cui si è venuti a conoscenza a seguito di una legittima autorizzazione di intercettazioni al fine dell’accertamento in giudizio di determinati reati”, sicchè “l’utilizzazione come prova in altro procedimento trasformerebbe l’intervento del giudice richiesto dall’art. 15 Cost., in un’inammissibile “autorizzazione in bianco”, con conseguente lesione della “sfera privata” legata alla garanzia della libertà di comunicazione e al connesso diritto di riservatezza incombente su tutti coloro che ne siano venuti a conoscenza per motivi di ufficio” (così Corte Cost., n. 366 del 1991, p. 3). Ma la stessa Corte costituzionale, tuttavia, parimenti insegna che anche il valore costituzionale rappresentato dal diritto inviolabile dei singoli alla libertà e alla segretezza delle loro comunicazioni è soggetto ad un bilanciamento con gli altri valori costituzionali, cosicchè il legislatore è chiamato a svolgere un ragionevole bilanciamento tra tale valore e quello rappresentato dall’interesse pubblico primario alla repressione dei reati e al perseguimento in giudizio di coloro che delinquono (C. Cost. n. 63 del 1994, p. 3). Più in generale, del resto, nella sentenza 9 maggio 2013 n. 85, la stessa Corte costituzionale, facendo proprio un orientamento largamente condiviso nel costituzionalismo contemporaneo, ha affermato (p. 9) che “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona”.

22. Se dunque l’insegnamento del Giudice delle leggi si condensa nel principio che è sempre necessario operare un bilanciamento tra i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, a tale insegnamento risulta pienamente allineato il rilievo svolto nella sentenza di queste Sezioni Unite n. 15314/2010, a cui il Collegio intende dare continuità, che il procedimento disciplinare dei magistrati, in quanto tende a garantire il corretto funzionamento della giustizia, risulta funzionale alla tutela dei valori espressi dal titolo IV della parte II della Costituzione, specialmente quando, come nella specie, l’incolpazione disciplinare abbia ad oggetto un episodio di interferenza nella attività giudiziaria, che attenta ai principi costituzionali di indipendenza e imparzialità del giudice (art. 101 Cost., comma 2 e art. 111 Cost., comma 2) e di parità delle parti (art. 111 Cost., comma 2), consustanziali allo stesso principio di eguaglianza davanti alla legge scolpito dell’art. 3 Cost., comma 1.

23. Quanto agli argomenti sopra sintetizzati nel paragrafo 17.3, il Collegio rileva che essi si fondano su presupposti giuridicamente errati.

24. La difesa del ricorrente mostra infatti di ritenere che nel giudizio disciplinare dei magistrati sarebbe precluso all’incolpato di verificare ex post tanto la legittimità del procedimento seguito per disporre ed eseguire la captazione quanto il reale contenuto delle tracce sonore registrate. Non è così.

25. Per quanto concerne il controllo sulla legalità del procedimento seguito per disporre ed eseguire le intercettazioni, va preliminarmente rilevato che la giurisprudenza penale non mette in dubbio la possibilità di verificare, nel processo ad quem, la legittimità delle intercettazioni disposte nel processo a quo; al riguardo è sufficiente richiamare le nitide parole con cui la questione è stata trattata dalla Sezioni Unite Penali di questa Corte nella sentenza n. 45189/04 del 17/11/2004: “Il procedimento di ammissione dell’intercettazione rimane del tutto estraneo alla disciplina dell’utilizzazione dei suoi risultati in un diverso giudizio. Ma questo non può significare affatto che nel giudizio ad quem sia indifferente la legalità del procedimento di autorizzazione ed esecuzione delle intercettazioni. Se la violazione della garanzia di libertà e segretezza delle comunicazioni può rendere inutilizzabile la prova nel giudizio a quo, a maggior ragione deve poter rendere inutilizzabile la prova nel giudizio ad quem, nel quale ha più ristretti limiti di ammissibilità…. Non sembra discutibile perciò che l’illegalità del procedimento di ammissione dell’intercettazione renda inutilizzabile anche in altri giudizi la prova che se ne può desumere, come già affermato dalla Corte costituzionale, sia pure con implicazioni procedimentali riferibili solo al codice abrogato (C. Cost., 3 giugno 1987, n. 223), e come argomentabile anche dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, opportunamente citata dal Procuratore generale (C. euR.D.u., 24 aprile 1990 affare Huvig contro Francia, C. euR.D.u., 24 aprile 1990 affare Kruslin contro Francia)”.

26. Se quindi, in sede penale, l’imputato nel processo ad quem ha la facoltà di eccepire la mancanza o l’illegalità dell’autorizzazione, per opporsi all’utilizzabilità degli esiti di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni in un procedimento diverso da quello nel quale esse furono disposte – salvo il suo onere di produrre il decreto autorizzativo (se del caso, richiedendone copia ex art. 116 c.p.p.), in modo da porre il giudice in grado di verificare l’effettiva inesistenza nel procedimento a quo del controllo giurisdizionale prescritto dall’art. 15 Cost. (Cass. Pen. 6875/09 del 15/01/2009, Cass. Pen. 41515/15 del 18/9/2015, Cass. Pen. 6947/20 del 29/10/2019) analoga facoltà compete all’incolpato in sede disciplinare, in ragione dei richiami al codice di procedura penale contenuti nel D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 16 e 18. La clausola di compatibilità contenuta in tali articoli, infatti, mentre impedisce che nei rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale operi il divieto di cui all’art. 270 c.p.p., di utilizzazione dei risultati delle captazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate, non impedisce, per contro, che anche nel procedimento disciplinare debbano ritenersi inutilizzabili intercettazioni non legalmente disposte ed effettuate nel giudizio a quo (per il principio che “la inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, accertata nel giudizio penale di cognizione, ha effetti in qualsiasi tipo di giudizio” vedi, con specifico riferimento al giudizio di prevenzione, Cass. Pen. SSUU n. 13426/10 del 25/3/2010).

27. Per quanto poi concerne il procedimento disciplinare cautelare, che qui specificamente ci occupa, queste Sezioni Unite hanno recentemente ribadito, nella sentenza n. 741 del 2020, che nel medesimo trova applicazione il principio – elaborato dalla giurisprudenza penale in relazione alla mancata trasmissione al Tribunale del riesame dei decreti autorizzativi delle intercettazioni da parte del P.M. – che tale mancata trasmissione comporta l’inutilizzabilità degli esiti delle operazioni di captazione, qualora detti decreti risultino adottati fuori dei casi consentiti dalla legge o in violazione delle previste disposizioni, e semprechè sia stata avanzata una specifica e tempestiva richiesta di loro acquisizione da parte della difesa (richiesta di cui, giova qui evidenziare, nel ricorso del Dott. S. non si fa alcuna menzione) e la difesa stessa o il giudice non siano stati in condizione di effettuare un efficace controllo di legittimità (Cass. Pen. 7521/13 del 24/1/2013, Cass. Pen. 18802/17 del 21/3/2017).

28. Passando all’esame del secondo degli argomenti in cui si sostanziano le censure sopra riassunte nel paragrafo 17.3, relativo alla pretesa impossibilità, per l’incolpato in sede disciplinare, di verificare il reale contenuto delle intercettazioni acquisite in sede penale, il Collegio rileva che pur esso risulta fondato su un erroneo presupposto di diritto.

29. Va qui ricordato, al riguardo, che la trascrizione delle intercettazioni telefoniche non costituisce prova o fonte di prova, ma solo un’operazione puramente rappresentativa in forma grafica del contenuto di prove già acquisite mediante registrazione fonica (Cass. Pen. 4892/04 del 20/10/2003, Cass. Pen. 10890/06 del 22/11/2005 Cass. Pen. 5472/16 del 28/1/2016); le bobine, infatti, costituiscono il presupposto della trascrizione e, ai fini della decisione, è sempre consentito l’utilizzo dei risultati del loro ascolto (Cass. Pen. 6297/10 del 10/12/2009, Cass. Pen. 22062/13 del 24/4/2013, Cass. Pen. 25806/14 del 20/2/2014). Da ciò discende la conseguenza che, come ha chiarito la Corte costituzionale nella sentenza n. 336/2008 (p. 3), “la possibilità per il pubblico ministero di depositare solo i “brogliacci” a supporto di una richiesta di custodia cautelare dell’indagato, se giustificata dall’esigenza di procedere senza indugio alla salvaguardia delle finalità che il codice di rito assegna a tale misura, non può limitare il diritto della difesa ad accedere alla prova diretta, allo scopo di verificare la valenza probatoria degli elementi che hanno indotto il pubblico ministero a richiedere ed il giudice ad emanare un provvedimento restrittivo della libertà personale”.

30. Nella suddetta sentenza n. 336/2008 – con cui, come è noto, la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 268 c.p.p., nella parte in cui non prevede che, dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza che dispone una misura cautelare personale, il difensore possa ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate, utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare – il Giudice delle leggi ha espresso il principio generale che “è necessario affermare in modo univoco che nella fattispecie normativa oggetto del presente giudizio, riferentesi alla tutela del diritto di difesa in relazione ad una misura restrittiva della libertà personale già eseguita, i difensori devono avere il diritto incondizionato ad accedere, su loro istanza, alle registrazioni poste a base della richiesta del pubblico ministero e non presentate a corredo di quest’ultima, in quanto sostituite dalle trascrizioni, anche sommarie, effettuate dalla polizia giudiziaria” (cfr. p. 4).

31. I principi fissati dalla Corte costituzionale sono stati pienamente recepiti dalla giurisprudenza di questa Corte. Con la sentenza delle Sezioni Unite Penali n. 20330/10 del 22/4/2010, infatti, si è richiamata l’affermazione del Giudice delle leggi che il diritto della difesa di conoscere le registrazioni poste a base del provvedimento cautelare eseguito, con conseguente possibilità di ottenere copia della traccia fonica, è “diritto incondizionato”, e si è sottolineata la portata generale di detta affermazione (cfr. p. 6.1, in fine: “L’intervento della Corte si è verificato nell’ambito di una domanda de libertate di sostituzione o revoca della misura della custodia cautelare, ma non può sorger dubbio che quell’affermato dictum decisivamente rilevi anche nel contesto della procedura di riesame, nella quale si tratta di valutare la sussistenza o meno dei presupposti geneticamente legittimanti la imposta misura cautelare”). I medesimi principi sono poi stati successivamente più volte ribaditi, da ultimo in Cass. Pen. 32391/19 del 22/5/19, alla cui stregua, in tema di riesame, l’omessa consegna da parte del pubblico ministero dei file audio delle registrazioni di conversazioni intercettate, utilizzate per l’emissione dell’ordinanza cautelare, determina l’inutilizzabilità a fini cautelari di tali conversazioni nel caso in cui, pur in mancanza di formule sacramentali nella richiesta di accesso, sussistano elementi, desumibili dal suo contenuto o dal comportamento del difensore, da cui desumere inequivocabilmente la riferibilità di detta richiesta al soddisfacimento di esigenze correlate allo stato custodiale dell’indagato.

32. Alla stregua dei suddetti principi, concordemente affermati dalla giurisprudenza costituzionale e dalla giurisprudenza penale di legittimità applicabili al procedimento disciplinare dei magistrati in ragione dei richiami al codice di procedura penale contenuti nel D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 16 e 18 – va dunque affermato che, contrariamente all’assunto presupposto dal motivo di ricorso in esame, nel giudizio disciplinare cautelare l’incolpato ha il diritto di chiedere al Procuratore Generale presso la Corte di cassazione copia dei supporti materiali (bobine, dischetti, supporti informatici) delle intercettazioni poste a base della richiesta di sospensione dallo stipendio e dalle funzioni, onde poterle ascoltare direttamente.

33. Nè alla suddetta conclusione osta la necessaria tutela della segretezza delle indagini penali, giacchè l’acquisizione e l’ascolto dei supporti audio riguarda solo quelle registrazioni i cui brogliacci o le cui trascrizioni siano già stati acquisiti agli atti del procedimento disciplinare e posti a fondamento della richiesta cautelare di sospensione dallo stipendio e dalle funzioni. Resta comunque fermo che la tutela della segretezza delle indagini penali è normativamente presidiata dal disposto del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 16, comma 4, che, nel prevedere che il segreto investigativo non può essere opposto al Procuratore generale presso la Corte di cassazione che ritenga necessario acquisire atti coperti da tale segreto, attribuisce al medesimo il duplice potere di segretazione di detti atti, su motivata richiesta del Procuratore della Repubblica, e di sospensione del procedimento disciplinare per il periodo di durata della segretazione.

34. Deve pertanto conclusivamente affermarsi che nel processo disciplinare cautelare non possono essere utilizzate intercettazioni disposte in sede penale i cui supporti audio, nonostante la specifica e tempestiva richiesta dell’incolpato, non siano stati acquisiti agli atti del procedimento e resi ascoltabili da parte di costui. Il principio, enunciato da queste Sezioni Unite nella citata sentenza n. 741 del 2020, che gli esiti delle operazioni di captazione non possono essere utilizzati in sede disciplinare nel caso di mancata acquisizione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni da parte del P.M., semprechè tale acquisizione abbia formato oggetto di una specifica e tempestiva richiesta dell’incolpato, va quindi completato con la precisazione, già implicita in Cass. SSUU n. 14552/2017, che i suddetti esiti non possono essere utilizzati in sede disciplinare nemmeno nel caso di mancata acquisizione dei supporti materiali delle intercettazioni, semprechè, anche in questo caso, tale acquisizione abbia formato oggetto di una specifica e tempestiva richiesta dell’incolpato finalizzata all’ascolto delle stesse (ed anche di tale richiesta, va evidenziato, nel ricorso del Dott. S. non si fa alcuna menzione).

35. Alla stregua delle osservazioni che precedono il richiamo della difesa del ricorrente alla sentenza Matheron della Corte EDU risulta inconferente. In tale sentenza – relativa al ricorso di un cittadino francese condannato per traffico di stupefacenti a seguito dell’utilizzo di intercettazioni telefoniche acquisite in un diverso procedimento – la Corte di Strasburgo ha infatti censurato l’orientamento, all’epoca seguito dalla Cassazione francese, che negava all’imputato la possibilità di contestare la validità delle intercettazioni utilizzate a suo carico ma disposte in altro procedimento penale, a carico di terzi. Tale pronuncia della Corte EDU – come già sottolineato da queste Sezioni Unite con la citata sentenza n. 3271/2013 non è dunque pertinente al procedimento disciplinare dei magistrati; la sua ratio decidendi si fonda, infatti, su un presupposto – l’impossibilità nel giudizio ad quem di un efficace controllo sulla legalità delle intercettazioni disposte nel giudizio a quo – che non trova riscontro nella disciplina del D.Lgs. n. 109 del 2006. Tale disciplina, infatti, richiamando il codice di procedura penale, riconosce la facoltà dell’incolpato di contestare in sede disciplinare tanto la ritualità degli atti con cui sono state disposte in sede penale le intercettazioni poste a fondamento dell’incolpazione, quanto la conformità delle trascrizioni al contenuto delle tracce sonore.

36. La decisiva rilevanza rivestita, ai fin del rispetto dell’art. 8 CEDU, dalla possibilità di esercitare, nel giudizio ad quem, un controllo efficace sulle intercettazioni disposte nel giudizio a quo risulta del resto confermata dalla successiva giurisprudenza nella Corte EDU e, in particolare, dalle due sentenze Versini-Campinchi et Crasnianski c. France, del 16 giugno 2016, e Terrazzoni c. France, del 29 giugno 2016, entrambe riferite all’utilizzo in sede disciplinare – rispettivamente, in un procedimento disciplinare nei confronti di due avvocati e in un procedimento disciplinare nei confronti di un magistrato – di intercettazioni acquisite nell’ambito di procedimenti penali nei confronti di terzi.

37. Nelle suddette sentenze la Corte EDU si è misurata con il proprio precedente Matheron (cfr. Versini-Campinchi et Crasnianski, p. 62: “La Cour estime quil faut rapprocher la presente affaire de l’affaire Matheron precitee”) ed ha escluso che i ricorrenti avessero patito una violazione del diritto fondamentale di cui all’art. 8 CEDU proprio in quanto, nel contesto del procedimento disciplinare:

l’avvocatessa Crasnianski aveva potuto chiedere che la trascrizione dell’intercettazione fosse esclusa dal procedimento a causa della sua illegalità, sostenendo che era ingiusta e illegale e invocando la libertà di comunicazione tra l’avvocato e il suo cliente (cfr. sent. Versini-Campinchi et Crasnianski, p. 71: “La Cour constate par ailleurs que la requerante a fait l’objet de poursuites disciplinaires à raison de ces memes propos et sur le fondement de leur transcription. Or, dans le cadre de cette procedure, elle a pu demander que cette transcription soit ecartee des debats en raison de son illegalitè, en arguant de son caractere deloyal et illicite et en invoquant la libertè de communication entre l’avocat et son client”);

la giudice Terrazzoni era stata messa in condizione di spiegare la conversazione telefonica a lei contestata dinanzi (tra l’altro) al relatore nominato dal Conseil Superieur de la Magistrature nell’ambito dell’indagine disciplinare e non aveva contestato l’esistenza di tale conversazione, nè il contenuto della relativa trascrizione e, d’altra parte, dalla relazione dell’Ispettorato generale dei servizi giudiziari risultava espressamente che sia la copia del supporto di registrazione che la sua trascrizione erano state messe a disposizione della ricorrente, la quale aveva potuto consultarle. Nella sentenza Terrazzoni, inoltre, i giudici di Strasburgo, per un verso, sottolineano che la decisione del Conseil Superieur de la Magistrature dava atto del diritto della ricorrente alla comunicazione di tutti gli atti del fascicolo disciplinare, compresi i documenti audio e la trascrizione della conversazione telefonica (cfr. p. 59: “Enfin, la Cour observe que la decision du CSM du 5 mai 2010, qui a prononcè la sanction de la mise à la retraite d’office, indique que la requerante a eu droit, des le 20 fevrier 2009, à la communication de l’integralitè des pieces du dossier disciplinaire, comprenant notamment “le document audio et la retranscription de la conversation telephonique du 6 septembre 2008″”) e, per altro verso, valorizzano la circostanza che l’incolpata potesse chiedere, nell’ambito del procedimento disciplinare, l’esclusione dagli atti della trascrizione controversa (cfr. p. 60: ” En outre, la Cour constate que la requerante, comme dans l’affaire Versini-Campinchi et Crasnianski, precitee, a pu demander, dans le cadre de la procedure disciplinaire, d’ecarter des debats la transcription litigieuse”).

37.1. Nè a conclusioni diverse conduce la sentenza della Corte EDU Karabeyoglu c. Turquie, del 7 giugno 2016, con cui i giudici di Strasburgo hanno ravvisato una violazione dell’art. 8 della Convenzione nell’utilizzo, nell’ambito di un procedimento disciplinare nei confronti di un magistrato turco, delle informazioni ottenute attraverso le intercettazioni telefoniche acquisite nel corso di un procedimento penale già archiviato. In tale pronuncia, infatti, la violazione del diritto convenzionale viene collegata al rilievo che l’utilizzo delle intercettazioni nei confronti del giudice Karabeyoglu doveva ritenersi contraria al diritto interno turco. La Corte EDU, dopo aver premesso che la situazione in cui si era ritrovato il magistrato ricorrente “etait contraire à la legislation nationale sous plusieurs angles” (p. 113), elenca specificamente le pertinenti disposizioni nazionali, rilevando che:

– l’uso delle intercettazioni nei procedimenti disciplinari non è menzionato nè nella Costituzione nè nel codice di procedura penale (“ni l’article 22 de la Constitution ni l’article 135 du CPP enumerant les cas dans lesquels les mesures de surveillance peuvent etre appliquees ne mentionnent les enquetes disciplinaires”, p. 114);

– l’uso delle intercettazioni è consentito solo in relazione a procedimenti come quelli di cui all’art. 135 del CPP (“les informations et enregistrements obtenus dans le cadre des activites menees selon les dispositions du reglement en question ne peuvent ètre utilises que dans un but ou dans le cadre d’une procedure tels que ceux enonces à l’article 135 du CPP”, p. 115);

– al termine dell’indagine, i dati acquisti tramite intercettazioni devono essere distrutti (“l’article 137 p.p. 3 et 4 du CPP prevoit la destruction, à l’issue des investigations, des donnees obtenues par le biais d’une mesure de surveillance” p. 116).

All’esito di tale rassegna la Corte EDU evidenzia come nel procedimento disciplinare contro il ricorrente nessuna delle suddette disposizioni fosse stata rispettata dalle autorità nazionali e, su tale presupposto, conclude che l’ingerenza nella vita privata del ricorrente risultava priva di base legale (“La Cour releve ainsi que, durant l’enquete disciplinaire menee à l’encontre du requerant, aucune de ces dispositions n’a etè respectee par les autorites nationales. Par consequent, elle conclut que l’ingerence dans l’exercice par le requerant de son droit au respect de sa vie privee n’etait pas “prevue par la loi”, au sens de l’article 8 p. 2 de la Convention, s’agissant de l’enquete disciplinaire menee à son encontre” p. 119).

37.2. Analoghe argomentazioni si rinvengono, da ultimo, nella recente sentenza Eminagaoglu c. Turquie del 9 marzo 2021 (successiva alla Camera di consiglio in cui è stata decisa la presente sentenza), che si richiama espressamente alla sentenza Karabeyoglu, con la quale si pone in totale continuità. Anche nel caso del magistrato Eminagaoglu l’uso del materiale ottenuto dall’intercettazione delle comunicazioni telefoniche in un procedimento penale è stato giudicato non “conforme alla legge”, ai sensi dell’art. 8 della Convenzione, sul rilievo che in sede disciplinare fosse stato utilizzato materiale che già avrebbe dovuto essere distrutto; cfr. p. 161: “En effet, elle observe en l’espece que, si, selon une lettre du 31 decembre 2009, le procureur de la Republique d’Istanbul chargè de l’enquete a adressè au requerant une note d’information sur le nonlieu et sur la destruction des elements recueillis lors de la surveillance (paragraphe 33 ci-dessus), une copie de ces elements est sans conteste restee entre les mains des inspecteurs judiciaires, qui ont utilisè ces donnees dans le cadre de l’enquete disciplinaire ouverte contre l’interesse. Comme la Cour la observè dans l’affaire precitee, l’utilisation de ces donnees en dehors du but pour lequel celles-ci avaient etè collectees n’etait pas conforme à la legislation nationale”. Anche nella sentenza Eminagaoglu, quindi, il fondamento della violazione del diritto convenzionale risiede nella difformità dell’uso delle intercettazioni rispetto alle disposizioni di diritto interno. Nessuna linea di discontinuità può dunque ravvisarsi nella giurisprudenza CEDU tra la sentenza Karabeyoglu ed Eminagaoglu e le sentenze Versini-Campinchi e Terrazzoni.

38. Alla luce della giurisprudenza convenzionale appare quindi da escludere, per le ragioni illustrate nei paragrafi 26, 27 e 32 che precedono, che nel nostro ordinamento l’utilizzo nel procedimento disciplinare dei magistrati delle intercettazioni telefoniche disposte in sede penale – che trova la sua base legale nel disposto del D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 16 e 18, là dove attribuiscono, rispettivamente, al Procuratore Generale presso la Corte di cassazione il potere di acquisire gli atti dei procedimenti penali “anche coperti da segreto investigativo” ed alla Sezione disciplinare il potere di disporre “la lettura delle prove acquisite nel corso delle indagini”, nonchè “l’esibizione di documenti da parte del pubblico ministero dell’incolpato e del delegato del Ministro della giustizia” si ponga in contrasto con l’art. 8 CEDU; donde la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale prospettata dal ricorrente con riferimento all’art. 117 Cost.. In considerazione della necessità di bilanciamento tra i diversi diritti fondamentali, cui sopra si è fatto cenno, deve altresì giudicarsi manifestamente infondata anche la questione di legittimità costituzionale prospettata dal ricorrente con riferimento agli artt. 15 e 24 Cost..

39. Il consolidato orientamento alla cui stregua l’art. 270 c.p.p., non preclude la utilizzabilità nel giudizio disciplinare dei magistrati delle intercettazioni disposte in sede penale va dunque confermato, con le (ed in ragione delle) precisazioni sopra svolte in ordine alla possibilità, per l’incolpato in sede disciplinare, di dedurre eventuali vizi dei provvedimenti con cui le intercettazioni sono state autorizzate ed effettuate in sede penale e di richiedere i supporti audio di tali intercettazioni, per ascoltarli e far riscontrare la loro eventuale difformità rispetto al contenuto dei brogliacci e o delle trascrizioni acquisite agli atti del procedimento disciplinare.

40. Il primo mezzo di ricorso va dunque rigettato.

41. Col secondo motivo di ricorso, riferito all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), il Dott. S. denuncia la violazione dell’art. 270 c.p.p., in cui la Sezione disciplinare sarebbe incorsa ritenendo utilizzabili nel giudizio disciplinare i risultati delle intercettazioni telefoniche anteriori al 22 marzo 2019, in quanto disposte ed eseguite nel procedimento penale della Procura della Repubblica di (OMISSIS) n. 5151/18.

42. Tali intercettazioni, ad avviso del ricorrente, sarebbero inutilizzabili nel procedimento disciplinare – oltre che per le ragioni già indicate nel primo mezzo di gravame – anche per la ragione, soltanto a quelle specificamente riferibile, dell’assenza di connessione ex art. 12 c.p.p., tra il procedimento aperto dalla Procura della Repubblica di (OMISSIS), avente ad oggetto la morte del menzionato sig. Be.Mi., ed il procedimento aperto dalla Procura della Repubblica di Firenze, avete ad oggetto le ipotesi di corruzione propria e impropria contestate al Dott. S. anche in questa sede disciplinare. Il ricorrente richiama, in particolare, il principio fissato dalle Sezioni Unite Penali di questa Corte con la sentenza n. 51/20 del 28/11/2019 alla cui stregua, in tema di intercettazioni, il divieto di cui all’art. 270 c.p.p., di utilizzazione dei risultati delle captazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza – non opera con riferimento agli esiti relativi ai soli reati che risultino connessi, ex art. 12 c.p.p., a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine disposta, semprechè rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266 c.p.p..

43. Secondo il ricorrente, in sostanza, il principio di diritto fissato dalle Sezioni Unite Penali con la sentenza n. 51/20 impedirebbe di utilizzare a fini probatori (salva la loro valenza di notitia criminis) le intercettazioni disposte dalla Procura della Repubblica di (OMISSIS) nell’ambito del procedimento aperto dalla Procura della Repubblica di Firenze e da ciò discenderebbe l’impedimento all’utilizzo di tali intercettazioni nel presente procedimento disciplinare. Quest’ultima conclusione viene fondata dal ricorrente sull’assunto che “nel caso in cui la regiudicanda disciplinare tragga origine da un parallelo procedimento penale e si alimenti delle prove in esso acquisite, l’inutilizzabilità della prova nella sede propria si estende anche nel parallelo giudizio disciplinare” (pag. 18 del ricorso).

44. Il motivo non può trovare accoglimento.

45. Va premesso che non è in discussione l’inesistenza di un vincolo di connessione ex art. 12 c.p.p., tra i fatti oggetti del procedimento penale aperto dalla Procura della Repubblica di (OMISSIS) e i fatti oggetti del procedimento penale aperto dalla Procura della Repubblica di Firenze; detto vincolo risulta infatti escluso dalla stessa Sezione disciplinare (cfr. pag. 5, p. 5, della ordinanza impugnata, dove si dà atto che l’indagine di (OMISSIS) è relativa a “fatti totalmente scollegati rispetto a questa vicenda”). Nè il Collegio intende mettere in discussione gli approdi a cui sono pervenute le Sezioni Unite Penali nella citata sentenza n. 51/20 – recentemente ribaditi dalla Quinta Sezione Penale nella sentenza 1757/20 del 17/12/2020 – in ordine ai limiti alla utilizzabilità, nel procedimento penale, di intercettazioni disposte in un diverso procedimento.

46. La questione se nell’ambito del procedimento penale pendente a Firenze a carico del Dott. S. – oltre che degli avvocati P. e B. – siano o non siano utilizzabili le intercettazioni disposte dalla Procura della Repubblica di (OMISSIS) nell’ambito del procedimento penale per la morte di Be.Mi. dovrà essere risolta nell’ambito del procedimento penale fiorentino. Essa, tuttavia, non spiega alcun rilievo in sede disciplinare. Una volta ribadito, come sopra si è fatto in sede di esame del primo motivo di ricorso, il principio che le intercettazioni effettuate in un procedimento penale sono pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare riguardante i magistrati, purchè, come nella specie, siano state legittimamente disposte ed effettuate (cfr. Cass. SSUU n. 741/2020, cit., p. 2.3), è evidentemente irrilevante il tema della utilizzabilità di dette intercettazioni in un procedimento penale diverso da quello nel quale esse sono state disposte ed effettuate.

47. In sostanza, per impedire l’utilizzazione in sede disciplinare delle intercettazioni disposte dalla Procura della Repubblica di (OMISSIS), la difesa del Dott. S. avrebbe dovuto contestare la validità degli atti con cui dette intercettazioni sono state disposte ed effettuate nel procedimento penale pendente a (OMISSIS), a nulla rilevando la problematica della loro utilizzabilità nel procedimento penale pendente a Firenze. Del resto – e ciò corrobora il giudizio di infondatezza della censura – ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 16, comma 4, il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione ha il potere, come già evidenziato nei precedenti paragrafi 33 e 38, di acquisire, “se lo ritiene necessario ai fini delle determinazioni sull’azione disciplinare”, atti coperti da segreto investigativo; e tale potere egli può esercitare richiedendo copia dei supporti audio, dei brogliacci e delle trascrizioni di intercettazioni telefoniche all’ufficio che li custodisca, irrilevante essendo se tale ufficio sia quello che ha disposto le intercettazioni o quello a cui detti atti sono state trasmessi in copia.

48. Nè, sotto altro profilo, un eventuale giudizio di inutilizzabilità delle intercettazioni disposte a (OMISSIS) nell’ambito del procedimento penale pendente a Firenze potrebbe spiegare alcuna rilevanza in sede disciplinare. Ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20, infatti, l’azione disciplinare è promossa indipendentemente dalla “azione penale relativa allo stesso fatto”, salva l’efficacia di giudicato della sentenza penale in sede disciplinare; efficacia che peraltro, ove si tratti di sentenza di assoluzione, copre solo l’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso e non anche l’accertamento della illiceità penale del fatto.

49. Il secondo mezzo di ricorso va dunque anch’esso rigettato.

50. Il terzo, quarto, quinto e sesto motivo sono tutti riferiti dell’art. 606 c.p.c., comma 1, lett. e) e denunciano vizi di motivazione della ordinanza impugnata. Tutti questi motivi sono da rigettare alla stregua del principio, costante nella giurisprudenza di legittimità e ribadito ancora da queste Sezioni Unite nella sentenza n. 7691/2019, che in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, il sindacato della Corte di Cassazione sulle decisioni della Sezione disciplinare del CSM è limitato al controllo della congruità, adeguatezza e logicità della motivazione, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito, perchè è estraneo al sindacato di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali, pur dopo la modifica dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006. Tutti i motivi in esame, per contro, sollecitano, in sostanza, una rivalutazione del merito non consentita in questa sede di legittimità.

51. In particolare, col terzo motivo di ricorso si lamenta la mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione del giudizio di consapevolezza, da parte del ricorrente, degli accordi economici intercorsi tra gli avvocati P. e B.. Segnatamente, l’ordinanza impugnata sarebbe affetta da vizio di travisamento per invenzione, non essendo riscontrabile dalle intercettazioni 4 giugno 2019 e 3 settembre 2019 la consapevolezza in capo al ricorrente sull’esistenza dell’accordo economico intercorso tra l’avvocato B. e l’avvocatessa P. per la spartizione, a metà tra loro, dei proventi derivanti dall’attività di delegato alle vendite giudiziarie che l’avvocato B. sperava di svolgere. Il ricorrente inoltre lamenta la carenza motivazionale sull’argomento difensivo secondo cui, in alcune intercettazioni, tra cui quella del 16 aprile 2019, emergerebbe l’insofferenza dell’incolpato rispetto alle richieste di P..

52. La censura va giudicata inammissibile, perchè attinge la valutazione del risultato probatorio operata dal giudice di merito (pag. 7 dell’ordinanza, p. 6.1: “emerge la piena consapevolezza del Dott. S. circa (…) l’accordo per la ripartizione degli utili”; pag. 15 dell’ordinanza, secondo capoverso: “risulta non revocabile in dubbio che il Dott. S. sapesse degli accordi che la P. aveva stretto con il proprio collega di studio”). Tale valutazione – basata sul contenuto delle conversazioni intercettate intercorse tra il Dott. S. e l’avvocatessa P. (segnatamente le conversazioni del 16/4/19, del 3/9/19, del 4/6/19, vedi p. 10.1, a fine pag. 14 e segg.) – risulta sorretta da motivazione adeguata e immune da contraddittorietà. Nè rileva, ai fini dell’integrazione del contestato illecito disciplinare, se il Dott. S. avesse la specifica consapevolezza della precisa misura della ripartizione tra gli avvocati P. e B. dei proventi da quest’ultimo attesi dall’attività di delegato alle vendite giudiziarie.

53. Nella trama argomentativa del motivo la difesa del ricorrente si duole anche della portata attribuita dalla Sezione disciplinare alle telefonate intercorse tra il Dott. S. e l’avvocatessa P. il 4/6/19 e il 3/9/19. Quanto alla prima, si critica il significato attribuito nell’impugnata ordinanza alla insofferenza mostrata dal Dott. S. al fatto che l’avvocatessa parlasse per telefono del tema delle deleghe alle vendite giudiziarie all’avvocato B.; quanto alla seconda, si argomenta che la disponibilità mostrata dal Dott. S. alle richieste dell’avvocatessa P. di segnalare il nominativo dell’avvocato B. al giudice delle esecuzioni civili Dott. Sa. si spiegherebbe agevolmente “in virtù del rapporto confidenziale tra i due” (pag. 24 del ricorso), senza necessità di ipotizzare alcun accordo corruttivo.

54. E’ evidente che le suddette censure scadono in una richiesta di rivalutazione nel merito del risultato probatorio, inammissibile in questa sede di legittimità; va qui infatti ricordato che, come da ultimo sottolineato in Cass. Pen. 48050/19 del 2/7/2019: “il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati dal ricorrente, è ravvisabile ed efficace solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa dell’elemento frainteso o ignorato, fermi restando il limite del devolutum in caso di cosiddetta “doppia conforme” e l’intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio”.

55. Il terzo motivo è pertanto rigettato.

56. Col quarto motivo di ricorso si denuncia la mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione alle presunte pressioni esercitate dal Dott. S. sulla cancelliera O.. Il ricorrente critica il ragionamento in fatto della Sezione disciplinare per aver quest’ultima enfatizzato la portata delle affermazioni rese dall’avvocato B. nel corso delle telefonate intercettate, omettendo, per converso, di valorizzare le dichiarazioni rese dalla stessa cancelliera O.; quest’ultima infatti aveva dichiarato che, in primo luogo, il Dott. S. non le aveva fatto pressioni ma, una sola volta, le aveva chiesto di verificare l’inserimento dell’avvocato B. nel registro dei professionisti nominabili per le vendite immobiliari, senza che ella avesse percepito tale richiesta come una pressione; in secondo luogo, che l’iscrizione dell’avvocato B. nel suddetto registro era un atto dovuto, dal momento che il medesimo risultava incluso nell’elenco trasmesso dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Perugia al Tribunale di (OMISSIS) il 15 gennaio 2019.

57. A dimostrazione della carenza motivazionale dell’ordinanza impugnata il ricorrente evidenzia, sotto un primo profilo, che lo sms di cui il B. parla nella telefonata del 15 maggio 2019 con tale V.O. non sarebbe mai emerso dalle indagini; sotto un secondo profilo, che nessun accertamento in ordine alle tempistiche di iscrizione dell’avvocato B. nel registro dei professionisti nominabili per le vendite immobiliari suffraga l’assunto dell’ordinanza secondo cui l’intervento del Dott. S. si sarebbe risolto, quanto meno, in una velocizzazione della, pur automatica, iscrizione dell’avvocato B. negli elenchi.

58. Anche il quarto mezzo si risolve in una richiesta di rinnovata valutazione nel merito del risultato probatorio. La Sezione disciplinare ha coerentemente valorizzato le numerose e convergenti conversazioni intercettate, intercorse anche tra soggetti diversi, ritenendole più significative delle dichiarazioni rilasciate dalla cancelliera O..

59. Nè risulta concludente il riferimento del ricorrente alla dichiarazione di quest’ultima di non essersi sentita pressata, perchè ciò che rileva è che l’incolpato abbia esercitato delle attività di interferenza illegittime, quale che ne sia stato l’esito, nei confronti della cancelliera.

60. Va aggiunto che l’impugnata ordinanza non afferma che il Dott. S. avrebbe fatto pressioni affinchè la cancelliera O. iscrivesse illegittimamente l’avvocato B. all’interno dell’elenco dei professionisti delegabili alle vendite, ma che quest’ultimo si era interessato a tale iscrizione, interferendo nell’attività di detta cancelliera, al fine, quanto meno, di velocizzarla; come già riportato nel p. 12 che precede, nell’ordinanza impugnata si legge: “anche a voler considerare come effettivamente automatica l’iscrizione dei professionisti nelle liste dei delegati alle vendite ex art. 179-ter c.p.c. (…) resta il fatto che l’incolpato avrebbe comunque esercitato reiterate pressioni sul cancelliere affinchè questa iscrizione avvenisse il prima possibile, secondo il volere di B. e P.” (pag. 16, penultimo capoverso).

61. Va poi disattesa la censura che critica l’impugnata ordinanza, sotto il profilo della insufficienza o contraddittorietà della motivazione, là dove la Sezione disciplinare afferma che il 15 maggio 2019 l’incolpato aveva comunicato all’avvocato B. l’iscrizione del medesimo nel registro dei professionisti delegabili alle vendite giudiziarie (pag. 17, rigo 1, ord.). Secondo il ricorrente tale affermazione sarebbe smentita dal rilievo che agli atti non sono state acquisite emergenze istruttorie dimostrative di contatti diretti tra lui e l’avvocato B.. L’argomento non ha pregio. Il Giudice disciplinare si è basato sulla circostanza – cui fa cenno lo stesso ricorso, a pag. 14, penultimo capoverso – che era stato proprio l’avvocato B. a riferire a tale V.O., nel corso di una telefonata intercettata il 15 maggio 2019, di aver saputo della propria iscrizione nel suddetto registro tramite un sms inviatogli dal Dott. S.; si tratta di una motivazione che – in difetto di elementi idonei a far presumere che l’avvocato B. mentisse parlando con V.O. (elementi che il ricorrente non indica, nè tanto meno riferisce di avere dedotto nel giudizio di merito) – non può ritenersi nè contraddittoria nè insufficiente.

62. Il quarto motivo è quindi rigettato.

63. Col quinto motivo di ricorso il ricorrente censura l’impugnata ordinanza per l’omessa considerazione delle dichiarazioni rese dal giudice Sa., il quale avrebbe nettamente escluso qualsiasi efficacia causale alla sollecitazione del Dott. S. in ordine alla nomina dell’avvocato B. quale delegato alle vendite giudiziarie.

64. La doglianza va giudicata infondata, perchè, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, la Sezione disciplinare ha considerato le dichiarazioni del Dott. Sa. (cfr. pag. 18, primo capoverso, dell’ordinanza), ritenendole – nell’esercizio del potere di apprezzamento delle risultanze istruttorie che compete esclusivamente al giudice di merito inidonee ad escludere il fumus derivante:

– dall’esplicita ammissione resa dallo stesso incolpato; si veda pag. 17, ultimo capoverso, dell’ordinanza: “non può non rilevarsi come sia stato lo stesso incolpato, in primo luogo, a confermare (e anche a rimproverarsi aspramente), anche in sede di discussione, l’incontro avvenuto con il Dott. Sa. in data 9 settembre”;

– dai termini in cui, lo stesso 9 settembre 2019, tale incontro è stato telefonicamente raccontato dal medesimo Dott. S. all’avvocatessa P.;

– dalla circostanza della effettiva assegnazione di un incarico all’avvocato B. all’inizio il 9 ottobre 2019 e, comunque, dall’apprezzamento di fatto, non specificamente censurato nel mezzo di ricorso, secondo cui la condotta dell’incolpato era “in ogni caso, comunque… certamente quanto meno idonea, in astratto ed ex ante, a mettere in pericolo la libertà di determinazione del Sa.” (pag. 18, quarto capoverso, dell’ordinanza). Infine, quanto alla deduzione che si legge a pag. 36, primo rigo, del ricorso per cassazione in ordine allo stato psicologico di prostrazione che avrebbe afflitto lo S. il giorno del suo interrogatorio, il Collegio osserva che si tratta di circostanza di fatto che, non risultando dedotta in sede di merito, non può essere dedotta per la prima volta nel giudizio di cassazione.

65. Il quinto motivo è dunque rigettato.

66. Col sesto motivo di ricorso il ricorrente censura sotto il profilo della carenza della motivazione, la statuizione che ha accertato l’interessamento del ricorrente all’assegnazione della causa civile che l’avvocato B. aveva in programma di intentare nei confronti di una società di assicurazioni in relazione alla morte del fratello Mi. per un incidente sul lavoro. Nel motivo di ricorso si sottolinea come l’impugnata ordinanza si fondi sulla conversazione intercorsa tra l’avvocato B. e l’avvocatessa P., mentre sarebbe rimasto indimostrato che il Dott. S. si fosse dichiarato disponibile a farsi assegnare l’eventuale causa civile. L’ordinanza, inoltre, non motiverebbe circa l’argomentazione difensiva sviluppata dalla difesa del Dott. S. per denunciare il carattere millantatorio di quanto affermato dall’avvocatessa P..

67. Anche questo motivo si risolve in una inammissibile richiesta di rivisitazione dell’apprezzamento delle risultanze istruttorie operato dal giudice di merito. La Sezione disciplinare ha sottolineato che l’intercettazione del colloquio B. – P. 23/7/19 – estesamente trascritta nel penultimo capoverso di pag. 12 dell’ordinanza – assumeva “scarsa rilevanza rispetto all’incolpazione” (pag. 12 ord., ultimo capoverso), dato che in concreto l’avvocato B. non dette corso al proposito di introdurre davanti al Tribunale di (OMISSIS) una causa relativa alla morte di suo fratello. Essa ha tuttavia ritenuto che il quadro emergente da tale intercettazione risultasse sintomatico “della generale disponibilità dell’incolpato ad assecondare le richieste della fidanzata” (pag. 13 ord., primo capoverso).

68. La doglianza del ricorrente – anche là dove lamenta l’assenza di motivazione sulla prospettazione difensiva che le dichiarazioni telefoniche della P. fossero millantatorie – risulta quindi inammissibile, dovendosi qui ribadire l’insegnamento delle sezioni penali di questa Suprema Corte alla cui stregua, per un verso, in materia di intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (così Cass. Pen. 50701/16 del 14/10/2016); per altro verso, in tema di ordinanze cautelari, è ravvisabile il vizio di omessa motivazione quando dal provvedimento, considerato nella sua interezza, non risultino le ragioni del convincimento del giudice su punti rilevanti per il giudizio e non anche quando i motivi per il superamento delle tesi difensive su una determinata questione siano per implicito desumibili dalle argomentazioni adottate per risolverne altra” (Così Cass. Pen. 15980/20 del 16/4/2020 in tema di ordinanze de libertate del tribunale del riesame).

69. Affatto inconcludente va poi giudicato il riferimento del ricorrente alla necessità di un coinvolgimento del cancelliere nella manipolazione dei meccanismi di assegnazione della causa, giacchè tale ipotetico coinvolgimento costituiva esattamente l’oggetto delle dichiarazioni della avvocatessa P. (“va sempre a pranzo con il cancelliere… è quello che smista le pratiche quando arrivano”) sulla cui base la Sezione disciplinare ha inteso la disponibilità dello S. a “farsi assegnare” l’eventuale e futura causa dell’avvocato B. non come disponibilità a trattare tale causa (invece che astenersi) nella ipotesi di una assegnazione causale, bensì come disponibilità a manipolare la procedura di assegnazione delle cause, in concorso con il cancelliere, in modo da determinare l’assegnazione pilotata a lui di quella causa.

70. Il sesto motivo è anch’esso rigettato.

71. Il settimo motivo di ricorso attinge la qualificazione giuridica degli illeciti penali ascritti all’incolpato – corruzione impropria ex art. 318 c.p. e corruzione propria ex art. 319 c.p. – quali fatti costituenti illecito disciplinare D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 4, lett. d). La censura è riferita tanto alla lettera b) quanto alla lettera e) dell’art. 606, c.p.p. e denuncia, sotto il primo profilo, l’erronea applicazione degli artt. 318 e 319 c.p., in relazione al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 21 e, sotto il seconda profilo, la carenza di motivazione per la mancata individuazione dei fatti da cui desumere lo stabile asservimento della funzione e la contrarietà ai doveri di ufficio degli atti contestati all’incolpato. Lo sviluppo argomentativo del motivo propone due distinte doglianze, da esaminare partitamente.

72. Con la prima doglianza si deduce che le condotte ascritte al Dott. S. non sarebbero sussumibili nelle fattispecie di cui agli artt. 318 e 319 c.p., per non avere il medesimo agito in qualità di pubblico ufficiale. L’incolpato, si argomenta nel mezzo di ricorso, non avrebbe esercitato alcun potere proprio della funzione da lui ricoperta, essendo egli addetto all’ufficio del contenzioso civile e penale e non all’ufficio delle esecuzioni immobiliari. Nel motivo si richiama il principio espresso in Cass. Pen. 38762/12 dell’8/3/2012, alla cui stregua, “in tema di corruzione, non può essere ricondotta alla nozione di “atto di ufficio” la “segnalazione” o “raccomandazione” con cui un pubblico ufficiale sollecita il compimento di un atto da parte di altro pubblico ufficiale, trattandosi di condotta commessa “in occasione” dell’ufficio che, quindi, non concreta l’uso di poteri funzionali connessi alla qualifica soggettiva dell’agente”.

73. La doglianza non può trovare accoglimento. Essa – fondandosi sul rilievo che il Dott. S. non era addetto all'”ufficio esecuzioni civili” del Tribunale di (OMISSIS), bensì al contenzioso civile e penale di tale tribunale postula una nozione erroneamente restrittiva di “ufficio”, travisando la portata del precedente di legittimità richiamato nel motivo di ricorso. Al riguardo deve essere evidenziato che sia Cass. Pen. 38762/12 sia le sentenze successive che a quella si sono uniformate – Cass. Pen. 7731/16 del 12/2/2016 e Cass. Pen. 17973/19 del 22/1/2019 – sono state pronunciate in fattispecie nelle quali la condotta incriminata o era stata dispiegata nei confronti di un soggetto operante in un ente diverso da quello cui era addetto l’agente (nel caso della sentenza n. 38762/12 si trattava del sindaco di un comune che aveva sollecitato al direttore di una ASL il trasferimento di un sanitario) o, comunque, in un ufficio dotato di rilevanza esterna distinto da quello in cui operava l’agente (nel caso della sentenza n. 17973/19 si trattava di un giudice di una commissione tributaria regionale che si era interessato del buon esito di un procedimento pendente innanzi alla commissione tributaria provinciale) o, ancora, risultava legata da un rapporto di mera occasionalità all’inserimento dell’agente in ufficio (nel caso oggetto di Cass. Pen. 7731/16, un amministratore comunale aveva redatto ricorsi amministrativi, nell’interesse di privati, finalizzati all’annullamento di sanzioni irrogate da altri funzionari comunali). Nella fattispecie in esame, per contro, il Dott. S. è incolpato a titolo di corruzione impropria ex 318 c.p. perchè “metteva loro (degli avvocati B. e P. n.d.r.) a disposizione i suoi poteri e la sua funzione di magistrato” e a titolo di corruzione propria ex 319 c.p. per aver compiuto “atti contrari ai doveri del proprio ufficio tra l’altro intervenendo reiteratamente in violazione del dovere di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione” sulla cancelliera O., per verificare l’inserimento dell’avvocato B. nell’elenco degli avvocati nominabili per le vendite, e sul Dott. Sa., per procurare l’affidamento di incarichi all’avvocato B.; oltre che per aver manifestato la propria disponibilità a rendersi assegnatario di una causa che l’avvocato B. aveva in animo di instaurare.

74. La condotta ascritta al ricorrente si risolve quindi, quanto all’addebito di corruzione impropria, nel mercimonio della sua qualità di giudice del Tribunale di (OMISSIS) e, quanto all’addebito di corruzione propria, nel compimento di atti contrari ai doveri di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione consistiti in reiterati interventi su persone operanti all’interno del medesimo Tribunale di (OMISSIS). La Sezione disciplinare, collegando la qualità di pubblico ufficiale del Dott. S. alla sua posizione di magistrato nel medesimo tribunale in cui operavano la cancelliera O. ed il giudice Sa. – ai quali concretamente competevano, rispettivamente, la tenuta del registro dei professionisti delegabili alle vendite giudiziali e il conferimento delle deleghe – si è conformata al principio espresso dalla giurisprudenza penale di legittimità secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di corruzione propria, non è determinante il fatto che l’atto d’ufficio o contrario ai doveri d’ufficio sia ricompreso nell’ambito delle specifiche mansioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma è necessario e sufficiente che si tratti di un atto rientrante nelle competenze dell’ufficio cui il soggetto appartiene ed in relazione al quale egli eserciti, o possa esercitare, una qualche forma di ingerenza, sia pure di mero fatto; così Cass. Pen. 23355/16 del 26/2/2016; conf. Cass. Pen. 20502/10 del 2/3/2010, Cass. Pen. 4177/04 del 27/10/2003, nonchè, a contrariis Cass. Pen. 17973/19 del 22/1/2019, già citata, così massimata: “In tema di corruzione in atti giudiziari, l’atto oggetto del mercimonio deve rientrare nella sfera di competenza o di influenza dell’ufficio cui appartiene il soggetto corrotto, di modo che in relazione ad esso egli possa esercitare una qualche forma di ingerenza sia pur di mero fatto. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso la sussistenza del reato, in relazione ad un patto corruttivo intervenuto con un giudice incardinato nella commissione tributaria regionale, ma relativo a procedimento pendente innanzi alla commissione tributaria provinciale)”.

75. La prima delle due doglianze in cui si articola il settimo motivo di ricorso va quindi rigettata.

76. Con la seconda di dette doglianze il ricorrente lamenta la carenza di motivazione dell’impugnata ordinanza in ordine alla sussunzione delle condotte oggetto di incolpazione nelle fattispecie di reato di cui agli artt. 318 e 319 c.p.. Il ricorrente sostiene che l’ordinanza non avrebbe evidenziato da quali circostanze potesse desumersi l’esistenza di un accordo teso all’asservimento della funzione (art. 318 c.p.) e al compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.). Nel motivo si richiama specificamente la sentenza della VI Sezione Penale di questa Corte n. 22524/20 dell’1/7/2020, che ha annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale del riesame di Firenze che aveva confermato la misura cautelare degli arresti domiciliari applicata dal GIP all’avvocato B.M. per i reati – tra l’altro – di corruzione propria e impropria al medesimo ascritti in concorso con lo S. e con la P..

77. Il Collegio ritiene opportuno richiamare, in via preliminare, la distinzione tra la corruzione impropria ex 318 c.p. e la corruzione propria ex art. 319 c.p., nel testo successivo alla riforma recata della L. 6 novembre 2012, n. 190, per come delineata dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte. Nella sentenza Cass. Pen. 4486/19 dell’11/12/2018, p. 4.1, si è spiegato che “Il discrimine tra le due ipotesi corruttive resta pertanto segnato dalla progressione criminosa dell’interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva) da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione) ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l’individuazione di un atto contrario ai doveri d’ufficio). Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell’altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa”. Tale progressione dal reato di pericolo (art. 318 c.p.) al reato di danno (art. 319 c.p.) è stata ulteriormente precisata in Cass. Pen. 18125/20 del 22/10/2019, p. 2.4, pag. 126, dove si legge: “E’ fondato ritenere che la nuova formulazione dell’art. 318 c.p., ora rubricata come “corruzione per l’esercizio della funzione”, abbia inciso notevolmente sulla struttura della norma, mutandone la natura; mentre infatti nella precedente versione la fattispecie era pur sempre costruita come reato di danno, connesso alla compravendita di un atto d’ufficio (purchè non contrario ai doveri), nella nuova tipizzazione il legislatore ha inteso ricomprendere tutte le forme di “compravendita della funzione” non connesse causalmente al compimento di uno specifico atto contrario ai doveri di ufficio. Dunque, una offensività “diversa” e “minore”, rispetto a quella insita nel reato di corruzione propria, che giustifica una risposta sanzionatoria minore. L’art. 318 c.p., sanziona la violazione del principio rivolto al pubblico funzionario di non ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata e, specularmente, al privato di non corrisponderglieli; la norma sanziona l’intesa programmatica – l’impegno del pubblico ufficiale a curare interessi indebiti senza la previa individuazione di alcunchè -, previene la compravendita degli atti d’ufficio e garantisce il corretto funzionamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione…… Sotto altro profilo, se la fattispecie di reato di cui all’art. 319 c.p., è in rapporto di specialità unilaterale per specificazione rispetto a quella di cui all’art. 318 c.p., è necessario che l’atto contrario ai doveri d’ufficio sia specificamente individuato o individuabile, altrimenti il fatto non potrà che essere sussunto nella fattispecie generale, cioè nell’art. 318 c.p.. Assume decisiva valenza non il mero riferimento astratto ed onnicomprensivo alla competenza dell’ufficio, di cui si è in precedenza detto, quanto, piuttosto, il contenuto del patto corruttivo”.

78. Alla luce di queste precisazioni, la doglianza di “mancata individuazione degli elementi da cui desumere l’asservimento della funzione e la contrarietà dei singoli atti al doveri di ufficio” (nella rubrica del motivo, a pag. 41 del ricorso) si mostra priva di pregio.

79. Premesso che, come queste Sezioni Unite hanno recentemente affermato nella sentenza n. 1719/2020 “in sede di adozione della misura cautelare della sospensione di un magistrato dalle funzioni e dallo stipendio, ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 21 e 22, non concretando l’irrogazione di una sanzione disciplinare, non richiede un completo accertamento in ordine alla sussistenza degli addebiti (riservato al giudizio di merito sull’illecito disciplinare), ma presuppone comunque una valutazione circa la rilevanza dei fatti contestati, astrattamente considerati, e la delibazione della possibile sussistenza degli stessi” – il Collegio osserva che la Sezione disciplinare ha motivato adeguatamente – nella prospettiva, si ripete, di un provvedimento di natura cautelare e non decisoria – gli elementi da cui ha desunto le condotte integrative dell’asservimento della funzione e del compimento di atti contrari al dovere di ufficio.

80. Quanto all’asservimento della funzione, l’impugnata ordinanza, dopo aver indicato gli argomenti probatori che sorreggono l’ipotesi delle interferenze del Dott. S. sulla cancelliera O. e sul giudice Sa., afferma “indizio ulteriore di questa generale disponibilità all’asservimento della funzione e dell’opacità dei rapporti di interesse intrattenuti con i due avvocati è rappresentato dalla contestazione di essersi il Dott. S. interessato affinchè venisse a lui assegnata la causa civile” (pag. 12, primo capoverso, dell’ordinanza).

81. Quanto al compimento degli atti contrari ai doveri di ufficio, ossia gli interventi sulla cancelliera O. e sul giudice Sa., nella ordinanza si legge infatti: “Le pressioni esercitate dall’incolpato sulla O. e sul Sa. configurano dunque atti contrari ai principi di imparzialità e buon andamento dell’ufficio (…). Dal compendio indiziario esaminato e presente in atti si deve, dunque, ritenere che le più volte richiamate condotte di interferenza si siano effettivamente realizzate e che esse siano astrattamente qualificabili come ipotesi di corruzione propria, essendo rimesso poi al vaglio dibattimentale penale un maggiore e più completo approfondimento” (pag. 19, terzultimo e penultimo capoverso).

82. D’altra parte, come si sottolinea nella stessa ordinanza, nel terzultimo capoverso di pag. 4, la solidità del quadro indiziario a carico del Dott. S. risulta confermata dall’emissione del decreto di conclusione delle indagini ex art. 415 bis c.p.c..

83. Quanto al richiamo analiticamente operato dalla difesa del ricorrente alle argomentazioni sulla cui base la sentenza della VI Sezione Penale di questa Corte n. 22524/20, sopra citata nel p. 76, ha annullato l’ordinanza del Tribunale del riesame di Firenze che aveva confermato l’ordinanza del GIP applicativa della misura degli arresti domiciliari al B., va in primo luogo sottolineato che tale sentenza si è pronunciata su una ordinanza cautelare coercitiva adottata nei confronti dell’avvocato B. e non del Dott. S., nei cui confronti non sono state emesse misure coercitive, ma solo una misura interdittiva. Il Collegio ritiene, tuttavia, che sia necessario esaminare le argomentazioni di Cass. Pen. 22524/2020, perchè tali argomentazioni vengono riprodotte dal ricorrente come argomenti di critica dell’ordinanza cautelare disciplinare qui gravata, a suo dire afflitta dai medesimi errori individuati dalla Cassazione penale nella ordinanza del Tribunale del riesame di Firenze.

84. Detta ordinanza del tribunale del riesame è stata annullata dalla VI Sezione Penale di questa Corte per non avere adeguatamente inquadrato in relazione a tutte o ad alcune delle diverse condotte descritte nel capo d’imputazione – i fatti ritenuti provati nella fattispecie di cui all’art. 318 c.p., o in quella di cui all’art. 319 c.p., ovvero, ancora, in altra fattispecie criminosa, ivi compresa quella di cui all’art. 323 c.p..

85. Secondo Cass. Pen. 22524/20, in particolare, l’ipotesi riferita all’art. 318 c.p., non risultava sorretta da una adeguata illustrazione degli elementi e delle ragioni sulla cui base, nel rapporto triangolare B. – P. – S., il giudice territoriale aveva ravvisato l’asservimento del pubblico ufficiale agli interessi del privato, realizzato attraverso l’impegno a compiere od omettere una serie di atti ricollegabili alla funzione esercitata, sì da poter ritenere integrata – sia pure soltanto in termini di elevata probabilità – l’ipotesi di cui all’art. 318 c.p. (p. 4.2).

86. Quanto all’ipotesi riferita all’art. 319 c.p., non risultava spiegato in modo convincente in cosa si fosse sostanziata la ravvisata contrarietà ai doveri d’ufficio in relazione ai tre atti indicati nell’imputazione provvisoria.

86.1. Più specificamente, quanto all’iscrizione dell’avvocato B. nell’elenco dei professionisti delegabili alle vendite giudiziarie, non risultavano indicate le ragioni per le quali si dovesse ritenere che l’avvocato B. non avesse titolo per essere inserito in detto elenco e il Dott. S. fosse edotto di tale mancanza di titolo, sì da poter connotare anche da un punto di vista soggettivo – le reiterate richieste di interessamento presso la propria cancelliere O.N. come pressioni riverberanti in un atto contrario ai doveri d’ufficio della cancelliere stessa, nel quale il giudice S. avrebbe concorso; la Cassazione penale segnala che “ove non fosse comprovato il concorso del giudice S. in un atto – in ipotesi – contrario ai doveri d’ufficio della propria cancelliera (sub specie dell’istigazione), la sollecitazione verso la medesima ad inserire B. in tale elenco in cambio di denaro o altra utilità per la propria fidanzata potrebbe, tutt’al più, integrare il delitto di cui all’art. 318 c.p., o quello di cui all’art. 323 c.p.” (p. 4.3).

86.2. Quanto all’affidamento all’avvocato B. di un incarico di delega alla vendita, non risultavano indicate le ragioni per le quali la “segnalazione” o “raccomandazione” da parte del Dott. S. al collega Sa. – pur legata da un nesso sinallagmatico all’impegno del B. ad assicurare alla propria compagna un vantaggio di natura economica potesse sussumersi nella fattispecie astratta di cui all’art. 319 c.p. e, nello specifico, quale fosse l’atto contrario ai doveri d’ufficio che tale condotta avrebbe sostanziato o in cui essa si sarebbe inserita. La Cassazione penale segnala che, ove la delega alle vendite immobiliari conferita all’avvocato B. non potesse essere considerata atto contrario ai doveri d’ufficio del giudice Sa., nel quale lo S. avesse consapevolmente concorso, la sollecitazione di quest’ultimo al collega affinchè compisse un atto del proprio ufficio a vantaggio del B. potrebbe dare luogo – in presenza dei relativi presupposti – alla meno grave ipotesi delittuosa di cui all’art. 318 c.p. (p. 4.4).

86.3. Quanto alla disponibilità del Dott. S. a farsi assegnare la causa civile per risarcimento del danno causato dal letale incidente sul lavoro del fratello dell’avvocato B., non risultava indicato quale atto contrario ai doveri d’ufficio sarebbe stato sotteso a tale manifestazione di volontà del magistrato, rispondendo l’attribuzione della trattazione di una causa ad un giudice a criteri tabellari basati su regole oggettive. La Cassazione penale segnala che il tribunale del riesame avrebbe dovuto chiarire con quale specifico atto – appunto contrario ai doveri d’ufficio – il Dott. S. avrebbe potuto influire su tale assegnazione o comunque con quale condotta egli avrebbe potuto concorrere nell’atto contrario ai doveri d’ufficio del cancelliere (p. 4.5).

87. Le argomentazioni sopra sintetizzate non sono pertinenti rispetto all’impianto motivazionale dell’ordinanza della Sezione disciplinare qui impugnata.

88. La condotta contestata al Dott. S. in questa sede disciplinare per quanto riguarda gli incarichi all’avvocato B. – non consiste nel concorso con la cancelliera O. nel compimento dell’atto, in ipotesi contrario ai doveri di ufficio di costei, di iscrizione dell’avvocato B. nel registro dei professionisti delegabili alle vendite giudiziarie (o nel compimento dell’atto di accelerazione di detta iscrizione o anche, semplicemente, di comunicazione del compimento della iscrizione medesima); nè consiste nel concorso con il giudice Sa. nel compimento dell’atto, in ipotesi contrario ai doveri di ufficio di costui, di affidamento di un incarico al B.; ma consiste nei reiterati interventi compiuti sulla cancelliera O. e sul giudice Sa. “in violazione del dovere di imparzialità e buon andamento dell’attività della Pubblica Amministrazione” (così recita il capo di incolpazione, pag. 2 dell’ordinanza).

89. Nella prospettiva dell’incolpazione disciplinare per la quale è stata emessa la sospensione cautelare di cui si tratta, in definitiva, l’atto contrario ai doveri d’ufficio è l’interferenza compiuta sulla cancelliera e sul collega, non il concorso nel compimento degli atti da questi ultimi posti in essere. Recependo tale prospettiva, che peraltro non ha formato oggetto di specifica censura nel ricorso per cassazione del Dott. S., la Sezione disciplinare si è mossa nel solco del principio – espresso in Cass. Pen. 21943/06 del 7/4/2006 in relazione al vecchio testo dell’art. 319 c.p., ma non inciso dalla novella di cui alla L. n. 190 del 2012 – che “In tema di reato di corruzione propria, l’atto di ufficio oggetto di mercimonio non deve essere interpretato in senso formale, potendo tale nozione ricomprendere qualsiasi comportamento lesivo dei doveri di fedeltà, imparzialità ed onestà che debbono essere osservati da chiunque eserciti una pubblica funzione. (Fattispecie relativa ad applicazione di misura interdittiva per il reato di cui all’art. 319 c.p., nei confronti di un magistrato della Corte dei Conti che, addetto al controllo sugli atti dell’ente Poste italiane, aveva accettato l’offerta di una provvigione da parte di un imprenditore in cambio della sua attivazione presso i vertici del suddetto ente per l’ottenimento di commesse)”.

90. Alla luce di tali considerazioni vanno dunque disattese le doglianze, sviluppate a pag. 48 del ricorso, con cui si lamenta che l’ordinanza qui gravata non spieghi perchè l’iscrizione dell’avvocato B. nell’elenco degli avvocati delegabili per le vendite (o l’accelerazione di tale iscrizione, o la comunicazione della stessa), così come l’affidamento all’avvocato B. di un incarico di delegato alla vendita dovrebbero ritenersi contrari ai doveri di ufficio; in detta ordinanza, infatti, la contrarietà ai doveri d’ufficio – e segnatamente ai doveri di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione – viene predicata non con riferimento a detti atti, bensì con riferimento alle interferenze esercitate dal Dott. S. sulla cancelliera e sul collega.

91. Per quanto poi concerne la doglianza secondo la quale l’ordinanza impugnata sarebbe carente di motivazione sulle ragioni della contrarietà ai doveri di ufficio della dichiarazione di disponibilità dello S. a farsi assegnare la causa del B. “anche alla luce della già rilevata esistenza di un criterio meramente tabellare per l’assegnazione delle cause” (pag. 53, secondo capoverso, del ricorso), il Collegio osserva che la stessa non coglie la ratio decidendi; come illustrato nel precedente p. 69, la Sezione disciplinare, con un giudizio di fatto non specificamente censurato, ha inteso la disponibilità dello S. a “farsi assegnare” la futura causa dell’avvocato B. non come disponibilità a trattare tale causa (invece che astenersi) nella ipotesi in cui la stessa gli fosse stata assegnata in applicazione dei criteri tabellari, bensì come disponibilità a manipolare la procedura di assegnazione delle cause, in concorso con il cancelliere, in modo da determinare l’assegnazione pilotata di quella causa a lui; atteggiamento, questo, palesemente riconducibile alla nozione giurisprudenziale di asservimento della funzione.

92. Conclusivamente il settimo motivo va rigettato in relazione ad entrambe le doglianze in cui esso si articola.

93. Con l’ottavo motivo di ricorso, riferito all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), si deduce il vizio di carenza della motivazione in ordine all’attualità delle esigenze cautelari. In particolare il ricorrente lamenta che la Sezione disciplinare avrebbe omesso di valutare la circostanza, da lui dichiarata nell’udienza del 16 giugno 2020, della cessazione della sua relazione sentimentale con l’avvocatessa P..

94. La censura va giudicata inammissibile, in quanto, per un verso, si risolve in una richiesta di rivalutazione, preclusa nel giudizio di legittimità, dell’apprezzamento di merito operato dal Giudice disciplinare in ordine all’attualità delle esigenze cautelari e, per altro verso, non si confronta con la motivazione dell’ordinanza impugnata, nella quale il pericolo giustificativo della misura cautelare della sospensione dell’incolpato dalle funzioni e dallo stipendio viene individuato non nella permanenza della sua relazione sentimentale con l’avvocatessa P., bensì nella permanenza nelle funzioni di un magistrato il cui prestigio sia stato screditato da un accusa di corruzione.

95. In definitiva il ricorso va rigettato in relazione a tutti i motivi in cui esso si articola.

96. Non vi è luogo a regolazione di spese, nè – ratione materiae – al raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 9 febbraio 2021.

Si dà atto che la presente sentenza è firmata dal solo presidente del collegio, per impedimento dell’estensore, Dott. Antonello Cosentino, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 3, in conformità al disposto del decreto del Primo Presidente della Corte di cassazione n. 163/2020, recante integrazione delle Linee guida sull’organizzazione della Corte di Cassazione nell’emergenza COVID 19.

Così deciso in Roma, il 9 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2021

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