Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9378 del 27/04/2011

Cassazione civile sez. I, 27/04/2011, (ud. 19/01/2011, dep. 27/04/2011), n.9378

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso n. 25271 dell’anno 2005 proposto da:

M.L., elettivamente domiciliato in Lecce, Via dei

Salesiani, n, 45, nello studio dell’Avv. MARZO Riccardo, che lo

rappresenta e difende, giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

RAGGRUPPAMENTO DI IMPRESE LEANDRI SRL. – PAL STRADE SRL – CAPOGRUPPO

LEANDRI SRL, elettivamente domiciliata in Roma, Viale Vaticano, n.

46, nello studio dell’Avv. Francesca Romana Nanni; rappresentata e

difesa, giusta procura speciale a margine del controricorso,

dall’Avv. MARCUCCIO Marcello;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di Appello di Lecce, n. 393,

depositata in data 8 giugno 2005;

sentita la relazione all’udienza del 19 gennaio 2011 del Consigliere

Dott. Pietro Campanile;

Sentito l’Avv. M. Marcuccio per la controricorrente, che ha chiesto

il rigetto del ricorso;

Udite le richieste del Procuratore Generale, in persona del Sostituto

Dott. Vincenzo Gambardella, il quale ha concluso per l’accoglimento

del ricorso per quanto di ragione.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – Con atto di citazione notificato in data 4 luglio 1997 l’Ing. M.L. conveniva davanti al Pretore di Lecce il Raggruppamento di imprese Leandri S.r.l. – Pal Strade s.r.l., e per esso la capogruppo Leandri S.r.l., chiedendone la condanna al pagamento della somma di L. 28.800.000, o a quel diverso importo che sarebbe stato accertato, per essersi impossessato del “terreno vegetale di proprietà dell’attore” asportandolo dal fondo di proprietà di questi attiguo a quello sottoposto a procedimento ablatorio”.

1.1 – Instauratosi il contraddittorio, con sentenza depositata in data 8 maggio 2002 il Tribunale di Lecce (subentrato alla Pretura ai sensi del D.Lgs. n. 51 del 1998) rigettava la domanda, sulla base delle risultanze dello stato di consistenza e della deposizione di tale V., che tale verbale aveva redatto.

1.2 – La Corte di appello di Lecce, con la decisione indicata in epigrafe, respingeva l’appello proposto dal M., rilevando che la tesi secondo cui il terreno vegetale oggetto della controversia si sarebbe trovato su un lotto estraneo alla procedura espropriativa era smentita dalla richiamata testimonianza, mentre nessuna valenza poteva attribuirsi al verbale redatto dalla Commissione provinciale espropri in data 31 gennaio 1995, invocato dall’appellante, sia per le sue finalità meramente valutative, sia perchè il relativo sopralluogo era stato effettuato a distanza di quattro anni rispetto alla redazione del verbale di consistenza.

Veniva infine osservato che, poichè il volume del terreno oggetto del giudizio era inferiore a quello concretamente contenibile dalla superficie realmente occupata a fini espropriativi, nessun rilievo poteva attribuirsi al fatto che nel verbale di immissione in possesso era indicata un’area di maggiore consistenza.

1.3 – Per la cassazione di tale decisione l’Ing. M. propone ricorso, deducendo sette motivi.

Resiste con controricorso il Raggruppamento di imprese, e per esso la capogruppo Leandri s.r.l..

Le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

2. – Con il primo motivo si deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riferimento al rapporto tra competenza funzionale della Commissione Provinciale ed identificazione dei beni oggetto dell’espropriazione, nonchè tra l’accertamento contenuto nella sentenza di primo grado sul terreno vegetale come compreso nell’espropriazione e, quindi, nella relativa indennità, e la dichiarazione del giudice di appello che non rientrava nei poteri della commissione.

Viene, in particolare, denunciata contraddittorietà fra l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui non rientrava nei poteri della Commissione provinciale “esprimere valutazioni su beni che non sono stati oggetto di espropriazione”, ed il punto essenziale della sentenza di primo grado, concernente l’infondatezza della pretesa risarcitoria dovendosi ritenersi il terreno vegetale ricompreso nell’area espropriata ed essendo stato, quindi, unitamente ad essa indennizzato.

La censura è in parte inammissibile, ed in parte infondata.

2.1 – Mette conto di rilevare, quanto alla denunciata contraddizione fra la motivazione della decisione impugnata e quella di primo grado, che la sentenza resa all’esito del giudizio di appello si sostituisce a quella emessa in primo grado, non solo quando la riforma, ma anche quando la conferma interamente, ponendosi quale nuova fonte di regolamentazione del rapporto litigioso. Appartiene al normale esplicarsi di tale effetto sostitutivo la possibilità che la decisione di secondo grado, pur confermando le statuizioni della decisione appellata, adotti ragioni e argomentazioni di tipo diverso, senza che tuttavia si verifichi, per il motivo testè indicato, alcuna contraddizione giuridicamente rilevante (Cass. 12 agosto 2010, n. 18647; Cass., 25 gennaio 2008, n. 1604).

Appare quindi evidente come il vizio di motivazione contraddittoria, denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo in caso di contrasto insanabile tra le argomentazioni addotte nella sentenza resa all’esito del secondo grado del giudizio, tale da non consentire la identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non è ipotizzabile nel caso in cui la contraddizione denunziata riguardi, come si sostiene nel motivo in esame, non già più proposizioni contenute nella sentenza impugnata, tra loro inconciliabili, ma le valutazioni contrastanti compiute dal giudice di primo grado e dal giudice di appello. Come è stato già rilevato (Cass.,11 ottobre 2006, n. 21741), diversamente argomentando, dovrebbe pervenirsi alla conclusione che siano indiscriminatamente viziate per contraddittorietà della motivazione tutte le sentenze d’appello che abbiano valutato le risultanze di causa in modo difforme rispetto a quanto ritenuto dal primo giudice.

2.2 – Quanto all’inciso contenuto nella decisione impugnata e riferito al valore probatorio delle va-lutazioni della Commissione provinciale, il suo significato, nell’intero contesto della proposizione e della ratio decidendi della sentenza (consistente nel rilievo dell’insufficienza del materiale probatorio dedotto a sostegno della tesi secondo cui il terreno vegetale si sarebbe trovato nella zona non espropriata), non può essere che quello di rimarcare il compito della commissione stessa, che era quello di valutare l’area espropriata, ma non di stabilire se un determinato bene, la cui collocazione risultava controversa, si trovasse in un luogo o in un altro. Trattasi di argomento che, a ben vedere, si colloca, in maniera esente da contraddizioni sul piano logico, nel tessuto motivazionale incentrato sui menzionati profili di natura probatoria, tanto più che, con ulteriore rilievo – di carattere autonomo, ma sempre inerente alla scarsa validità inferenziale del verbale redatto dalla commissione provinciale – si pone in evidenza che la rimarchevole tardività del sopralluogo non avrebbe potuto consentire a detta commissione di compiere alcun valido apprezzamento.

A prescindere dall’inammissibilità della deduzione inerente al contrasto fra le sentenze di primo e di secondo grado, appare per altro evidente come la contraddizione, tenuto conto di quanto evidenziato, sia soltanto apparente, essendosi in entrambe le decisioni affermata, sia pure sotto diverse angolazioni, l’infondatezza della domanda perchè il terreno vegetale non risultava collocato sull’area rimasta, in quanto non espropriata, nella disponibilità del M..

2.3 – Con il secondo motivo si deduce violazione della L. n. 2359 del 1865, art. 1 e segg., e della L. n. 865 del 1971, art. 9, nonchè illogica e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione, rispettivamente, all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Si afferma, in particolare, che il terreno vegetale costituiva “bene mobile distinto dall’immobile oggetto di espropriazione, non suscettibile di essere compreso in essa e, comunque, espressamente escluso per effetto della Commissione provinciale di Lecce”.

Il motivo è infondato.

Non può invero condividersi, l’affermazione – già anticipata nel precedente motivo – secondo cui il terreno vegetale, in quanto “depositato” sul suolo, dovrebbe essere autonomamente risarcito – per il sol fatto di non essere stato ricompreso nel decreto di espropriazione e nella valutazione della Commissione provinciale – sia che si trovasse “sull’intera particella 1 del foglio 21 o su una parte di essa, o sulla parte originariamente individuata nel verbale di consistenza (mq 900 circa) oppure su quella diversa per ubicazione ed estensione effettivamente espropriata (mq 634), o a cavallo delle stesse”.

Viene così ad essere stravolta, così introducendosi una inammissibile questione nuova, la portata della domanda risarcitoria avanzata davanti al Pretore di Lecce, come desumibile dalla decisione impugnata e dalla stessa esposizione contenuta nel ricorso, fondata sulla circostanza che il terreno vegetale in contestazione era stato asportato da una parte di terreno di proprietà del M., in quanto estranea al procedimento ablativo.

Vale bene richiamare, del resto, il carattere onnicomprensivo dell’indennità (Cass., 9 marzo 2004, n. 4732), avendo questa Corte di recente affermato il principio secondo cui la terra che si trova sul fondo dapprima occupato e poi espropriato, sia che ivi rimanga, sia che venga rimossa, trova “il suo compenso unico nell’ indennità di espropriazione” (Cass., 7 maggio 2010, n. 11116).

Anche a voler attribuire al terreno vegetale una distinta autonomia sia sul piano giuridico (in quanto bene mobile), sia, conseguentemente, sotto il profilo economico, non può prescindersi dal consolidato orientamento di questa Corte secondo cui il decreto di occupazione temporanea e d’urgenza di un immobile privato, inserito nella procedura ablativa, comporta un sacrificio coattivo del diritto dominicale per ragioni di pubblico interesse. Tale provvedimento attribuisce immediatamente alla P.A. il diritto di disporre del bene privato allo scopo di eseguire l’opera pubblica per la quale è stato emanato ed incide in misura corrispondente sui poteri dominicali del titolare del bene, privandolo (temporaneamente) di tutte le facoltà di godimento. Dopo l’adozione e l’esecuzione del provvedimento di occupazione, il protrarsi della eventuale permanenza sul fondo di beni mobili appartenenti al proprietario del fondo non può che ascriversi a mera tolleranza dell’amministrazione, gravando semmai sul primo l’obbligo di rimuovere gli ostacoli dovuti al proprio comportamento (anche omissivo) che precludano alla p.a.

occupante di disporre del fondo. Se è vero, infatti, che al diritto dell’amministrazione di occupare d’urgenza il terreno destinato ad essere trasformato in opera pubblica non corrisponde un obbligo di cooperazione del proprietario perchè l’occupazione sì realizzi, una volta che questa sia avvenuta, sorge a suo carico l’obbligo di non vanificarla, mediante comportamenti che impediscano la utilizzazione piena dell’immobile da parte dell’occupante in funzione (e per l’attuazione) dello scopo cui l’occupazione risulta preordinata, e di non opporre, quindi, ostacoli alla realizzazione di quest’ultimo;

perciò rimuovendo anche, ove necessario quelli preesistenti (Cass., 4 novembre 1991, n. 11700; Cass., 8 giugno 2005, n. 12007).

Non può omettersi di richiamare, a tale riguardo, la regola di carattere generale enunciata dalla L. n. 2359 del 1865, art. 43, per la quale in seguito al provvedimento ablatorio, al proprietario dell’immobile è attribuita la sola scelta di abbandonare ogni suo bene sul fondo senza poter pretendere alcuna indennità aggiuntiva (con la sola eccezione delle costruzioni, delle piantagioni e delle migliorie, purchè non eseguite allo scopo di conseguire un’indennità maggiore), ovvero “di asportare a sue spese i materiali e tutto ciò che può essere tolto senza pregiudizio dell’opera di pubblica utilità da eseguirsi”.

Tale norma costituisce un imprescindibile corollario di quanto disposto del precedente art. 1 della medesima legge, invocato dallo stesso ricorrente, secondo cui l’espropriazione ha per oggetto “beni immobili o diritti relativi ad immobili” e non anche i beni mobili che vi insistono e quanto non costituisce stabile accessione del fondo: essi continuano ad appartenere a chi ne era in precedenza proprietario, e possono pertanto da questi essere asportati (Cass., Sez. Un., 8 giugno 1998, n. 5609).

In altri termini, al di là dell’evidenziata “muta-tio libelli”, il M. non può avanzare pretese risarcitorie ove non risulti che il terreno vegetale si trovasse, secondo l’originaria impostazione della domanda, su una parte del fondo non interessata dalla procedura ablativa.

2.4 – Una volta stabilito, sulla base delle precedenti considerazioni, che l’ubi consistam della causa va individuato nello stabilire se vi sia stata o meno, da parte del Raggruppamento di imprese, l’asportazione del terreno da un’area rimasta nella disponibilità del M., appare agevole constatare come venga essenzialmente in considerazione una questione di merito, di certo non proponibile in sede di legittimità.

Deve quindi rilevarsi l’infondatezza del terzo motivo di censura, con il quale si denuncia violazione dell’art. 116 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa la valutazione delle prove testimoniali, in relazione, rispettivamente, all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

La presente vicenda giudiziaria scaturisce dalla discordanza fra l’ampiezza della particella n. 1 del fl. 27, di mq 5510 e l’estensione del terreno – nell’ambito di detta particella – effettivamente espropriato, inizialmente prevista in mq 900 e poi in realtà ridottasi a mq 634. Nella decisione impugnata si afferma: “La domanda del M., secondo cui il terreno vegetale in questione era collocato non sul terreno espropriato, ma su una fascia atti qua, non interessata dal procedimento ablatorio, è del tutto sfornita di prova. Infatti il teste V., che ha redatto lo stato di consistenza, ha affermato che il terreno si trovava effettivamente sulla particella espropriata”.

Nel motivo in esame si sostiene che, pur avendo tale testimone precisato che “il terreno vegetale di cui si fa menzione nel verbale si trovava effettivamente depositato sulla zona di mq 900 di cui al verbale di consistenza”, non si sarebbe considerato che, per effetto di una variazione del progetto dell’opera da realizzare, la superficie dell’area espropriata si era ridotta a mq 634.

Tale eccezione risulta, in realtà, esaminata nella decisione impugnata, in cui si rileva, in maniera esente da censure sul piano logico-giuridico (tenuto anche conto della ripartizione dell’onere della priva, facente capo al M.) che, essendo le dimensioni del cumulo di terreno – che occupava un’area di mq 480 – inferiori anche a detta superficie minore, non era consentito “affermare che il terreno non poteva essere contenuto nella fascia poi effettivamente espropriata”.

Viene in considerazione – e ciò valga anche per le questioni inerenti alle deposizioni rese dai membri della Commissione provinciale – il principio, costantemente ribadito da questa Corte, secondo cui l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass., 21 luglio 2010, n. 17097; Cass., 2 aprile 2007, n. 8215).

2.5 – Il quarto motivo, con il quale si deduce violazione e falsa applicazione della L. 22 ottobre 1971, n. 865, art. 16, nonchè degli artt. 2699 e 2700 c.c., nonchè vizio motivazionale in relazione alla portata della “decisione” della Commissione provinciale, che farebbe piena prova fino a querela di falso, è del tutto infondato, ponendosi in netto contrasto con l’orientamento di questa Corte, secondo cui, perchè un documento costituisca atto pubblico, ed abbia l’efficacia riconosciuta dall’art. 2700 c.c., occorre che lo stesso provenga da un pubblico ufficiale e che sia formato nell’esercizio di una funzione specificatamente diretta alla documentazione (Cass., 19 aprile 2001, n. 5835).

Ove si ponga mente alla natura squisitamente valutativa della stima in esame, che inerisce al procedimento amministrativo finalizzato alla determinazione dell’indennità, appare evidente come l’atto invocato dal ricorrente, che non ha alcuna incidenza sulle autonome determinazioni da adottarsi in sede giudiziaria, nei giudizi inerenti alla liquidazione dell’indennità (Cass., 27 gennaio 2005, n. 1701), a maggior ragione non può essere preso in considerazione nell’ambito di un giudizio, come quello in esame, inerente al risarcimento del danno derivante dall’appropriazione, da parte del convenuto, di beni asseritamente estranei alla procedura espropriativa.

2.6 – Il quinto motivo, con il quale si denuncia violazione degli artt. 112 e 352 c.p.c., nonchè o-messa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione, rispettivamente, all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, attiene a un preteso contrasto fra le motivazioni della decisione impugnata e quella di primo grado.

Valgano al riguardo le considerazioni svolte in precedenza (punti 2.1 e 2.2), essendo per altro evidente che, contrariamente a quanto sembra sostenere il ricorrente, secondo il quale il Raggruppamento di imprese avrebbe dovuto proporre appello incidentale condizionato, anche in relazione al profilo in esame opera il c.d. effetto sostituivo dell’impugnazione, dovendo in ogni caso escludersi che, in presenza di una pronuncia di rigetto della domanda, come nel caso in esame, le affermazioni contenute nella relativa motivazione possano acquistare autorità di cosa giudicata (Cass, 8 marzo 2001, n. 3373).

Quanto alla pretesa contraddittorietà o insufficienza della motivazione della decisione scrutinata, appare evidente come ci si trovi piuttosto in presenza di una pluralità di “rationes decidendi”, che, proprio a cagione della loro autonomia, non possono comportare alcuna contraddittorietà, bensì determinare l’onere, al quale in realtà il ricorrente ha adempiuto, di proporre distinte censure (Cass., 13 febbraio 2009, n. 3640).

2.7 – Con il sesto mezzo si denuncia tanto la violazione degli artt. 116 e 61 c.p.c.; artt. 2697 e 2700 c.c., quanto omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione, rispettivamente, all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Tale motivo deve intendersi evidentemente assorbito, nella misura in cui attiene alla mancata prova del quantum, relativamente a una parte di terreno (eventualmente) “collocata fuori della zona oggetto di ablazione”, secondo un obiter dictum, per il vero poco felice, della Corte di appello di Lecce, dal rigetto dei motivi già esaminati. Essendosi escluso, infatti, che l’intero cumulo si trovasse sulla porzione di fondo rimasta nella proprietà del M., la questione di un parziale accoglimento della domanda in considerazione di una ipotetica e comunque non dimostrata esorbitanza del terreno vegetale dall’area espropriata rimane superata.

2.8 – Con l’ultimo motivo, infine, si prospetta una violazione dell’art. 51 c.p.c., n. 3, in relazione alla mancata astensione del presidente del Collegio, in considerazione della dedotta inimicizia con il difensore del M..

La censura è infondata, in quanto, secondo un indirizzo pacifico e consolidato di questa Corte, la violazione da parte del giudice dell’obbligo di astenersi può essere fatta valere dalla parte unicamente con l’istanza di ricusazione nei modi e nei termini di cui all’art. 52 c.p.c., e, ad eccezione dell’ipotesi di interesse diretto del giudice nella causa, non come motivo di nullità della sentenza (Cass., 16 luglio 1999, n. 7504; Cass., 12 luglio 2001, n. 9418;

Cass., 12 novembre 2009, n. 23930).

3. – Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, con condanna del M. alla refusione, in favore della controparte, delle spese processuali relativa al presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controparte, delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 1.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima civile, il 19 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2011

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