Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9381 del 20/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 20/04/2010, (ud. 25/03/2010, dep. 20/04/2010), n.9381

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consiglie – –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21916-2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’avvocato DI MODICA SERGIO, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

G.M.G., D.S., C.A.,

elettivamente domiciliate in ROMA, VIA TRIONFALE, 21, presso lo

studio dell’avvocato CAGAGNI FEDERICA, rappresentate e difese

dall’avvocato AVOLA ANDREA, giusta mandato a margine dei

controricorsi;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 933/2006 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 27/07/2006 r.g.n. 1274/04 + altre;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/03/2010 dal Consigliere Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per: inammissibilità per G.,

rigetto per gli altri.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con separati ricorsi al Tribunale di Palermo, quale giudice del lavoro, i nominativi in epigrafe indicati avevano chiesto l’accertamento della nullità del termine apposto ai seguenti contratti di lavoro intercorsi con Poste Italiane s.p.a.:

quanto a G.M.G., per il periodo dal 9.6. al 31.8.00 e quanto a D.S. e C.A. per il periodo dal 7.6. al 31.8.00, tutti “per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso e in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane” ai sensi dell’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del C.C.N.L. del 26 novembre 1994;

con la conseguente conversione dei relativi rapporti a tempo indeterminato e quindi con la condanna della società a riammettere in servizio i lavoratori ricorrenti, pagando loro le retribuzioni perdute a titolo di risarcimento del danno.

Dopo il rigetto delle domande in primo grado, la Corte d’appello di Catania, riuniti i procedimenti, riformando con sentenza depositata il 27 luglio 2006 la decisione del Tribunale, ha accolto le domande di declaratoria di nullità del termine apposto ai contratti di lavoro, dichiarando intercorrente tra le parti un rapporto di lavoro a tempo indeterminato fin dall’inizio nonchè il diritto dei lavoratori ad essere riammessi in servizio e condannando la società a risarcire loro i danni nella misura delle retribuzioni perdute con decorrenza dalla date di costituzione in mora (24.6.2006, di ricezione da parte della società delle richieste di tentativo di conciliazione).

Avverso tale sentenza, la s.p.a. Poste Italiane ha proposto ricorso per cassazione affidato ad 8 motivi, corredati dei relativi quesiti di diritto e relativi, rispettivamente, 1) alla violazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, artt. 1175, 1375, 2697, 1427 e 1431 c.c. artt. 100 e 437 c.p.c. relativamente alla riforma della sentenza di primo grado in punto di intervenuto mutuo consenso tacito in ordine alla risoluzione dei rapporti di lavoro; 2) al vizio di motivazione in rapporto alla riforma del medesimo punto, per avere utilizzato nella formazione del proprio giudizio relativo alle ragioni dell’inerzia degli appellanti, una circolare interna della società (che invitava gli organi direttivi a non stipulare ulteriori contratti a termine con chi avesse un contenzioso in corso con la società), senza spiegare come potevano esserne a conoscenza i dipendenti, cui non era diretta; 3) ancora al vizio di motivazione per aver ritenuto che la causale collettiva avesse necessariamente una efficacia limitata nel tempo; 4) alla violazione della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 2 e della L. n. 56 del 1987, art. 23 in ordine all’argomento di cui al motivo precedente; 5) e 6) alla violazione della L. n. 56 del 1987, art. 23, art. 8 C.C.N.L. 26 novembre 1994, nonchè degli accordi sindacali del 25.9.97, 18.1.98, 27.4.98, 2.7.98, 24.5.99 e 18.1.01, in connessione con gli artt. 1362 e ss. c.c. nonchè al vizio di motivazione, ancora con riferimento al medesimo argomento; 7) in via subordinata, alla violazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1218, 1219, 1223, 2094 e 2099 c.c., per avere la Corte omesso di accertare se vi fosse stata effettiva costituzione in mora e se e in che misura gli appellanti avessero medio tempore svolto altra attività lavorativa redditizia; 8) al vizio di motivazione per avere la Corte territoriale erroneamente valutato come atto di messa in mora del creditore della prestazione la semplice richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione.

Alle domande della società hanno resistito le intimate, con separati rituali controricorso.

Successivamente, in data 29 maggio 2009, il difensore di G. M.G. ha depositato in cancelleria copia del verbale di conciliazione stragiudiziale della controversia, intervenuto in data 25 marzo 2009 in sede sindacale.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente va dichiarata l’inammissibilità del ricorso nei confronti di G.G., in considerazione del venir meno dell’interesse allo stesso, a seguito dell’accordo transattivo raggiunto tra le parti in sede sindacale. Le relative spese di questo giudizio di cassazione vanno compensate nello spirito di quell’accordo transattivo.

I primi due motivi di ricorso, che vanno esaminati congiuntamente attenendo al tema del mutuo consenso tacito alla risoluzione del rapporto di lavoro tra le altre parti, sono infondati.

Secondo infatti la giurisprudenza di questa Corte, cui il collegio aderisce, è suscettibile di essere sussunto nella fattispecie legale di cui all’art. 1372 c.c., comma 1 il comportamento delle parti che determini la cessazione della funzionalità di fatto del rapporto lavorativo a termine in base a modalità tali da evidenziare il loro disinteresse alla sua attuazione, trovando siffatta operazione ermeneutica supporto nella crescente valorizzazione, che attualmente si registra nel quadro della teoria e della disciplina dei contratti, del piano oggettivo del contratto, a discapito del ruolo e della rilevanza della volontà psicologica dei contraenti, con conseguente attribuzione del valore dì dichiarazioni negoziali a comportamenti sociali valutati in modo tipico; e ciò con particolare riferimento alla materia lavoristica ove operano, nell’anzidetta prospettiva, principi di settore che non consentono di considerare esistente un rapporto di lavoro senza esecuzione (cfr., ades., Cass. 6 luglio 2007 n. 15264, 7 maggio 2009 n. 10526).

In proposito, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di voler porre fine al rapporto grava sul datore di lavoro che deduce la risoluzione dello stesso per mutuo consenso (cfr. ad es. Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070 e 2 dicembre 2000 n. 15403).

E’ poi consolidato l’orientamento secondo cui il relativo giudizio, sulla configurabilità o meno, in concreto, di un tale accordo per facta concludentia, viene devoluto al giudice di merito, la cui valutazione, se congruamente motivata, si sottrae a censure in sede di controllo di legittimità della decisione (cfr., diffusamente, tra le altre, le sentenze citate).

Ciò posto in via di principio, si rileva che la Corte territoriale, dichiarando che la mera inerzia del lavoratore non poteva essere interpretata come fatto estintivo del rapporto (in quanto tale effetto consegue dal concorso di altre circostanze significative), ha fatto corretta applicazione di tali principi al caso in esame, facendo riferimento proprio a valutazioni di tipicità sociale con riguardo alla semplice inerzia nella situazione descritta, tenendo esplicitamente conto, tra l’altro, dell’affidamento che il lavoratore “precario” normalmente fa sulla prospettiva di futuri contratti a termine – soprattutto nei riguardi di una società, come le Poste, che di tale tipologia contrattuale faceva al tempo ampio uso – e al timore di pregiudicare tale esito con l’iniziativa giudiziaria, nel caso dì specie confermato dalla accertata conoscenza da parte degli originari ricorrenti di una circolare indirizzata dalla società ai propri funzionari per raccomandare di non assumere a coloro che avessero promosso un giudizio contro Poste nella materia in esame.

Una tale valutazione, proprio perchè ragionevolmente ancorata a parametri di tipicità sociale, non appare censurabile in questa sede di legittimità.

Il terzo, il quarto, il quinto e il sesto motivo di ricorso investono la ritenuta illegittimità del termine apposto ai sensi dell’accordo 25 settembre 1997, integrativo del C.C.N.L. 26 novembre 1994 e dei verbali di intesa sindacale succedutisi al riguardo fino all’aprile 1998.

In proposito, nonostante l’erroneità dell’affermazione per cui la posizione di un termine di efficacia sarebbe connaturale alla causale individuata, sulla base dell’autorizzazione contenuta nella L. n. 56 del 1987, art. 23 dall’accordo sindacale del 1997 integrativo del C.C.N.L. per i dipendenti delle Poste Italiane e utilizzata nei contratti in esame, ciò non comporta l’accoglimento in proposito del ricorso, in quanto la Corte territoriale ha poi comunque individuato negli accordi attuativi del 1997 e 1998 citati in sentenza, l’imposizione di un termine alla causale relativa alle esigenze legate alla ristrutturazione aziendale, accertando che tale termine era scaduto il 30 aprile 1998.

Al riguardo, va ricordato che, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza dì questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 4588/06 e le successive conformi della sezione lavoro, tra le quali, da ultimo, Cass. n. 6913/09), la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 ha operato una sorta di “delega in bianco” alla contrattazione collettiva ivi considerata, quanto alla individuazione di ipotesi ulteriori di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro, sottratte pertanto a vincoli di conformazione derivanti dalla legge n. 230 del 1962 e soggette unicamente ai limiti e condizionamenti contrattualmente stabiliti.

Siffatta individuazione di ipotesi aggiuntive può essere operata anche direttamente, attraverso l’accertamento da parte dei contraenti collettivi di determinate situazioni di fatto e la valutazione delle stesse come idonea causale del contratto a termine (cfr., ad es., Cass. 20 aprile 2006 n. 9245 e 4 agosto 2008 n. 21063).

Nel caso in esame, come ricordato anche dalla ricorrente, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, sottoscritto dai tre maggiori sindacati nazionali, era stata introdotta nel testo dell’art. 8, comma 2 del C.C.N.L. del 1994, quale ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro (oltre quelle originariamente previste ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23) il caso di “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”.

Inoltre, in pari data, le medesime parti collettive avevano stipulato un accordo attuativo, col quale si davano atto che fino al 31 gennaio 1998 l’impresa versava nelle condizioni legittimanti la stipula del contratto a termine per affrontare il processo di ristrutturazione e con successivi accordi attuativi avevano accertato che tali condizioni erano proseguite fino al 30 aprile 1998.

Orbene, con numerose sentenze questa Corte suprema (cfr., per tutte, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866, 28 novembre 2008 n. 28450 e 20 marzo 2009 n. 6913), decidendo in ordine a fattispecie analoghe alla presente, coinvolgenti l’interpretazione delle norme contrattuali collettive indicate, ha ripetutamente confermato, con orientamento ormai consolidato, le decisioni dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto dopo il 30 aprile 1998 a contratti di lavoro stipulati in base alla previsione di cui all’accordo integrativo del 25 settembre 1997 e cassato le poche decisioni di segno opposto.

Pur negando, sulla base della considerazione dell’autonomia delle ipotesi aggiuntive previste dai contraenti collettivi a ciò autorizzati dalla L. del 1987, la necessità che quella di cui all’accordo in questione debba essere istituzionalmente contenuta in limiti temporali predeterminati, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito secondo cui, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data e ai successivi accordi attuativi sottoscritti in data 16 gennaio 1998 e in data 27 aprile 1998, le parti avevano convenuto di limitare il riconoscimento della sussistenza della situazione descritta nell’accordo integrativo unicamente fino al 31 gennaio e poi fino al 30 aprile 1998, per cui, per far fronte alle esigenze in tale sede indicate, l’impresa poteva procedere ad assunzioni di personale con contratto a tempo determinato unicamente fino al 30 aprile 1998, con la conseguente illegittimità dei contratti stipulati successivamente a tale data.

Tale uniforme giurisprudenza di questa Corte ha infatti rilevato che siffatta interpretazione:

– non viola il canone ermeneutico che rimanda al significato letterale degli accordi, laddove questo è stato valutato dai giudici di merito come evidente ed univoco e quindi non necessitante di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti;

– è comunque rispettosa del canone di cui all’art. 1367 c.c. a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno, in quanto ritenendo che gli accordi attuativi non avrebbero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, essi risulterebbero privi di un qualunque utile effetto;

– appare altresì corretta laddove ha ritenuto irrilevante, nella ricostruzione della volontà delle parti, l’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga e quindi quando il diritto del lavoratore alla stabilità del rapporto si era già perfezionato.

Da tali conclusioni della giurisprudenza non vi è ora ragione di discostarsi in questa sede, in quanto le opposte valutazioni sviluppate nelle difese della ricorrente sono sorrette da argomenti ripetutamente scrutinati nelle molteplici occasioni ricordate e non appaiono comunque talmente evidenti e gravi da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti (ancorchè, venendo in considerazione intese sindacali non riconducibili a veri e propri contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro, esse non possano costituire oggetto di diretta interpretazione da parte di questa Corte, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 come integrato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), sul quale si fonda per larga parte l’assolvimento della funzione ad essa affidata di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge.

La decisione impugnata, relativa all’accertata illegittimità della clausola appositiva del termine ai contratti di lavoro degli intimati per la causale individuata dall’accordo 25 settembre 1997 integrativo del C.C.N.L., in quanto stipulati successivamente alla data del 30 aprile 1998, si sottrae pertanto alle censure svolte dalla ricorrente, sopra riassunte.

Infine, quanto al settimo e all’ottavo motivo di ricorso, che investono le conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, va in primo luogo rilevato che, non essendo stato dedotto in ricorso che la società abbia tempestivamente e specificatamente indicato il fatto della percezione medio tempore di altri redditi da parte dei resistenti, i giudici di merito non hanno potuto che prendere atto della estraneità al giudizio del relativo tema.

Inoltre, con riferimento alla censura secondo cui l’atto di costituzione in mora credendi non poteva essere nel caso in esame ravvisato nella richiesta di tentativo di conciliazione, essa non è supportata dalla riproduzione di tale atto, in violazione della regola della autosufficienza del ricorso per cassazione (su cui, cfr anche recentemente, Cass. sentt. nn. 5043/09, 4823/09 e 338/09) ed è pertanto inammissibile.

Concludendo, in base alle considerazioni svolte, il ricorso nei confronti di D.S. e di C.A. va respinto, con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione, operato in dispositivo.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso nei confronti di G., compensando le relative spese; rigetta nel resto il ricorso e condanna la società a rimborsare ai residui resistenti le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 25,00 per spese ed Euro 2.500,00, oltre accessori, per onorari.

Così deciso in Roma, il 25 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2010

 

 

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