Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9385 del 21/05/2020

Cassazione civile sez. II, 21/05/2020, (ud. 14/11/2019, dep. 21/05/2020), n.9385

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16121/2018 proposto da:

V.A., rappresentato e difeso dagli avvocati LUISELLA MARIA

BARBERO, ALBERTO ANELLI e GIOVANNI ALESSANDRO SAGRAMOSO;

– ricorrente –

contro

BANCA D’ITALIA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NAZIONALE 91 –

BANCA D’ITALIA, presso lo studio dell’avvocato OLINA CAPOLINO, che

lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati DONATELLA LA

LICATA, DONATO MESSINEO;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il

30/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/11/2019 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE;

Udito il P.G. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Uditi gli Avvocati ALBERTO ANELLI e DONATO MESSINEO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. V.A., direttore generale della Banca Monte dei Paschi di Siena, proponeva opposizione avverso il provvedimento sanzionatorio n. (OMISSIS) del 28 marzo 2013, approvato con Delib. direttorio della Banca d’Italia n. 180 del 2013, con il quale, all’esito dell’ispezione relativa al periodo 27 settembre 2011 – 9 marzo 2012, gli erano state irrogate due sanzioni amministrative pecuniarie per violazione della normativa in materia di contenimento dei rischi finanziari e per carenze nell’organizzazione e nei controlli interni da parte dei componenti del Cda e del direttore generale.

2. La Corte d’Appello di Roma nel rigettare l’opposizione, riteneva infondata l’eccezione di tardività del deposito della memoria difensiva da parte della Banca d’Italia, essendo stato rispettato il termine assegnato dalla Corte medesima. Peraltro, non era configurabile alcuna decadenza o preclusione, tenuto conto che nel procedimento delineato dall’art. 145 TUB non esisteva alcuna norma in tal senso.

2.1 Anche i restanti motivi, concernenti lo svolgimento della procedura sanzionatoria, erano infondati. In primo luogo, quello relativo al termine entro il quale doveva concludersi il procedimento, essendo, i procedimenti sanzionatori, temporalmente soggetti solo al termine quinquennale di prescrizione della pretesa punitiva, ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 28. Peraltro, il termine stabilito dal regolamento della Banca d’Italia del 25 giugno 2008 era stato rispettato, tenuto conto della necessità di calcolare le eventuali proroghe concesse al soggetto che per ultimo aveva ricevuto la notifica per la presentazione delle controdeduzioni. Nella specie, il Dottor B. aveva ottenuto una proroga fino al 3 agosto 2012 per controdedurre, sicchè l’adozione del provvedimento sanzionatorio in data 28 marzo 2013 era tempestiva. Infatti, ai sensi del citato regolamento, la scadenza del termine per la presentazione delle controdeduzioni da parte del soggetto che ha ricevuto per ultimo la notifica della contestazione determina il dies a quo di decorrenza del termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio. In caso di proroga, la scadenza decorre dallo scadere del termine come prorogato e, in caso di più proroghe, dallo scadere dell’ultimo termine prorogato.

Quanto alla mancata trasmissione dei verbali delle riunioni della commissione per l’esame delle irregolarità nonchè della delibera del direttore della Banca d’Italia, la censura era infondata perchè la motivazione con richiamo ad atti del procedimento, non implicava che l’atto amministrativo menzionato per relationem dovesse essere materialmente allegato al documento o che il suo contenuto dovesse essere riportato testualmente nel corpo motivazionale ma solo che lo stesso fosse reso disponibile a norma di legge ovvero acquisito mediante l’accesso ai documenti amministrativi.

Non vi era poi alcuna contraddizione tra la proposta del 13 marzo e quella del 26 marzo 2013, in quanto nella seconda si dava conto degli approfondimenti condotti su richiesta del direttorio in merito alla determinazione dell’entità della sanzione, dovendosi applicare della L. n. 689 del 1981, art. 8.

2.2 La Corte d’Appello rigettava tutti i restanti motivi di opposizione attinenti l’illegittimità del procedimento sanzionatorio.

In particolare, la contestazione non era tardiva, essendo stata fatta nel termine previsto, tenuto conto che le condotte rilevate nell’ispezione del 2012 erano diverse da quelle riscontrate nel 2010. Non vi era stata alcuna violazione degli artt. 24 e 111 Cost. e neanche dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, in quanto le sanzioni irrogate ai sensi dell’art. 144 TUB per carenze nell’organizzazione e nei controlli interni non erano equiparabili quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle erogate ai sensi dell’art. 187 ter TUF per manipolazione del mercato, sicchè non avendo natura sostanzialmente penale non ponevano un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU.

2.3 Secondo la Corte d’Appello, inoltre, il procedimento sanzionatorio si era svolto nel rispetto dei principi della piena conoscenza degli atti istruttori, del contraddittorio, della verbalizzazione, nonchè della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie, mentre non era previsto che la proposta sanzionatoria dovesse essere portata a conoscenza degli interessati, per consentirgli di controdedurre.

Il contraddittorio, infatti, si era realizzato mediante la contestazione degli addebiti e la facoltà di presentare controdeduzioni con l’audizione personale. Peraltro, il procedimento di opposizione si era svolto anche con modalità pubbliche a seguito della entrata in vigore del D.Lgs. n. 72 del 2015. I verbali della CEI e del direttorio erano disponibili e l’interessato poteva acquisirli anche se non si era avvalso di tale facoltà.

La contestazione degli addebiti era sufficientemente precisa con l’indicazione delle norme violate e, inoltre, alla stessa era allegato anche il rapporto ispettivo.

2.4 Nel merito la Corte d’Appello rilevava che l’opponente non aveva fornito alcun elemento concreto idoneo a smentire quanto verificato dall’organo di vigilanza o a dimostrare la sussistenza dei presupposti per una riduzione delle sanzioni.

La Banca d’Italia aveva già svolto accertamenti ispettivi presso la Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A. nel 2010, da tali verifiche erano emerse problematiche nella situazione di liquidità, un’elevata esposizione ai rischi di tasso e altre criticità gestionali legate alle caratteristiche di taluni cospicui investimenti in titoli di Stato italiani. Alla suddetta ispezione era conseguita la raccomandazione agli organi gestionali della banca di realizzare un consistente aumento di capitale con rafforzamento del sistema dei controlli interni. Nel periodo successivo, Banca d’Italia aveva monitorato l’evoluzione del profilo di rischio. L’organo di vigilanza, pur tenendo conto della congiuntura negativa e del grave deterioramento dei mercati finanziari nel biennio 2010 – 2011, aveva rilevato, sotto il profilo del nesso eziologico, cospicue carenze operative proprie dell’azione strategica e manageriale del comitato direttivo del gruppo della banca nel contenimento del rischio della de-patrimonializzazione mediante condotte anche omissive di per sè idonee ad integrare le irregolarità contestate. Dall’estate del 2011, a seguito di un nuovo marcato indebolimento della situazione di liquidità di Monte dei Paschi, Banca d’Italia aveva nuovamente sollecitato i vertici aziendali ad assumere con urgenza tutte le iniziative idonee a ripristinare congrui margini di liquidità.

L’organismo di vigilanza aveva avviato anche un’ispezione per garantire un presidio diretto sulla gestione della liquidità del gruppo. Gli accertamenti ispettivi svolti nel periodo compreso tra il 27 settembre 2011 e il 9 marzo 2012, determinanti le sanzioni irrogate con la Delibera impugnata, avevano ad oggetto la gestione dei rischi finanziari al fine di verificare se fossero state superate le carenze nella gestione finanziaria emerse nel corso della precedente ispezione, nonchè l’adeguatezza dei processi di quantificazione dell’attivo a rischio. L’ultima ispezione si era conclusa con un giudizio sfavorevole dal quale era emerso un marcato degrado dei profili tecnici della banca ed era stato accertato il sensibile peggioramento del profilo relativo alla liquidità, sfociato nella seconda metà del 2011 in una vera e propria crisi finanziaria che trovava la sua origine nella carente azione strategica e manageriale, nonchè in iniziative contraddittorie non ispirate a criteri di sana e prudente gestione. Infatti, erano state promosse azioni di massimizzazione della redditività nel breve periodo, in larga parte estranee all’operatività tipica del gruppo, nonchè connotate in termini di rischio e non sostenibili sulla scorta degli usuali parametri di governo e dei correlati presidi di controllo.

L’opponente, peraltro, non aveva contestato in termini specifici gli addebiti contestati dall’organo di vigilanza sì che potevano dirsi accertati i comportamenti di cui ai rilievi 4-10 della contestazione numero 2 sulla violazione della normativa in materia di contenimento dei rischi finanziari e i rilievi numero 4, 11, 12, 15 di cui alla contestazione numero 3 sulle carenze nell’organizzazione e nei controlli interni.

Il direttore generale non poteva ritenersi mero esecutore materiale degli ordini impartiti dall’organo di supervisione strategica, essendo piuttosto organo ausiliario fornito di autonomi poteri, di iniziative e di decisione, come esplicitato sia nel testo statutario della banca, sia nella regolamentazione interna.

Neanche il momento eccezionale dei mercati poteva essere motivo di giustificazione dell’azione tardiva e scarsamente incisiva adottata. Le deduzioni svolte dal V. in riferimento agli investimenti in strumenti finanziari di durata elevata effettuati a partire da maggio 2009 erano sostanzialmente ammissivi di una sottovalutazione dei rischi. L’inadeguatezza delle previsioni non poteva giustificarsi, come preteso dal V., sull’assunto dell’impossibilità di una valutazione ex ante. Secondo la Corte d’Appello, infatti, proprio la mancanza di una corretta analisi dei fattori di rischio, oltre che l’omessa sistematica utilizzazione delle prove di stress erano elementi che connotavano negativamente l’operato dell’organo esecutivo e del direttore generale in detta fase.

L’Autorità di vigilanza aveva già attirato l’attenzione degli organi gestionali di Monte dei Paschi di Siena sulla variazione del contesto di riferimento e aveva richiesto interventi tempestivi per adeguare il profilo di rischio dell’intermediario all’evoluzione in corso dei mercati. Dunque era priva di pregio l’argomentazione formulata dal ricorrente per dimostrare il sopravvenire di circostanze eccezionali e imprevedibili.

3. V.A. ha proposto ricorso avverso il suddetto decreto sulla base di nove motivi.

4. La Banca d’Italia ha resistito con controricorso.

5. Entrambe le parti, con memoria depositata in prossimità dell’udienza, hanno insistito nelle rispettive richieste.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 145, L. n. 689 del 1981, art. 23 e D.Lgs. n. 150 del 2011, artt. 4 e 6. Violazione e falsa applicazione dell’art. 11, comma 2, art. 46, commi 1 e 2, art. 73, comma 1 e art. 119 codice del processo amministrativo. Violazione e falsa applicazione degli artt. 50,152,153,154 c.p.c.. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 111 Cost.. Violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c..

Il ricorrente lamenta l’erroneità della decisione della Corte d’Appello nella parte in cui ha disatteso l’eccezione di tardività del deposito della memoria difensiva da parte di Banca d’Italia. A parere del ricorrente l’errore è stato determinato dal non aver tenuto conto delle conseguenze giuridiche in termini di preclusione e decadenza derivanti dalla presenza di una fase processuale precedente, tenutasi dinanzi al giudice amministrativo. Infatti, ai sensi dell’art. 46 codice del processo amministrativo, Banca d’Italia avrebbe dovuto depositare innanzi al Tar del Lazio la propria memoria e gli allegati documenti entro sessanta giorni dalla notificazione del ricorso come previsto dall’art. 119 codice del processo amministrativo. Invece, la Banca d’Italia aveva depositato un atto di costituzione solo in data 4 settembre 2013, senza dedurre alcunchè, mentre il termine scadeva il 30 luglio 2013.

Le decadenze in cui era incorsa la Banca d’Italia non potevano essere sanate nell’ambito del giudizio riassunto. Tale sanatoria sarebbe preclusa dalla L. n. 69 del 2009, art. 59, comma 2 e dall’art. 11, comma 2 codice del processo amministrativo, secondo cui devono essere tenute ferme, in caso di traslazione del giudizio, le preclusioni e le decadenze intervenute.

Dunque, il deposito della memoria e di tutti documenti con essa prodotti dovrebbero ritenersi inammissibili, trattandosi di attività oramai preclusa dalle decadenze già maturate innanzi al Tar Lazio.

Peraltro, sarebbe erronea anche la parte della sentenza nella quale si definisce il termine come ordinatorio, in quanto com’è noto prima della scadenza di un termine ordinatorio è necessario chiedere una proroga per non incorrere nella decadenza ad esso connessa.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, artt. 145, L. n. 689 del 1981, art. 23 e D.Lgs. n. 150 del 2011, artt. 4 e 6. Violazione e falsa applicazione degli artt. 166,167,347, 416 e 436 c.p.c.. Violazione e falsa applicazione degli artt. 50,152,153, 154 c.p.c. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 111 Cost.. Violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c..

Il ricorrente evidenzia che la decisione della Corte d’Appello sulla ammissibilità della memoria della Banca d’Italia deve considerarsi erronea anche qualora si consideri come autonomo il giudizio instaurato a seguito della riassunzione della causa dopo la declaratoria di mancanza di giurisdizione del G.A..

Secondo la Corte d’Appello non è configurabile alcuna decadenza o preclusione mancando una norma in tal senso nel procedimento delineato dall’art. 145 TUB. A parere del ricorrente tutte le disposizioni che disciplinano la costituzione del convenuto, invece, stabiliscono che nel primo scritto difensivo questi deve proporre tutte le sue difese, prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende valersi e i documenti che offre in comunicazione. La Banca d’Italia aveva depositato il proprio atto di costituzione il 7 dicembre 2015, consumando interamente le facoltà esercitabili con il primo atto difensivo, sicchè il successivo atto depositato l’11 dicembre 2015 doveva essere ritenuto inammissibile.

2.1 I primi due motivi del ricorso, che possono essere trattati congiuntamente stante la loro evidente connessione, sono infondati.

Il ricorrente lamenta la tardività della memoria prodotta dalla Banca d’Italia e della relativa documentazione ad essa allegata.

In primo luogo, deve osservarsi che la memoria della Banca d’Italia è stata tempestiva, in quanto depositata entro il termine assegnato dalla Corte d’Appello dell’11 dicembre 2015.

A nulla rileva che prima della memoria vi sia stato un altro atto di costituzione, in quanto con tale atto non si è consumato il potere di esercitare tutti i diritti propri della parte fino all’esaurirsi del termine previsto dalla legge o dal Giudice, anche in ragione del fatto che il primo atto difensivo ha essenzialmente assolto, per il suo carattere generico, ad una non equivoca funzione di mera costituzione e non di approntamento delle difese.

Peraltro, nel giudizio instaurato dinanzi alla Corte d’Appello, le presunte decadenze in cui sarebbe incorsa la Banca d’Italia nella fase del giudizio che si era svolta dinanzi al giudice amministrativo, prima della declaratoria del difetto di giurisdizione a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 94 del 2014, non assumono alcuna rilevanza anche qualora si fossero effettivamente prodotte.

La L. n. 69 del 2009, art. 59, prevede, infatti, che sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall’instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. Tale norma si riferisce alle preclusioni e decadenze di carattere sostanziale che attengono alla azionabilità della situazione giuridica soggettiva fatta valere e non alle regole processuali che necessariamente devono seguire la disciplina del rito applicabile.

In tal senso, infatti, il successivo periodo dell’art. 59 citato prevede che la domanda si ripropone con le modalità e secondo le forme previste per il giudizio davanti al giudice adito in relazione al rito applicabile. Infine, l’ultimo comma prevede che: “In ogni caso di riproposizione della domanda davanti al giudice di cui al comma 1, le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come argomenti di prova.

Il Collegio, pertanto, intende dare continuità al seguente principio di diritto: “L’unicità del giudizio, dal quale discende la salvezza degli effetti della domanda originaria, riconosciuta dalla L. n. 69 del 2009, art. 59, sussiste anche quando la domanda non venga “riassunta”, bensì “riproposta”, con le modifiche rese necessarie dalla diversità di rito e di poteri delle diverse giurisdizioni in rilievo, sicchè al momento della prosecuzione la parte può anche formulare una nuova e distinta domanda, connessa con quella originariamente proposta, dovendosi riconoscere all’atto di prosecuzione anche natura di atto introduttivo di un nuovo giudizio limitatamente al diverso petitum ed alla diversa causa petendi, senza che, rispetto ad esso, operino gli effetti che discendono dalla transiatio, ferma restando la maturazione delle sole decadenze sostanziali e non anche di quelle endoprocessuali, suscettibili di operare soltanto in relazione al rito applicabile dinanzi al giudice ad quem (Sez. lavoro Sent. n. 15223 del 2016).

Infine, ferma restando la tempestività dell’attività processuale svolta dalla Banca d’Italia (memoria e produzione documentale), giova ribadire che, con riferimento alla memoria di costituzione, trattandosi di mero atto difensivo, non vi sarebbe stata alcuna preclusione alla sua ammissibilità, anche perchè il procedimento si era svolto nelle forme dell’udienza pubblica e le medesime difese erano state o avrebbero potuto essere svolte nel corso della discussione.

Peraltro, il ricorrente non precisa quale pregiudizio abbia avuto dalla produzione della suddetta memoria mentre secondo la giurisprudenza di questa Corte si può vantare un diritto al rispetto delle regole del processo solo se, in dipendenza della loro violazione (violazione come si è detto nella specie non realizzata), ne derivi un concreto pregiudizio (Sez. 3, Sent. n. 3432 del 2016).

La violazione di norme processuali, infatti, può costituire motivo idoneo di ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, solo quando abbia influito in modo determinante sul contenuto della decisione di merito, ovvero allorchè quest’ultima – in assenza di tale vizio – non sarebbe stata resa nel senso in cui lo è stata (Sez. 3, Sent. n. 22978 del 2015).

Con riferimento alla documentazione prodotta in giudizio dalla Banca d’Italia, infine, deve richiamarsi anche la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale nei giudizi di opposizione a sanzioni amministrative: “la produzione di documenti da parte dell’Autorità opposta, può intervenire anche nel corso del giudizio, non avendo il termine relativo natura perentoria, e indipendentemente dalla costituzione della predetta autorità o dalla comparizione della medesima, senza che venga perciò in considerazione il disposto dell’art. 87 disp. att. c.p.c., che contempla (regolandone le modalità) la diversa ipotesi di documenti offerti in comunicazione alle parti dopo la costituzione” (Sez. 1, Sent. n. 14016 del 2002).

Infine, deve richiamarsi anche l’orientamento consolidato secondo cui: “In tema di opposizione a sanzione amministrativa, grava sull’amministrazione opponente l’onere di provare gli elementi costitutivi dell’illecito, ma la sua inerzia processuale non determina l’automatico accertamento dell’infondatezza della trasgressione, poichè il giudice, chiamato alla ricostruzione dell’intero rapporto sanzionatorio e non soltanto alla valutazione di legittimità del provvedimento irrogativo della sanzione, può sopperirvi sia valutando i documenti già acquisiti sia disponendo d’ufficio i mezzi di prova ritenuti necessari” (Sez. 2, Ord. n. 24691 del 2018).

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione degli artt. 24,25, 97 e 111 Cost.. Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 145 e del regolamento della Banca d’Italia del 25 giugno 2008 relativo ai procedimenti sanzionatori di cui al medesimo art. 145. Violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, artt. 18 e 28. Violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Il ricorrente consapevole dell’orientamento della Corte di cassazione circa la coincidenza del termine finale per l’adozione del provvedimento sanzionatorio con il termine di prescrizione previsto dalla L. n. 689 del 1981, art. 28, invita la Corte ad un ripensamento sul punto. A tal fine richiama le argomentazioni svolte dal Consiglio di Stato, secondo cui la mancata conclusione del procedimento sanzionatorio amministrativo entro il termine di 240 giorni, stabilito nel provvedimento del Governatore della Banca d’Italia del 25 giugno 2008, ha come inevitabile conseguenza la radicale illegittimità della Delibera che deve essere annullata. Ciò anche in relazione al diritto di difesa e, dunque, anche in coerenza con la previsione contenuta nell’art. 6, comma 1, CEDU.

4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., art. 2697 c.c., L. n. 689 del 1981, art. 23, D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, comma 11. Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 145 e del regolamento della Banca d’Italia del 25 giugno 2008.

Il ricorrente contesta l’interpretazione della Corte d’Appello secondo la quale, nel caso di proroga del termine per presentare le controdeduzioni, il dies a quo del termine finale per l’adozione del provvedimento decorre dalla scadenza del termine prorogato.

A parere dei ricorrenti invece i 240 giorni previsti per la conclusione del procedimento decorrono dalla scadenza del termine fissato dall’art. 145 TUB, senza che assuma alcun rilievo l’eventuale proroga per le controdeduzioni. La disciplina, infatti, prevede che l’eventuale proroga del termine previsto dall’art. 145 TUB non consente il differimento del termine finale del procedimento, di conseguenza, essendo stato il provvedimento sanzionatorio adottato ben oltre il termine del 240 giorni decorrente dalla scadenza dei 30 previsti dall’art. 145 TUB, il provvedimento sanzionatorio è illegittimo e deve essere annullato.

Peraltro, la Banca d’Italia non aveva fornito alcuna prova e alcuna motivazione a supporto della scelta di concedere al B. una proroga più ampia rispetto a quella concessa a tutti gli altri “sanzionandi” e, in più, non era stata fornita alcuna prova del fatto che le controdeduzioni del B. erano state effettivamente presentate il 31 luglio 2012. In ogni caso l’art. 6, comma 3, del regolamento prevede che la presentazione di memorie documenti oltre il termine indicato al comma 1, non può mai determinare il differimento del termine finale del procedimento. Inoltre, è previsto che si possono presentare memorie e documenti entro un termine pari alla metà di quello fissato per l’adozione del provvedimento e, dunque, anche quando il termine ultimo per controdedurre è scaduto.

Inoltre, il ricorrente lamenta il fatto che la Banca d’Italia non ha fornito alcuna prova della sussistenza del presupposto per concedere una proroga al dottor B., non potendo valere a tal fine una mera comunicazione interna, inviata dall’area vigilanza bancaria e finanziaria al direttore della sede di Firenze, che faceva riferimento alla richiesta di proroga motivata con riferimento alla complessità e all’ampiezza dei rilievi formulati, alla necessità di reperire della documentazione e all’esigenza di coordinare le proprie deduzioni con quelle presentate alla banca. A parere del ricorrente la Banca d’Italia non aveva provato nè che ci fosse stata effettivamente una richiesta di proroga nè che tale richiesta fosse stata effettivamente concessa, a nulla rilevando il documento interno cui si è fatto cenno. Non potendo la comunicazione interna inviata dalla Banca d’Italia a sè stessa costituire giuridicamente una valida prova.

4.1 Il quarto motivo è infondato e determina l’assorbimento del terzo.

In particolare deve evidenziarsi che l’interpretazione della Corte d’Appello dell’art. 145 TUB e del regolamento della Banca d’Italia è corretta ed esente dalle censure lamentate dal ricorrente e, dunque, il termine di conclusione del procedimento sanzionatorio nella specie è stato rispettato, tenuto conto del dies a quo della sua decorrenza rappresentato, nella specie, dalla scadenza del termine per la presentazione delle controdeduzioni del dottor B., termine prorogato fino al 3 agosto 2012 con provvedimento della Banca d’Italia protocollato in data 9 luglio 2012.

Il regolamento della Banca d’Italia, infatti, prevede che il provvedimento di irrogazione delle sanzioni è adottato dal Direttorio dalla Banca d’Italia entro 240 giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle controdeduzioni da parte del soggetto che ha ricevuto per ultimo la notifica della contestazione. Il termine si considera unico per tutti i destinatari delle contestazioni, anche a prescindere dal concorso nella medesima violazione. Ne consegue che, ove tale termine sia stato prorogato, il termine finale di conclusione del procedimento decorre dallo scadere del nuovo termine come prorogato.

La censura circa la mancanza di prova della proroga è del tutto infondata posto che la proroga del termine per controdeduzioni del B. è stata protocollata in data certa e il registro di protocollo di un pubblico ufficio, nel quale vengono annotati in ordine cronologico gli atti e le corrispondenze in arrivo ed in partenza, costituisce atto pubblico di rilevanza esterna e fa fede fino a querela di falso, in quanto destinato a provare la data dell’annotazione e la successione nel tempo delle ricezioni e delle spedizioni, così consentendo di desumere l’esistenza a quella data del documento ricevuto o spedito (Sez. U, Sent. n. 759 del 1999).

5. Il quinto motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione degli artt. 24,25, 97 e 111 Cost.. Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, artt. 144 e 145. Violazione e falsa applicazione della L. n. 262 del 2005, art. 24. Violazione e falsa applicazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2702 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c..

Il ricorrente lamenta che il decreto della Corte d’Appello di Roma, nel respingere il suo quinto motivo di opposizione, ha fatto proprio un orientamento giurisprudenziale della Cassazione secondo il quale il principio del contraddittorio e della distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie previsti dalla L. n. 262 del 2005, art. 24, impone solo che agli incolpati sia trasmessa la contestazione degli addebiti e non prevede che gli stessi siano ascoltati durante la discussione orale, essendo sufficienti le loro difese scritte. Secondo tale orientamento le garanzie previste dagli artt. 24 e 111 Cost., non trovano applicazione nei procedimenti sanzionatori amministrativi ma solo in quelli formalmente giurisdizionali e la sanzione pecuniaria ex art. 144 TUB non presenta, alla stregua della giurisprudenza della Corte dei Diritti dell’Uomo, un carattere di afflittività tale da essere equiparabile, per tipologia, severità ed idoneità, ad incidere nella sfera patrimoniale e personale, alla sanzione penale, anche perchè non accompagnata da sanzioni di natura accessoria.

Il ricorrente ritiene erronea l’attribuzione di una natura anche sostanzialmente amministrativa alla sanzione prevista dall’art. 144 TUB che invece deve essere considerata sostanzialmente penale. ciò anche in ragione dell’entità della pena pecuniaria prevista comparata anche a quella di cui all’art. 187 ter TUF, oltre che tenuto conto di altri indici rivelatori della sua natura punitiva.

Inoltre, sulla base di tale premessa, il ricorrente afferma che l’equiparazione fra sanzioni formalmente penali e sanzioni sostanzialmente penali non possa essere limitata al solo diritto sostanziale ma debba riguardare anche quello processuale e, dunque, comporti l’applicazione di tutte le garanzie previste per le prime.

Il V. lamenta che non gli sono stati trasmessi alcuni verbali delle riunioni delle commissioni per l’esame delle irregolarità tra i quali il n. 4 del 4 febbraio 2013 e n. 5 dell’11 febbraio 2013, e altro del 20 marzo 2013 nonchè la Delib. direttore della Banca d’Italia n. 180 del 2013, documenti ai quali la motivazione del provvedimento sanzionatorio faceva riferimento per relationem. Peraltro, nella proposta sanzionatoria non era affatto riportato il contenuto della Delib. n. 162 del 2013, cui la Corte d’Appello faceva riferimento, sia pure erroneamente, indicandola con il n. 180 e non con il n. 162.

Di conseguenza la Banca d’Italia non aveva adempiuto all’onere probatorio al fine di mostrare quale fosse il contenuto della citata Delib. n. 162 del 2013 e che tale contenuto fosse effettivamente quello riprodotto nella proposta sanzionatoria notificata.

5. Il quinto motivo di ricorso è infondato.

Preliminarmente deve affermarsi l’inammissibilità delle censure di diretta violazione degli artt. 24,25, 97 e 111 Cost..

La violazione delle norme costituzionali non può essere prospettata direttamente come motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, realizzandosi sempre per il tramite dell’applicazione di una norma di legge, deve essere portato ad emersione mediante l’eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata (Sez. 5, Ord. n. 15879 del 2018).

Inoltre, deve affermarsi l’infondatezza della interpretazione dell’art. 6 CEDU e della giurisprudenza della Corte dei diritti dell’Uomo sui procedimenti aventi ad oggetto sanzioni aventi natura sostanzialmente penale. In tali procedimenti, infatti, non devono applicarsi le medesime garanzie processuali proprie dei procedimenti giurisdizionali aventi ad oggetto sanzioni penali.

In proposito deve richiamarsi la giurisprudenza consolidata secondo la quale: In tema di sanzioni che, pur qualificate come amministrative, abbiano natura sostanzialmente penale, la garanzia del giusto processo, ex art. 6 della CEDU, può essere realizzata, alternativamente, nella fase amministrativa – nel qual caso, una successiva fase giurisdizionale non sarebbe necessaria – ovvero mediante l’assoggettamento del provvedimento sanzionatorio adottato in assenza di tali garanzie – ad un sindacato giurisdizionale pieno, di natura tendenzialmente sostitutiva ed attuato attraverso un procedimento conforme alle richiamate prescrizioni della Convenzione, il quale non ha l’effetto di sanare alcuna illegittimità originaria della fase amministrativa giacchè la stessa, sebbene non connotata dalle garanzie di cui al citato art. 6, è comunque rispettosa delle relative prescrizioni, per essere destinata a concludersi con un provvedimento suscettibile di controllo giurisdizionale – Fattispecie in tema di sanzioni applicate dalla Consob all’esito del procedimento amministrativo previsto dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 24 (Sez. 2, Sent. n. 770 del 2017).

Le stesse Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 20935 del 2009 hanno affermato che i precetti costituzionali riguardanti il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e il giusto processo (art. 111 Cost.) riguardano espressamente e solo il giudizio, ossia il procedimento giurisdizionale che si svolge avanti al giudice e non il procedimento amministrativo, ancorchè finalizzato all’emanazione di provvedimenti incidenti su diritti soggettivi; cosicchè l’incompleta equiparazione del procedimento amministrativo sanzionatorio a quello giurisdizionale non viola in alcun modo la Costituzione.

In sostanza, in continuità con la citata sentenza n. 8210 del 2016 di questa Sezione, deve affermarsi che – in materia di irrogazione di sanzioni che, pur qualificate come amministrative, abbiano, alla stregua dei criteri elaborati dalla Corte EDU, natura sostanzialmente penale – gli Stati possono scegliere se realizzare le garanzie del giusto processo di cui all’art. 6 della Convenzione EDU già nella fase amministrativa (nel qual caso, nella logica di tale Convenzione, una fase giurisdizionale non sarebbe nemmeno necessaria) o mediante l’assoggettamento del provvedimento sanzionatorio applicato dall’autorità amministrativa (all’esito di un procedimento non connotato da quelle garanzie) ad un sindacato giurisdizionale pieno, di natura tendenzialmente sostitutiva, attuato attraverso un procedimento conforme alle prescrizioni dell’art. 6 della Convenzione. Nel secondo caso, non può ritenersi che il procedimento amministrativo sia illegittimo, in relazione ai parametri fissati dall’art. 6 della Convenzione, e che la successiva fase giurisdizionale determini una sorta di sanatoria di tale originaria illegittimità; al contrario, il procedimento amministrativo, pur non offrendo esso stesso le garanzie di cui all’art. 6 della Convenzione, risulta all’origine conforme alle prescrizioni di detto articolo, proprio perchè è destinato a concludersi con un provvedimento suscettibile di un sindacato giurisdizionale pieno, nell’ambito di un giudizio che assicura le garanzie del giusto processo.

Non sussiste, dunque, nessuna violazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, artt. 144 e 145 e neanche il prospettato contrasto con l’art. 6, p. 1, della Convenzione EDU proprio in ragione di quanto sopra si è precisato: il procedimento sanzionatorio in esame non partecipa della natura giurisdizionale del processo, che è solo quello che si svolge davanti a un giudice (cfr., S.U. n. 4429/2014).

Quanto alla censura di violazione della L. n. 262 del 2005, art. 24, deve essere assicurata continuità alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, la quale ha ampiamente chiarito che la norma citata non conforma il procedimento sanzionatorio qui in esame al modello del processo in senso tipico e stretto: 1) l’esercizio del contraddittorio non impone la partecipazione orale in sede decisoria, essendo il principio assicurato dalla possibilità di produrre difese scritte e documenti, nonchè i verbali delle rese dichiarazioni; 2) il diritto di difesa viene ampiamente assicurato dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, dalla contestazione circostanziata, dalla facoltà di controdedurre e di essere ascoltato, nonchè dall’accesso alle prove (cfr., ex multis, Cass. n. 19219/2016; n. 4725/2016; n. 25141/2015).

Infine, è infondata anche la censura di violazione degli artt. 2697, 2702 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., per la mancata trasmissione dei verbali delle riunioni delle commissioni per l’esame delle irregolarità n. 4 del 4 febbraio 2013 e n. 5 dell’11 febbraio 2013, e quello del 20 marzo 2013 nonchè la Delib. direttore della Banca d’Italia n. 180 del 2013, documenti ai quali la motivazione del provvedimento sanzionatorio faceva riferimento per relationem.

Il ricorrente accomuna due profili distinti, l’uno attinente la possibilità di motivare per relationem il provvedimento sanzionatorio e l’altro relativo al criterio di valutazione della prova del giudice del merito.

Sul primo punto è sufficiente richiamare l’orientamento consolidato di questa Corte secondo il quale nel procedimento per l’irrogazione di sanzioni amministrative in materia bancaria e creditizia il decreto che applica la sanzione può essere motivato per relationem, mediante il rinvio all’atto recante la proposta di irrogazione della sanzione, purchè quest’ultimo sia richiamato nel provvedimento con la precisa indicazione dei suoi estremi e sia reso disponibile agli interessati, secondo le modalità che disciplinano il diritto di accesso ai documenti della pubblica amministrazione (Cass. n. 16313/2016).

Quanto al secondo profilo è sufficiente rilevare come già fatto dalla Corte d’Appello che gli atti dei quali il ricorrente lamenta l’omessa comunicazione sono stati interamente riprodotti nella proposta sanzionatoria a lui regolarmente trasmessa.

In ogni caso nessuna violazione dei criteri di valutazione della prova si è verificata nella specie. Peraltro con specifico riferimento alla censura di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., il ricorrente non indica alcun omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e il collegio intende dare continuità al seguente principio di diritto: “In tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012” (Sez. 3, Sent. n. 23940 del 2017).

6. Il sesto motivo di ricorso è così rubricato violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e dell’art. 118 disp. di att. c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2697 e 2699 c.c., L. n. 689 del 1981, art. 23, D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, comma 11.

A parere del ricorrente il decreto impugnato compie una ricostruzione dei fatti non accompagnata dall’indicazione degli elementi probatori su quali si fonda e delle prove prodotte e acquisite, limitandosi a recepire quanto sostenuto dalla Banca d’Italia senza alcun riferimento probatorio. Le uniche due eccezioni a tale carenza assoluta di prove sono la lettera di riscontro del Monte dei Paschi di Siena del 17 dicembre 2010, peraltro documento non presente negli atti di causa, e le considerazioni svolte nel Decreto n. 7353 del 2016, in relazione alla posizione del vicedirettore generale R..

In ogni caso vi sarebbe un errore e falsa applicazione delle norme in materia di oneri probatori e di valutazione delle prove in violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c..

In particolare, la Corte d’Appello avrebbe erroneamente attribuito valore probatorio al verbale ispettivo della Banca d’Italia, mentre spetta all’organo amministrativo di provare i fatti costitutivi della pretesa sanzionatoria avanzata. I verbali ispettivi fanno fede solo dei fatti attestati nel verbale come avvenuti alla presenza del pubblico ufficiale o da lui compiuti mentre tale fede privilegiata non si estende alla veridicità del contenuto dei documenti che il verbalizzante assume di aver esaminato e, ancor meno, alle sue valutazioni.

La Corte d’Appello, invece, ha respinto l’opposizione, ritenendo sussistenti i presupposti per l’irrogazione della sanzione unicamente sulla base di quanto scritto nel verbale ispettivo senza che lo stesso avesse alcun documento allegato. La stessa Corte di Cassazione ha già affermato che i verbali redatti dai funzionari fanno fede fino a querela di falso solo dei fatti attestati in loro presenza, e il materiale raccolto dal verbalizzante deve essere liberamente apprezzato dal giudice che può valutarne l’importanza ai fini della prova ma non può addossare all’opponente l’onere di fornire la prova dell’insussistenza dei fatti a lui contestati.

Dunque, la Corte d’Appello avrebbe dovuto valutare il contenuto del verbale ispettivo in concorso con altri elementi probatori che nella specie mancavano del tutto non essendo allegato alcun altro documento. Non sono stati prodotti in giudizio neanche il testo statutario e la regolamentazione interna aziendale, atti erroneamente richiamati dalla Corte d’Appello.

6.1 Il sesto motivo di ricorso è infondato.

In primo luogo è del tutto infondata la censura di difetto assoluto di motivazione, avendo la Corte d’Appello di Roma ampiamente motivato su tutti i motivi di opposizione sulla base delle risultanze istruttorie e delle conclusioni alle quali era giunta la Banca d’Italia.

Peraltro, la censura risulta infondata sulla base della stessa ricostruzione operata dal ricorrente, il quale fa riferimento alla motivazione resa dalla Corte d’appello.

Quanto alla censura di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., anche in questo caso il ricorrente non indica alcun omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e deve nuovamente richiamarsi il principio di diritto secondo il quale: “In tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012” (Sez. 3, Sent. n. 23940 del 2017).

Quanto alla violazione. degli artt. 2697 e 2699 c.c. e della L. n. 689 del 1981, art. 23, D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, comma 11, la pronuncia della Corte d’Appello di Roma è conforme agli orientamenti di questa Corte circa l’efficacia probatoria nei giudizi di opposizione a sanzioni amministrative dei verbali ispettivi.

Tali verbali hanno un triplice livello di attendibilità: a) sono assistiti da fede privilegiata, ai sensi dell’art. 2700 c.c., relativamente ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti in sua presenza o che abbia potuto conoscere senza alcun margine di apprezzamento o di percezione sensoriale, nonchè quanto alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni a lui rese; b) fanno fede fino a prova contraria quanto alla veridicità sostanziale delle dichiarazioni rese dalle parti o da terzi e dunque anche del contenuto di documenti formati dalla parte e/o da terzi; c) per tutti gli altri aspetti anche relativi all’esame della documentazione costituiscono comunque elemento di prova, che il giudice deve in ogni caso valutare, in concorso con gli altri elementi, potendo essere disattesi solo in caso di motivata intrinseca inattendibilità o di contrasto con altri elementi acquisiti nel giudizio, attesa la certezza, fino a querela di falso, che quei documenti sono comunque stati esaminati dall’agente verificatore.

Il ricorrente contesta solo genericamente che i verbali delle ispezioni della Banca d’Italia siano stati posti a fondamento dell’accertamento delle violazioni che gli sono state contestate, e tuttavia, non indica in quale parte gli stessi non potevano essere utilizzati come fonte di prova e con riferimento a quale specifica condotta.

In ogni caso, in disparte tale profilo di inammissibilità della censura per mancanza di specificità, dalla lettura del decreto impugnato emerge che il giudice del merito ha scrutinato il contenuto dei verbali ispettivi apprezzandoli liberamente ed operando un complessivo esame delle risultanze istruttorie sulla scorta di una motivazione priva di contraddizioni. Peraltro, la Corte d’Appello ha correttamente evidenziato che il ricorrente non aveva fornito alcun elemento concreto che valesse a smentire quanto verificato dall’organo di vigilanza. L’atto di opposizione, infatti, era incentrato soprattutto sulle pretese violazioni procedimentali e non contestava in termini specifici ed esaustivi, nel merito, gli addebiti come contestati dall’organo di vigilanza (pagina 14 decreto impugnato).

Nella specie, dunque, non si è realizzata alcuna inversione dell’onere della prova, in quanto i fatti contestati erano stati puntualmente accertati ed era del tutto irrilevante, a tal fine, la produzione in giudizio del testo statutario e della regolamentazione interna aziendale.

7. Il settimo motivo è così rubricato: invalidità della sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per mera apparenza della motivazione ovvero per manifesta illogicità e contraddittorietà della stessa. La Corte d’Appello non identifica e non dice quali siano stati i plurimi atti con i quali è stata più volte violata la medesima disposizione o quali siano state le plurime disposizioni violate con un’unica azione od omissione in relazione alla L. n. 689 del 1981, art. 8. A parere del ricorrente, manca del tutto la motivazione circa le ragioni dell’applicazione dell’art. 8 citato. Secondo il ricorrente manca anche la motivazione con la quale la Corte d’Appello ha respinto la doglianza relativa alla disparità di trattamento rispetto ai membri del Consiglio di Amministrazione e al collegio sindacale che avevano avuto una sanzione di Euro 90000 rispetto a quella applicata al V..

8. L’ottavo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, artt. 144 e 145, art. 2396 c.c. e della L. n. 689 del 1981, artt. 8 e 11.

La Corte d’Appello di Roma, con una motivazione, a parere del ricorrente, meramente apparente, ha respinto le doglianze formulate in relazione all’assenza di motivazione del provvedimento sanzionatorio circa la quantificazione della sanzione. Tra l’altro la Corte d’Appello ha affermato che il V. difettava di interesse in ordine alla censura in esame perchè con la seconda proposta sanzionatoria sarebbe stato applicato un regime a lui più favorevole. In realtà la prima proposta prevedeva una sanzione complessiva pari a Euro 258000 inferiore a quella poi effettivamente irrogata. La considerazione della Corte d’Appello sulla mancanza di interesse, dunque, sarebbe del tutto infondata.

Secondo la Corte d’Appello, l’art. 2396 c.c., equipara il regime di responsabilità dei direttori generali a quello stabilito degli amministratori, e anche secondo il testo statutario e la regolamentazione interna aziendale, la concreta definizione del processo di assunzione e di gestione dei rischi finanziari in Monte dei Paschi di Siena era espressamente demandata agli organi esecutivi. Il ricorrente evidenzia che la Corte d’Appello ha recepito le argomentazioni della Banca d’Italia nonostante questa non avesse prodotto in giudizio nè il testo statutario nè la regolamentazione interna aziendale, non adempiendo all’onere probatorio su di essa gravante.

Inoltre, anche volendo equiparare il regime di responsabilità del direttore generale a quello degli amministratori, nel caso di specie, le sanzioni proposte per il primo sono state superiori a quelle proposte per i componenti del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale.

Nessuna rilevanza assume, invece, l’argomentazione spesa nell’esaminare la posizione individuale dei componenti del comitato direttivo e specificamente del direttore generale, laddove la Corte d’Appello ha affermato di tener conto delle prerogative connesse con tale carica, alla luce del ruolo svolto nell’ambito del comitato ove il direttore generale indirizzava le principali iniziative. Tali motivazioni non tengono conto della doglianza di disparità di trattamento.

Il divieto di cumulo di sanzioni per il caso di più illeciti commessi con un’unica azione o un unico disegno criminoso, come riconosciuto dalla stessa Banca d’Italia, avrebbe dovuto condurre quest’ultimo ad irrogare un’unica sanzione per tutte le violazioni e non a triplicare quella erogata per la prima, sommandola a quella erogata per le altre.

8.1 Il settimo e l’ottavo motivo di ricorso, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono infondati.

Il ricorrente non coglie la ratio decidendi alla base della motivazione della Corte d’Appello. Il cumulo c.d. giuridico di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 8, infatti, consente di applicare la sanzione più grave aumentata fino al triplo nell’ipotesi di chi, con un’azione od omissione, viola diverse disposizioni che prevedono sanzioni amministrative o commette più violazioni della stessa disposizione. Si tratta di una norma di favore perchè altrimenti in applicazione del criterio alternativo del cumulo materiale dovrebbe applicarsi una sanzione per ogni violazione anzichè una sola sanzione, anche se potenzialmente aumentata fino al triplo.

In merito, la giurisprudenza della Corte è assolutamente pacifica nel senso che la previsione relativa all’istituto del cosiddetto “cumulo giuridico” tra sanzioni nella sola ipotesi di concorso formale (omogeneo od eterogeneo) tra le violazioni contestate – per le sole ipotesi, cioè, di violazioni plurime, ma commesse con un’unica azione od omissione – non è suscettibile di essere estesa alla diversa ipotesi del concorso materiale – di concorso, cioè, tra violazioni commesse con più azioni od omissioni. L’art. 8, prevede l’unificazione della sanzione per le sole violazioni commesse con un’unica azione od omissione (concorso formale di illeciti) e non anche quando la pluralità delle violazioni si riconduce a condotte distinte (concorso materiale di illeciti).

In questo senso, dunque, la Corte d’Appello ha ritenuto irrilevante l’applicazione o meno del cumulo giuridico risultando, invece, proporzionata ed adeguata la sanzione applicata, non essendo stati offerti argomenti che potessero far dubitare del principio di congruità nè elementi tali da giustificare un trattamento sanzionatorio più favorevole in base al criterio c.d. del cumulo materiale.

D’altra parte, anche con i motivi in esame, il ricorrente non afferma di aver violato una sola volta la norma di cui alla contestazione, ma lamenta un presunto difetto di motivazione delle ragioni di rigetto del motivo di opposizione, difetto di motivazione che per le ragioni esposte non sussiste.

Manifestamente infondata, infine, è la censura di disparità di trattamento perchè la Corte d’Appello ha fatto riferimento alla congruità della sanzione con riferimento alla carica ricoperta dal V. e al suo ruolo nel compimento della violazione, dovendosi tener conto di una diversa graduazione della responsabilità dei componenti del comitato direttivo.

La sanzione, infatti, deve essere determinata, ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 11, anche sulla base dell’opera svolta dall’agente, nonchè della sua personalità e delle sue condizioni economiche. Non è possibile, pertanto, effettuare una comparazione della sanzione irrogata al ricorrente con gli altri soggetti che hanno concorso nel medesimo illecito amministrativo.

9. Il nono motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. e del D.M. Giustizia n. 55 del 2014.

Nella liquidazione delle spese la Corte d’Appello non ha tenuto conto del fatto che il procedimento di opposizione rientra nell’ambito di quelli di volontaria giurisdizione e che la tabella allegata al decreto ministeriale citato per tali procedimenti prevede una somma inferiore che, anche aumentata del 80% ai sensi del citato D.M. n. 55 del 2014, art. 4, non raggiunge la somma liquidata nel provvedimento impugnato.

9.1 Il motivo è infondato.

In tema di individuazione della natura contenziosa o di volontaria giurisdizione di un procedimento civile, ai fini della liquidazione delle spese di lite, ciò che rileva è l’oggetto del procedimento e la sua effettiva sostanza e natura. Nella specie, pertanto, deve affermarsi la natura contenziosa del giudizio, che ha ad oggetto il provvedimento con il quale sono irrogate sanzioni amministrative, che si svolge in pieno contraddittorio tra le parti e che si conclude con un provvedimento il quale, pur con la forma del decreto motivato, ha natura sostanziale di sentenza ed è suscettibile di acquistare autorità di giudicato. Ne consegue che le spese di lite devono essere liquidate non già in base alla tabella n. 7 del D.M. Giustizia n. 55 del 2014, concernente i procedimenti di volontaria giurisdizione, bensì a quella n. 12 del medesimo D.M., sui giudizi ordinari innanzi alla corte d’appello (Per un caso simile vedi Sez. 2, Sent. n. 10750 del 2019).

10. Il ricorso è rigettato.

11. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

12. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 7.800 più 200 per esborsi;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 14 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2020

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