Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9380 del 20/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 20/04/2010, (ud. 16/03/2010, dep. 20/04/2010), n.9380

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. BALLETTI Bruno – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 3501-2007 proposto da:

Z.V., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DI

VILLA PAMPHILI 59, presso lo studio dell’avvocato SALAFIA ANTONIO,

rappresentata e difesa dagli avvocati BIANCHINI GUIDO, BIANCHINI

RENATO, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati PULLI

CLEMENTINA, VALENTE NICOLA, RICCIO ALESSANDRO, giusta mandato in

calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 517/2005 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 10/02/2006 r.g.n. 313/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/03/2010 dal Consigliere Dott. BRUNO BALLETTI;

udito l’Avvocato RENATO BIANCHINI;

udito l’Avvocato PULLI CLEMENTINA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso proposto in data 9 aprile 1999 dinanzi al Tribunale – giudice del lavoro di Macerata Z.V. conveniva in giudizio l’I.N.P.S. per ottenere la condanna dell’Istituto a erogare in proprio favore l’assegno ordinario di invalidità.

Costituitosi l’I.N.P.S., l’adito Giudice del lavoro – con sentenza del 10 aprile 2000 – accoglieva la domanda riconoscendo il diritto della ricorrente a conseguire l’assegno di invalidità con decorrenza 19 giugno 1997 e tale sentenza veniva confermata dalla Corte di appello di Ancona con sentenza del 10 maggio 2002.

Proposto ricorso per cassazione dall’I.N.P.S., questa Corte – con sentenza n. 23613 del 20 dicembre 2004 – statuiva che la decisione di secondo grado era carente di motivazione in ordine alla decisione di integrale conferma della pronunzia del primo giudice con riferimento alle conclusioni del c.t.u. che, a seguito di nuovo mandato, aveva stabilito la decorrenza dell’invalidità dal novembre 2001 anzichè dal giugno 1997; cassava, quindi la sentenza impugnata con rinvio della causa alla Corte di appello di Perugia.

Riassunto il giudizio dalla Z. e costituitosi l’I.N.P.S., la Corte di appello come dianzi designata quale giudice di rinvio, con sentenza del 10 febbraio 2006, “in riforma parziale della sentenza n. 266/00 del Tribunale di Macerara, dichiara(va) che Z. V. è invalida ai sensi dell’art. 1 della legge n. 222/1984 a decorrere dal 1 dicembre 2001, con ogni conseguenziale pronuncia relativamente alla corresponsione del relativo assegno”. Per la cassazione di questa sentenza Z.V. propone ricorso assistito da due motivi.

L’intimato I.N.P.S. resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1^ – Con il primo motivo di ricorso la ricorrente -denunciando “violazione della L. n. 222 del 1984, art. 1 e vizi di motivazione” – addebita alla Corte territoriale “di avere errato nel ritenere ragionevole e coerente l’esposizione peritale della c.t.u. di secondo grado in ordine alla decorrenza della invalidità della ricorrente, mentre ai fini dell’accertamento del momento di insorgenza dello stato invalidante il giudice di merito avrebbe dovuto accertare con assoluta precisione e con penetrante valutazione di tutte le risultanze di causa fornendo una motivazione congrua e idonea ad interpretare i fatti secondo argomentazioni logiche riferite ai fatti medesimi”.

Con il secondo motivo la ricorrente – denunciando “violazione dell’art. 441 c.p.c. per omessa motivazione” – rileva, a censura della sentenza impugnata, che “il momento dell’insorgenza dello stato invalidante deve essere acclarato dal giudice di merito attraverso una accorta valutazione delle risultanze di causa e mediante l’esercizio di tutti i più idonei poteri di indagine soprattutto doverosi in presenza di accertamenti tecnici contraddittori tanto più quando il nuovo accertamento viene richiesto da entrambe le parti in giudizio”.

2^ – I cennati motivi di ricorso – da valutarsi congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi -non sono meritevoli di accoglimento.

2^/a – Al riguardo occorre – prioritariamente -richiamare la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui qualora il giudice aderisca al parere del consulente la motivazione della sentenza è sufficiente (ed è escluso, quindi, il vizio deducibile in cassazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), pur se tale adesione non sia specificamente giustificata, ove il parere-tecnico fornisca gli elementi che consentano, su un piano positivo, di delineare il percorso logico seguito e, sul piano negativo, di escludere la rilevanza di elementi di segno contrario, siano essi esposti in una prima difforme relazione, nella relazione di parte o aliunde deducibili (tra le molte, Cass. n. 19256/2003, n. 3747/2002). Deve, altresì, essere ribadito l’orientamento secondo cui, nelle controversie in materia di prestazioni previdenziali derivanti da patologie dell’assicurato, le conclusioni del consulente tecnico di ufficio sulle quali si fonda la sentenza impugnata possono essere contestate in sede di legittimità se le relative censure contengano la denuncia di una documentata devianza dai canoni fondamentali della scienza medico-legale o dai protocolli praticati per particolari assicurazioni sociali che, in quanto tale, costituisce un vero e proprio vizio della logica medico-legale e rientra tra i vizi deducibili con il ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5; in mancanza di detti elementi le censure configurano un mero dissenso diagnostico e, quindi, sono inammissibili in sede di legittimità, (Cass. n. 8654/08 e n. 11467/02).

Nel quadro del suddetto enunciato si è, inoltre, precisato che le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio disposta dal giudice non possono utilmente essere contestate in sede di ricorso per cassazione mediante la pura e semplice contrapposizione ad esse di diverse valutazioni perchè tali contestazioni si rivelano dirette non già ad un riscontro della correttezza del giudizio formulato dal giudice di appello bensì ad una diversa valutazione delle risultanze processuali; ciò che non rappresenta un elemento riconducibile al procedimento logico seguito dal giudice bensì costituisce semplicemente una richiesta di riesame del merito della controversia, inammissibile in sede di legittimità (cfr. Cass. n. 7341/04 e n. 15796/04).

Parallelamente, deve essere richiamato il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, per cui in sede di giudizio di legittimità non possono essere prospettati temi nuovi di dibattito non tempestivamente affrontaci nelle precedenti fasi, principio che trova applicazione anche in riferimento alle contestazioni mosse alle conclusioni del consulente tecnico di ufficio – e per esse alla sentenza che le abbia recepite nella motivazione, che in tanto sono ammissibili in sede di ricorso per cassazione, in quanto ne risulti la tempestiva proposizione davanti al giudice di merito e che la tempestività di tale proposizione risulti, a sua volta, dalla sentenza impugnata, o, in mancanza, da adeguata segnalazione contenuta nel ricorso, con specifica indicazione dell’atto del procedimento di merito in cui le contestazioni predette erano state formulate, onde consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità dell’asserzione prima di esaminare nel merito la questione sottopostale (tra le molte, da ultimo, Cass. n. 7696/2006).

Alla stregua dei richiamati principi le censure che la ricorrente muove alla sentenza impugnata in punto di erronea valutazione delle condizioni patologiche, si risolvono, pertanto, in un mero dissenso diagnostico e come tali non sono idonee a scalfire la motivazione dei giudici di secondo grado.

Del resto non è allegato, e non risulta, che in sede di merito vennero dedotte contestazioni alla consulenza, analoghe a quelle articolate in sede di ricorso per cassazione.

Quanto alla dedotta violazione della ratio delle leggi di cui alla rubrica, osserva la Corte che la censura, per come articolata, si risolve in una mera affermazione di principi di diritto che non sono affatto rapportati al caso concreto e che pertanto non sono apprezzabili in relazione alla fattispecie decisa dalla Corte di appello nella sentenza di cui si chiede l’annullamento.

2^/b – In merito, poi, agli asseriti vizi di motivazione – che, secondo la ricorrente, connoterebbero la sentenza impugnata – vale rimarcare che: -) il difetto di motivazione, nel senso d’insufficienza di essa, può riscontrarsi soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice e quale risulta dalla sentenza stessa emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero l’obiettiva deficienza, nel complesso di essa, del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, – come per le doglianze mosse nella specie dalla ricorrente quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati; -) il vizio di motivazione sussiste unicamente quando le motivazioni del giudice non consentano di ripercorrere l’iter logico da questi seguito o esibiscano al loro interno non insanabile contrasto ovvero quando nel ragionamento sviluppato nella sentenza sia mancato l’esame di punti decisivi della controversia – irregolarità queste che la sentenza impugnata di certo non presenta; -) per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi – come, nella specie, esaustivamente ha fatto la Corte di appello di Perugia – le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse.

2^/c – A conferma della pronuncia di rigetto dei motivi di ricorso in esame vale, infine, riportarsi al principio di cui alle sentenze di Cass. n. 5149/2001 e, più di recente, di Cass. Sez. Unite n. 14297/2007 in virtù del quale, essendo stata rigettata la principale assorbente ragione di censura, il ricorso deve essere respinto nella sua interezza poichè diventano inammissibili, per difetto di interesse, le ulteriori ragioni di censura.

3^ – In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso deve essere respinto.

Non sussistono le condizioni di cui all’art. 152 disp. att. cod. proc. civ. (come modificato dal D.L. n. 269 del 2003, art. 42 convertito con L. n. 326 del 2003) per una pronunzia, a favore degli intimati delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla sulle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 16 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2010

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