Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9380 del 08/05/2015


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Civile Sent. Sez. L Num. 9380 Anno 2015
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: DORONZO ADRIANA

SENTENZA

sul ricorso 13890-2011 proposto da:
RAI RADIOTELEVISIONE ITALIANA S.P.A c.f. 06382641006,
in persona del legale rappresentante pro tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE DELLA
VITTORIA 5, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI
ARIETA, rappresentata e difesa dagli avvocati LUCIANO
2015
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TAMBURRO, FRANCESCO BARRA CARACCIOLO, PIERLUIGI LAX,
giusta delega in atti;
– ricorrente contro

CUSANO SALVATORE C.F. CSNSVT62D20F839J, domiciliato

Data pubblicazione: 08/05/2015

in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso
dall’avvocato GIUSEPPE MARZIALE, giusta delega in
atti;
– controricorrente –

D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 17/05/2010 R.G.N.
8645/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 09/01/2015 dal Consigliere Dott. ADRIANA
DORONZO;
udito l’Avvocato BOTTA BRUNO per delega BARRA
CARACCIOLO FRANCESCO;
udito l’Avvocato MARZIALE GIUSEPPE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. RENATO FINOCCHI GHERSI che ha concluso
per il rigetto.

avverso la sentenza n. 3531/2010 della CORTE

1.

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4.

5.

6.

7.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Tribunale di Napoli, accogliendo la domanda proposta da Salvatore
Cusano, dichiarò costituito tra il ricorrente e la Rai-Radio Televisione
Italiana s.p.a. (di seguito solo Rai s.p.a.) un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, con decorrenza dal 14/2/1997; condannò la Rai s.p.a. a
riammettere in servizio il lavoratore con la qualifica di sesto livello del
C.C.N.L. per il personale Rai s.p.a. – assistente arredatore, nonché a
corrispondergli le retribuzioni spettanti dalla data della messa in mora
(22/3/2004).
La sentenza è stata confermata dalla Corte d’appello di Napoli, con
sentenza depositata in data 17 maggio 2010, con cui è stato rigettato
l’appello proposto dalla Rai s.p.a.
La Corte territoriale, con riferimento alla conciliazione sindacale
sottoscritta dalle parti in data 22/2/2002, ha ritenuto che la stessa
riguardasse esclusivamente i rapporti di lavoro stipulati sotto il vigore della
legge n. 56/1987, rimanendone invece esclusi i contratti stipulati il
14/2/1997, il 19/5/1997 ed il 24/3/1998, i primi due espressamente
disciplinati dalla legge n. 230/1962.
Ha poi soffermato l’attenzione essenzialmente sul primo dei detti contratti,
ritenendo che esso non fosse rispettoso delle condizioni oggettive e
soggettive richieste dall’art.1, comma 2° lettera e) della legge n. 230/1962,
come modificato dalla legge n. 266/1977, e, specificamente, della
temporaneità del programma, della sua specificità, del peculiare apporto
tecnico o creativo del lavoratore nella realizzazione dell’opera.
Ha inoltre escluso che fosse intercorsa tra le parti una novazione del
rapporto, con conseguente scioglimento per mutuo consenso dei precedenti
contratti stipulati sotto il vigore della legge del 1962, in difetto di elementi
da cui desumere la consapevolezza delle parti circa l’illegittimità della
clausola appositiva del termine e della intervenuta conversione del
contratto a termine in contratto a tempo indeterminato. Anche le lettere con
cui il lavoratore aveva confermato la risoluzione anticipata del rapporto ad
una data determinata non potevano assumere il valore preteso
dall’appellante di risoluzione del contratto per mutuo consenso,
Contro la sentenza, la Rai s.p.a. propone ricorso per cassazione fondato su
quattro motivi, illustrati da memoria, cui resiste, con controricorso, il
Cusano.
dt-A- C 3s; 0 l44.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa
applicazione degli artt. 1362, 1363, 1464, 1366, 1369 c.c., in relazione agli
artt. 410, 411 c.p.c., 1418, comma 1 0 , 1965 e seguenti, 2113 c.c. In
particolare, con riferimento alla conciliazione sottoscritta in data 22/2/2002,

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Presidente Larnorgese
Relatore Doronzo
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NO

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assume che la Corte territoriale avrebbe violato i criteri di ermeneutica
contrattuale, avendo dato esclusivo rilievo al fatto che il verbale di
conciliazione menzionava solo la legge n. 56/1987, senza alcun riferimento
ai contratti stipulati prima dell’entrata in vigore dei contratti collettivi
stipulati in forza dell’art. 23 della detta legge, trascurando di considerare la
volontà delle parti, in quanto diretta a porre fine ad ogni controversia
avente ad oggetto la natura dei rapporti di lavoro, il loro comportamento, in
particolare *quello del ricorrente che avrebbe atteso circa due anni dalla
sottoscrizione del verbale prima di promuovere il giudizio, il principio di
buona fede nell’interpretazione dei contratti, nonché il principio secondo
cui le clausole vanno interpretate nel senso in cui possono avere qualche
effetto, anziché in quello secondo cui nomvrebbero alcuno.
8. Con riguardo a questo motivo, si profila una ragione di inammissibilità,del
Pim:m La società, pur avendo provveduto a trascrivere integralmente il
contenuto della convenzione, non la deposita unitamente al ricorso per
cassazione, né indica dove attualmente l’atto sarebbe rinvenibile. Tale
omissione è causa di improcedibilità nel ricorso a norma dell’art. 369, n. 4,
c.p.c.: le Sezioni Unite di questa Corte, pur avendo chiarito che l’onere del
ricorrente, di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, così come modificato dal
D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 7 — ed applicabile al ricorso in esame,
dovendosi aver riguardo alla data di pubblicazione della sentenza,
successiva al 2 marzo 2006 -, di produrre, a pena di improcedibilità del
ricorso, “gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui
quali il ricorso si fonda” è soddisfatto, quanto agli atti e ai documenti
contenuti nel fascicolo di parte, mediante la produzione dello stesso, e,
quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il
deposito della richiesta di trasmissione, presentata alla cancelleria del
giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente
munita di visto ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 3, hanno tuttavia
precisato che resta ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a
pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, del contenuto degli atti e dei
documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché dei dati necessari al loro
reperimento (Cass., Sez. Un., 3 novembre 2011, n. 22726).
9. Con il secondo motivo la Rai s.p.a. denuncia la violazione dell’art. 1,
comma 2, lettera e) della legge n. 230/1962 anche in relazione all’art. 12,
comma 1°, disp. prel. c.c., in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c. Assume che
dalla stessa breve durata dei due contratti stipulati nel 1997 ( di poco più di
sei mesi, complessivamente) doveva desumersi la natura specifica,
individuata e determinata dei programmi per cui era avvenuta l’assunzione,
oltre che la temporaneità dell’esigenza cui la detta assunzione era
funzionale. Inoltre, il concetto di specificità riferito al programma, come
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elaborato dalla Corte territoriale, non trovava rispondenza nella lettera della
legge, né nella sua ratio, né nei canoni della logica, anche alla luce degli
sviluppi normativi successivi, volti a favorire un uso più ampio dello
strumento delle assunzioni a termine. La stessa definizione di temporaneità
data dalla Corte napoletana non rispondeva alla lettera della legge né alla
sua ratio. Infine, il requisito di un vincolo di necessità diretta tra l’apporto
del singolo lavoratore e la programmazione, ritenuto indispensabile ai fini
della validità del contratto, esorbitava dalla lettera della legge, che anzi
espressamente lo escludeva, dopo la modifica per opera della legge n.
266/1977, in cu manca ogni riferimento alle mansioni svolte dal lavoratore
ed al tipo di apporto lavorativo dallo stesso fornito al programma.
/O. Questo motivo è, nella sua intera articolazione, infondato alla luce dell’
ormai costante giurisprudenza di questa di questa Corte, cui questo
Collegio intende dare continuità.
//. Invero, la legge n. 230 del 1962, art. 1, comma 2, lett. e), come modificato
dalla L. n. 266 del 1972, prevede e consente l’applicazione del termine
“nelle assunzioni di personale riferite a pubblici spettacoli, ovvero a
specifici programmi radiofonici o televisivi”. Nell’interpretazione di tale
norma, questa Suprema Corte ha ripetutamente affermato che, affinché il
rapporto di lavoro a termine possa ritenersi legittimo, è necessario il
concorso di una pluralità di requisiti, essenzialmente riferibili alla
temporaneità e specificità dello spettacolo e dell’esigenza lavorativa che il
contratto è diretto a soddisfare, ed in particolare: a) che il
rapporto si riferisca ad un’esigenza di carattere temporaneo della
programmazione televisiva o radiofonica, da intendersi non nel senso della
straordinarietà o occasionalità dello spettacolo (che può ben essere anche
diviso in più puntate e ripetuto nel tempo), bensì nel senso che lo stesso
abbia una durata limitata nell’arco di tempo della complessiva
programmazione fissata dall’azienda, per cui, essendo destinato ad
esaurirsi, non consente lo stabile inserimento del lavoratore nell’impresa; b)
che il programma, oltre ad essere temporaneo nel senso sopra precisato, sia
anche caratterizzato dall’atipicità e singolarità rispetto ad ogni altro evento
organizzato dall’azienda nell’ambito della propria ordinaria attività
radiofonica e televisiva, per cui, essendo dotato di caratteristiche idonee ad
attribuirgli una propria individualità ed unicità (quale species di un certo
genus), lo stesso sia configurabile come un momento episodico dell’attività
imprenditoriale, e come tale rispondente anche al requisito della
temporaneità; c) che, infine, l’assunzione riguardi soggetti il cui apporto
lavorativo si inserisca, con vincolo di necessità diretta, anche se
complementare e strumentale, nello specifico spettacolo o programma,
sicché non può ritenersi sufficiente a giustificare l’apposizione del termine
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la semplice qualifica tecnica o artistica del personale, richiedendosi che
l’apporto del peculiare contributo professionale, tecnico o artistico del
lavoratore, sia indispensabile per la buona realizza7ione dello spettacolo, in
quanto non sostituibile con le prestazioni del personale di ruolo dell’azienda
(confronta ex multis,Cass. 23 giugno 2008, n. 17053; Cass., 11 aprile 2006,
n. 8385; Cass., 19 novembre 2010, n. 23501; Cass., 14 settembre 2012, n.
15455; Cass., 2 aprile 2014, n. 7667).
12. L’interpretazione della norma di legge adottata dalla giurisprudenza di
questa Corte appare corrispondere appieno al ragionevole equilibrio tra
esigenze di garanzia di stabilità del rapporto di lavoro ed esigenze, anche
culturali, della produzione di spettacoli e programmi radiotelevisivi
perseguito dal legislatore dell’epoca, alla luce delle condizioni economiche
e sociali esistenti.
13. Così ribadita l’interpretazione della norma di legge in esame, cui appare
opportuno attenersi, anche in ossequio alla funzione nomofilattica della
Corte e in assenza di sufficienti motivi per rimetterla in discussione alla
luce delle argomentazioni del ricorso, va infine ricordato che l’accertamento
della sussistenza in concreto dei requisiti di legittimità dell’apposizione del
termine nell’ipotesi considerata costituisce giudizio di merito, che la Corte
territoriale ha adeguatamente condotto col rilevare la genericità dell’apporto
lavorativo del Cusano in esecuzione del contratto a tempo determinato
esaminato, non sufficientemente contrastata dalle deduzioni della società,
rimaste in proposito generiche e non pertinenti sul piano dell’accertamento
del vincolo di necessità diretta enunciato (Cass., 1 giugno 2012, n. 8894).
14. Al riguardo, la Corte ha rilevato che le mansioni lavorative assegnate al
Cusano, a fronte della previsione dei vari contratti di lavoro succedutisi
(profilo di assistente arredatore) erano da ricondursi ad attività del tutto
“abituali, necessarie ed ineliminabili nella realizzazione dell’oggetto”
aziendale, sì da confermare la mancanza di un’impronta distintiva della
collaborazione del lavoratore alla produzione televisiva, mentre la prova
testimoniale articolata dalla Rai atteneva solo alla diligenza e allo scrupolo
con cui le mansioni erano state svolte e alla capacità professionale del
lavoratore, tale da consentirgli di svolgere compiti piuttosto articolati e
complessi, elementi questi ultimi ritenuti irrilevanti a comprovare la
peculiarità dell’apporto lavorativo del Cusano in quel determinato specifico
programma.
15. Deve infine rilevarsi che la nullità “ab initio”, determinata dalla violazione
della L. n. 230 del 1962, ed ascrivibile già al primo dei contratti, con
conseguente trasformazione del rapporto in rapporto a tempo
indeterminato, esclude, dato il suo carattere assorbente, che possano trovare
ingresso le censure riflettenti gli altri contratti, ovvero quelli stipulati ai
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sensi della legge n. 56 del 1987, art. 23, sulla base dell’accordo sindacale
del 16/12/97.
16. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione
degli arti. 1372, 1362 e ss., e 2729 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. In
particolare, lamenta che erroneamente la Corte di merito avrebbe disatteso
l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, nonostante che
tra la cessazione del primo contratto (30/5/1997) e l’impugnazione del
termine ad esso apposto (avvenuta solo col deposito del ricorso introduttivo
del giudizio il 25/1/2005) fossero decorsi quasi nove anni e oltre tre dalla
sottoscrizione del verbale di conciliazione.
17. Al di là dei profili di inammissibilità del motivo di ricorso, prospettato
sotto il vizio di violazione di legge, senza che risultino specificamente
indicate le affermazioni del giudice del merito in contrasto con le norme
indicate, nell’interpretazione datane dalla giurisprudenza di questa Corte o
dalla dottrina, il motivo è comunque infondato.
18. Vanno qui richiamati i principi ripetutamente affermati da questa Corte,
secondo cui: a) in linea di principio, è ipotizzabile una risoluzione del
rapporto di lavoro per fatti concludenti (cfr., ad es., Cass. 6 luglio 2007, n.
15264, Cass., 7 maggio 2009 n. 10526; Cass., 23 luglio 2004, n. 13891); b)
l’onere di provare circostanze significative al riguardo grava sul datore di
lavoro che deduce la risoluzione per mutuo consenso (cfr. Cass., ord. 4
agosto 2011, n.16932, Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070); c) la relativa
valutazione da parte del giudice costituisce giudizio di merito; d) la mera
inerzia del lavoratore nel contestare la clausola appositiva del termine non è
sufficiente a far ritenere intervenuta la risoluzione per mutuo consenso.
Alla luce di questi principi, i giudici del merito sono giunti alla conclusione
dell’assenza, nell’ipotesi in esame, di elementi significativi diversi dal mero
fattore temporale, idonei a manifestare con univocità la volontà della parte
di addivenire ad una soluzione consensuale dei rapporti.
19.11 giudizio della Corte, conforme agli arresti giurisprudenziali su indicati,
merita di essere condiviso, in quanto fondato su un ragionamento congruo,
completo ed esauriente, cui la ricorrente contrappone proprie diverse
valutazioni, sempre di merito, che non possono trovare ingresso in questa
sede di legittimità.
20. Ed anche il notevole lasso di tempo intercorso tra la scadenza del primo
contratto e l’impugnativa giudiziale non è sufficiente ragione per ritenere
risolto il contratto per mutuo consenso, stante la sua equivocità, potendo
tale lasso di tempo trovare giustificazioni in circostanze diverse dalla
volontà risolutoria, come ad esempio nell’interesse del lavoratore, in una
situazione di incertezza circa la natura del proprio rapporto di lavoro, ad
accedere comunque ad offerte di contratti di lavoro a termine, senza con ciò
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rinunciare alle proprie rivendicazioni e all’affidamento di un futuro
riconoscimento delle proprie ragioni.
Con il quarto motivo la ricorrente invoca l’applicazione dello ius
superveniens costituito dall’art. 32, commi 5, 6 e 7 della legge n. 183/2010,
il quale comporterebbe l’annullamento del capo della sentenza di primo
grado relativo al risarcimento del danno, che deve essere non più
commisurato all’entità della retribuzione mensile dalla data di cessazione
dell’ultimo rapporto di lavoro fino alla pronuncia della sentenza, ma
contenuto nella misura fissata dall’art. 32 della legge citata.
Questa Corte ha più volte affermato che, in via di principio, costituisce
condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius
superveniens, – che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova
disciplina del rapporto controverso -, il fatto che quest’ultima sia in qualche
modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in
ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato
dagli specifici motivi di ricorso (cfr. per tutte, Cass., 11 febbraio 2014, n.
n.3045).
In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe,
anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre
ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua
propria (v. Cass. 4 gennaio 2011, n. 80 cit.).
Tale condizione non sussiste nella fattispecie non essendo stato prospettato
al giudice di appello alcuna questione inerente al risarcimento del danno,
con la conseguenza che sul punto si è formato il giudicato, non suscettibile
di revisione neppure per effetto dello ius superveniens. Deve aggiungersi
che l’assunto del ricorrente secondo cui il lavoratore avrebbe chiesto di
quantificare le somme a lui spettanti a titolo di risarcimento del danno in un
separato giudizio, oltre ad essere inammissibile per difetto di
autosufficienza, non avendo la parte trascritto l’atto difensivo o il verbale di
causa in cui tale richiesta sarebbe stata avanzata, è contraddetto da quanto
affermato in sentenza, in cui si è dato atto che, con la sentenza di primo
grado, la Rai S.p.A. è stata condannata al risarcimento del danno, in favore
del lavoratore, commisurato all’ultima retribuzione mensile a far tempo dal
22/3/2004 fino alla data della pronunzia.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e la ricorrente deve essere
condannata al pagamento delle spese del presente giudizio, nella misura
liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese
del presente giudizio, liquidate in € 100,00 per esborsi e € 3.500,00 per
compensi professionali, oltre spese generali e altri accessori di legge.
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Roma, 9 gennaio 2015
11 Presidente
Dott. n6io Lamorgese

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