Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9371 del 21/05/2020

Cassazione civile sez. II, 21/05/2020, (ud. 21/02/2019, dep. 21/05/2020), n.9371

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28309/2017 proposto da:

C.G., G.L., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA DI SAN VALENTINO 21, presso lo studio dell’avvocato

FRANCESCO CARBONETTI, che li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato ROBERTO DELLA VECCHIA;

– ricorrenti –

contro

BANCA D’ITALIA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NAZIONALE 91,

presso lo studio dell’avvocato DONATELLA LA LICATA, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato DONATO MESSINEO;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il

26/04/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/02/2019 dal Consigliere Dott. RAFFAELE SABATO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato DELLA VECCHIA Roberto difensore dei ricorrenti che

ha chiesto l’accoglimento del ricorso e deposita sentenza del

Tribunale di Siena;

udito l’Avvocato MESSINEO Donato, difensore del resistente che ha

chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con note del 3 dicembre 2012 la Banca d’Italia ha contestato formalmente ai consiglieri di amministrazione della Banca Monte dei Paschi di Siena (di seguito indicata come la Monte dei Paschi) – e per quanto qui rileva in particolare a G.L. e a C.G., all’epoca dei fatti componenti del “comitato per la remunerazione” esistente nell’ambito di detto organo amministrativo – la violazione delle disposizioni in materia di politiche e prassi di remunerazione e incentivazione emanate dall’organo di vigilanza in data 30 novembre 2011 in base all’art. 53, comma 1, lett. d) t.u.b. Analoga contestazione, oltre che violazione degli obblighi di informazione nei confronti dell’organo di vigilanza, è stata rivolta, in base anche all’art. 52 t.u.b., ai sindaci.

2. Le contestazioni sono seguite a una lettera del 9 luglio 2012 con cui la Banca d’Italia aveva richiesto analitica informativa in merito all’ammontare e ai criteri per la determinazione dei compensi riconosciuti ad V.A., cui era stato fornito riscontro con lettera pervenuta il 5 settembre 2012. Dalla Delib. Consiglio Amministrazione 12 gennaio 2012, era emerso che, su parere del comitato per la remunerazione, il consiglio stesso aveva autorizzato la risoluzione del rapporto di lavoro del direttore generale V.A. con la corresponsione della somma di Euro 4 milioni a titolo di incentivo per agevolare detta risoluzione e quale integrazione del t.f.r., in aggiunta a ogni competenza di fine rapporto e spettanza maturata per legge e contratto nazionale di lavoro. La banca si era inoltre impegnata a tenere il direttore generale “immune da azioni, anche di terzi, in relazione al suo operato di direttore generale”.

Secondo la Banca d’Italia, anche alla luce delle notorie criticità della situazione tecnica del gruppo Monte dei Paschi di Siena, derivanti da scelte degli ultimi anni non ispirate a criteri di sana e prudente gestione, che avevano reso necessario il ricorso ad aiuti di Stato, i riconoscimenti effettuati al cessato direttore generale non avevano tenuto conto dei criteri e parametri di cui alle predette disposizioni del 30 marzo 2011, che prevedono che i compensi pattuiti in caso di conclusione anticipata del rapporto debbano essere collegati alla performance e ai rischi assunti, al livello delle risorse patrimoniali, nonchè ai risultati conseguiti, mediante clausole di malus, a fronte invece di pagamento in contanti in unica soluzione; inoltre la remunerazione variabile è, per le banche che beneficino di interventi pubblici, limitata in percentuale del risultato netto di gestione, non dovendo essere pagata agli esponenti aziendali salvo che ciò non sia giustificato.

3. Alle note di addebito del 3 dicembre 2012 avendo G.L. e C.G. controdedotto con note del 21 gennaio 2013, la commissione per l’esame delle irregolarità all’interno della Banca d’Italia si è espressa il 25 febbraio 2013 con parere favorevole a una proposta sanzionatoria, che è stata formulata dal servizio rapporti esterni e affari generali con nota del 19 luglio 2013, sentito l’avvocato generale della Banca d’Italia. Il direttorio della Banca d’Italia ha adottato il provvedimento sanzionatorio nella seduta del 23 luglio 2013, applicando a G.L. e a C.G. la sanzione pecuniaria amministrativa nella misura massima edittale pari a Euro 129.110 ciascuno, tenuto conto delle specifiche responsabilità degli stessi nel comitato (analoga sanzione essendo applicata ad altro componente del comitato, a fronte di una sanzione di Euro 90.000 nei confronti dei consiglieri non componenti il comitato e dei sindaci, con archiviazione nei confronti dei consiglieri non partecipanti alla Delibera).

4. Con ricorso notificato il 29 ottobre 2013 innanzi al t.a.r. per il Lazio in Roma G.L. e C.G. hanno impugnato il provvedimento; a seguito di dichiarazione di difetto di giurisdizione per effetto della sentenza della corte costituzionale n. 94 del 9 aprile 2014, gli opponenti hanno proseguito il giudizio innanzi alla corte d’appello di Roma. Sulla resistenza della Banca d’Italia, con decreto depositato il 26 aprile 2017 la corte d’appello ha respinto l’opposizione.

5. A sostegno della decisione la corte territoriale ha considerato:

– che non fosse stato violato il termine di 90 gg per la contestazione, non potendo decorrere detto termine – come invocato dai trasgressori – dal 2 novembre 2011, data in cui la Monte dei Paschi aveva informato la Banca d’Italia dell’avvenuta rimodulazione dell’assetto retributivo del direttore generale, posto che l’illecito non era riconducibile a detta rimodulazione, bensì alla Delibera di riconoscimento delle somme, successiva e portata a conoscenza della Banca d’Italia solo il 5 settembre 2012;

– che, poichè le sanzioni irrogate ai sensi della disciplina del t.u.b. in gioco non hanno natura sostanzialmente penale, la non punibilità dei fatti contestati alla luce della successiva disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 72 del 2015, non avrebbe vigenza retroattiva per favor rei;

– che il principio del contraddittorio e del diritto di difesa, per non aver potuto interloquire il trasgressore con il direttorio della Banca d’Italia che aveva esaminato la proposta sanzionatoria, erano salvaguardati – anche ai sensi dell’art. 6 della c.e.d.u. come interpretato nella sentenza della corte di Strasburgo 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia – dall’essere assicurato nel sistema italiano un ricorso in opposizione di piena giurisdizione;

– che le doglianze relative a presunte illegittimità della sanzione in relazione all’essere stato corrisposto un importo inferiore alle spettanze contrattuali e all’essere almeno inizialmente sprovvista la Banca d’Italia del potere di dare disposizioni in materia costituirebbero un fuor d’opera, posto che la contestazione concerneva l’essere stato corrisposto un importo in contanti in unica soluzione, senza malus o claw back, nonchè assunto a carico della banca l’obbligo di tenere indenne il direttore generale da responsabilità, in netto contrasto con i meccanismi previsti volti a legare incentivi alla performance, con correzioni ex post; comunque la somma corrisposta, in base al tenore testuale dell’accordo, si aggiungeva alle spettanze contrattuali, mentre la potestà regolamentare della Banca d’Italia si fondava sull’art. 53 t.u.b. anche prima dell’introduzione della lett. d) a seguito della legge comunitaria del 2010;

– che l’entità della sanzione correlata al massimo edittale si giustificava alla luce dell’entità delle somme corrisposte, in periodo nel quale – a prescindere dal se la banca beneficiasse già di aiuti di Stato – era evidente la sua crisi.

6. Per la cassazione del provvedimento hanno proposto ricorso G.L. e C.G. su dieci motivi. Ha resistito la Banca d’Italia con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione da parte del decreto impugnato della L. n. 689 del 1981, art. 14. Secondo i ricorrenti la Banca d’Italia è stata edotta della questione sin da quando le è pervenuta la nota della Monte dei Paschi datata 2/11/2011 che ha informato dell’avvenuta rimodulazione del trattamento retributivo del direttore generale, mentre la contestazione degli addebiti è avvenuta il 3/12/2012, oltre il termine di novanta giorni previsto dalla detta norma; nel frattempo la Monte dei Paschi avrebbe confidato nella legittimità del proprio operato.

Il motivo è infondato.

Come già rilevato dalla corte territoriale, la contestazione non concerne l’eventuale non conformità alla disciplina di settore del contratto con il direttore generale, quale rimodulato, bensì l’accordo di risoluzione consensuale quale approvato dal consiglio d’amministrazione il 12/1/2012. Se la corte d’appello ha già ben notato come l’accertamento della violazione non potrebbe mai essere antecedente alla violazione stessa, consumatasi con il contratto del gennaio 2012, vi è da aggiungere che è destituito di fondamento l’assunto dei ricorrenti secondo il quale “il contratto di lavoro… disciplinava puntualmente i termini di risoluzione del rapporto” (p. 11 del ricorso). Fermo restando che altro, eventualmente, è contrattualizzare un futuro illecito (che comunque, quindi, non si consuma al momento della previsione), altro è commetterlo (e quindi consumarlo, ciò che lo rende accertabile), fatto sta che la risoluzione consensuale del rapporto ha comportato ben altre erogazioni rispetto a quelle contrattualmente previste (veniva erogata con la Delib. 12 gennaio 2012, oltre ai benefici contrattuali, l’ulteriore somma lorda di Euro 4 milioni “a titolo di incentivo per agevolare la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro e quale integrazione del trattamento di fine rapporto, oltre alle competenze di fine rapporto, al t.f.r. maturato e ad ogni altra spettanza prevista dalla legge e dal contratto nazionale di lavoro per i dirigenti di aziende di credito”, nonchè veniva rilasciata garanzia idonea a tenerlo “immune da azioni, anche di terzi, in relazione al suo operato di direttore generale”). In nessun modo, quindi, la commissione dell’illecito può essere fatta retroagire al contratto quale rimodulato.

2. Con il secondo motivo si denuncia, in subordine rispetto al precedente motivo, omesso esame di fatto decisivo. I ricorrenti ricollegano l’omesso esame di fatto decisivo alla “omessa… valutazione in merito alla disciplina contenuta nella nota del 2/11/2011 e ai motivi per cui essa non poteva considerarsi l’evento produttivo dell’illecito” (p. 15 del ricorso).

Il motivo è inammissibile.

La censura – avendo ad oggetto decreto depositato posteriormente all’11/9/2012 – è formalmente ossequiosa del testo applicabile nel presente procedimento ratione temporis dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (di cui alla modifica di cui al D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012), che ha limitato il controllo di legittimità sulla motivazione al minimo costituzionale dell'”omesso esame” di fatti storici; tuttavia, pur intitolandosi come “omesso esame” di fatto storico, la censura – com’è fatto palese dal suo testo, dianzi riportato – si incentra, più che sulla mancanza di esame di un fatto, sulla valutazione di quel fatto, attaccandosi la “omessa… valutazione in merito alla disciplina contenuta nella nota del 2/11/2011 e ai motivi per cui essa non poteva considerarsi l’evento produttivo dell’illecito”.

In altri termini, la motivazione addotta dalla corte d’appello, che alla p. 4 del decreto richiama espressamente la nota del 2/11/2011 e la considera, non sarebbe “sufficiente”, utilizzandosi in pratica un parametro del vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quello della “insufficienza” della motivazione – abrogato dal legislatore.

Secondo la giurisprudenza di questa corte il nuovo parametro dell'”omesso esame” presuppone invece che l’esame della questione oggetto di doglianza da parte del giudice di merito sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico, principale o secondario, oppure che si sia tradotto nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa, invece, qualunque rilevanza della semplice “insufficienza” o della “contraddittorietà” della motivazione, e fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass. sez. U., 07/04/2014 n. 8053; Cass. n. 08/10/2014 n. 21257 e 06/07/2015 n. 13928).

L’inammissibilità del motivo si correla comunque al fatto che, nel quadro del nuovo parametro di “omesso esame”, il fatto storico dell’invio della lettera risulta esaminato.

3. Con il terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 2 c.p. e art. 3 Cost., in relazione agli artt. 144 e 144-ter del t.u.b., quali modificati dal D.Lgs. n. 72 del 2015, sollevandosi anche dubbio di costituzionalità del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 2, comma 3, nella parte in cui non prevede che il favor rei sia applicabile alle sanzioni irrogate anteriormente.

Si censura il provvedimento della corte territoriale per non aver voluto riconoscere l’applicabilità del principio del favor rei, in ragione della natura afflittiva e sostanzialmente penale delle sanzioni in materia, sì da rendersi applicabile la disciplina più favorevole entrata in vigore successivamente, sulla base del D.Lgs. n. 72 del 2015, allorchè le società e gli enti sono divenuti diretti destinatari della sanzione di cui trattasi (e non meri obbligati in via solidale, come in precedenza), e gli esponenti aziendali e il personale sono stati assoggettati alla sanzione stessa personalmente solo a seguito dell’accertamento dei presupposti indicati dalla legge, tra cui la positiva valutazione circa l’incidenza della specifica condotta rispetto alla violazione (art. 144 e art. 144-ter, comma 1 t.u.b., nel nuovo testo). Si richiama all’uopo giurisprudenza costituzionale e della corte Europea dei diritti dell’uomo. In tale contesto si dubita della conformità all’art. 117 Cost., comma 1, D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 2, comma 3, nella parte in cui non prevede l’applicabilità del principio del favor rei alle condotte anteatte.

Il motivo è infondato, e manifestamente infondata è la questione di legittimità costituzionale proposta.

Com’è noto (v. ad es. Cass. n. 29411 del 28/12/2011) in tema di sanzioni amministrative i principi di legalità, irretroattività e di divieto dell’applicazione analogica, di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 1, comportano l’assoggettamento della condotta illecita alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole, senza che possano trovare applicazione analogica, attesa la differenza qualitativa delle situazioni considerate, gli opposti principi di cui all’art. 2 c.p., commi 2 e 3, i quali, recando deroga alla regola generale dell’irretroattività della legge, possono, al di fuori della materia penale, trovare applicazione solo nei limiti in cui siano espressamente richiamati dal legislatore. Nel caso concreto va poi sottolineato che, come riconosce lo stesso ricorrente, l’irretroattività della nuova disciplina posta dall’art. 144-ter, introdotta dal D.Lgs. n. 72 del 2015, è espressamente stabilita dallo stesso decreto (art. 2, comma 3). Il ricorso non contesta tale principio, ma sostiene che nella specie esso non andrebbe applicato per avere la sanzione irrogata, in ragione del suo carattere afflittivo, natura sostanzialmente penale, richiamando al riguardo la giurisprudenza in materia della c.e.d.u., formatasi con riguardo ad altro tipo di violazioni sanzionate dalla Consob, con l’effetto di ritenerla sottoposta al principio del favor rei. Avverso tale argomento non condivisibile è sufficiente osservare che questa corte (cfr. Cass. n. 3656 del 24/02/2016 e n. 21553 del 3 settembre 2018) ha affermato che le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla Banca d’Italia ai sensi dell’art. 144 t.u.b. non sono equiparabili, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle irrogate dalla Consob ai sensi dell’art. 187 ter t.u.f. per manipolazione del mercato, sicchè esse non hanno la natura sostanzialmente penale che appartiene a queste ultime, nè pongono, quindi, un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 c.e.d.u. (cfr. Corte Europea dei diritti dell’uomo, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia).

Per la medesima ragione è manifestamente infondata la sollecitata questione di legittimità costituzionale, non contrastando il tempus regit actum in materia con il principio di retroattività della lex mitior previsto solo per le norme penali sia dalla Costituzione che dalla c.e.d.u., per come interpretata nell’art. 7 dai giudici di Strasburgo.

4. Con il quarto motivo si deduce violazione dell’art. 145, comma 1 t.u.b. e della L. n. 262 del 2005, art. 24, comma 1, nonchè dei principi del contraddittorio, della piena conoscenza degli atti istruttori e della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie rispetto all’irrogazione della sanzione. Nonostante l’adozione da parte della Banca d’Italia dei provvedimenti del 24/6/2011 e del 18/12/2012 volti a regolare il procedimento, esso continuerebbe a connotarsi come illegittimo, ciò che sarebbe stato erroneamente negato dalla corte d’appello con il decreto impugnato. Mancherebbe la possibilità per l’incolpato di conoscere le risultanze istruttorie, onde poterle confutare prima che sia assunta la decisione, ciò che rappresenta un momento essenziale per la regolarità del procedimento. Dopo la notifica delle contestazioni e l’invio delle controdeduzioni, filtrate dal servizio competente e non direttamente rivolte al direttorio della Banca d’Italia, nulla è comunicato (in particolare la proposta o il parere vincolante della commissione per l’esame delle irregolarità) se non il provvedimento sanzionatorio. Il servizio competente all’istruttoria, pur subordinato gerarchicamente al direttorio, formula poi anche la proposta di sanzione da esaminarsi da quest’ultimo.

Il motivo non è fondato.

Le questioni sollevate dai ricorrenti sono state oggetto di ripetuto esame da parte di questa corte.

Come statuito da Cass. n. 3656 del 24/02/2016, il diritto di difesa è garantito dalla comunicazione dell’inizio del procedimento, dalla contestazione degli addebiti, dalla facoltà di presentare controdeduzioni, dall’audizione personale e dalla messa a disposizione delle fonti di prova raccolte in sede istruttoria; invece, non è necessario che all’incolpato sia comunicata la proposta di irrogazione delle sanzioni (cfr. Cass. n. 24723 del 08/10/2018), essendo sufficiente che al direttorio siano rimesse le difese scritte e i verbali delle dichiarazioni rilasciate dall’incolpato, ove lo stesso chieda di essere sentito personalmente; va esclusa l’applicazione degli artt. 24 e 111 Cost., in quanto tali norme riguardano solo il giudizio e non il procedimento amministrativo. Cass. n. 4725 del 10/03/2016 e n. 27038 del 03/12/2013 hanno poi rilevato, in particolare, la compatibilità con il principio del contraddittorio della mancata comunicazione agli interessati della proposta conclusiva formulata al direttorio della Banca d’Italia dalla commissione per l’esame delle irregolarità. A tale conclusione – ancora ribadita da Cass. n. 25141 del 14/12/2015 – la citata sentenza n. 27038 del 2013 perviene valorizzando il precedente delle Sezioni Unite (Cass. sez. un. 20935 del 30/09/2009), ove, in tema di sanzioni irrogate dalla Consob, si è appunto affermato che, ai fini del rispetto del principio del contraddittorio, è sufficiente che venga effettuata la contestazione dell’addebito e siano valutate le eventuali controdeduzioni dell’interessato; con la ripetuta precisazione che i precetti costituzionali riguardanti il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e il giusto processo (art. 111 Cost.) riguardano espressamente e solo il giudizio, ossia il procedimento giurisdizionale che si svolge avanti al giudice e non il procedimento amministrativo, ancorchè questo sia finalizzato all’emanazione di provvedimenti incidenti su diritti soggettivi;

cosicchè l’incompleta equiparazione del procedimento amministrativo a quello giurisdizionale non viola in alcun modo la costituzione. Le suddette conclusioni vanno mantenute ferme anche a fronte delle indicazioni offerte dalla corte e.d.u. con la sentenza 4/3/2014, Grande Stevens c. Italia (con riferimento al diverso procedimento dettato dall’art. 187 septies t.u.f. per la irrogazione delle sanzioni applicate dalla Consob, da considerarsi appartenenti alla “materia penale”), che ha affermato che il procedimento seguito dalla Consob per l’applicazione di sanzione ai ricorrenti contrastasse con i principi fissati dal suddetto art. 6 della convenzione “soprattutto per quanto riguarda la parità delle armi tra accusa e difesa ed il mancato svolgimento di una udienza pubblica che permettesse un confronto orale” (punto 123). Nella medesima sentenza, sulla scorta della pregressa giurisprudenza della stessa corte Europea, viene comunque precisato che le carenze di tutela del contraddittorio che caratterizzino un procedimento amministrativo sanzionatorio non consentono di ritenere violato l’art. 6 della convenzione quando il provvedimento sanzionatorio sia impugnabile davanti ad un giudice indipendente ed imparziale, che sia dotato di giurisdizione piena e che conosca dell’opposizione in un procedimento che garantisca il pieno dispiegamento del contraddittorio delle parti (punti 138 e 139). In sostanza, deve ribadirsi che – nella materia dell’irrogazione di sanzioni che, pur qualificate come amministrative, abbiano, alla stregua dei criteri elaborati dalla c.e.d.u., natura sostanzialmente penale – gli stati possono scegliere se realizzare le garanzie del giusto processo di cui all’art. 6 della c.e.d.u. già nella fase amministrativa (nel qual caso, nella logica di tale convenzione, una fase giurisdizionale non sarebbe nemmeno necessaria) o mediante l’assoggettamento del provvedimento sanzionatorio applicato dall’autorità amministrativa (all’esito di un procedimento non connotato da quelle garanzie) a un sindacato giurisdizionale pieno, di natura tendenzialmente sostitutiva, attuato attraverso un procedimento conforme alle prescrizioni dell’art. 6 della convenzione (in tal senso Cass. n. 8210 del 22/04/2016 e n. 770 del 13/01/2017). Nel secondo caso, non può ritenersi che il procedimento amministrativo sia illegittimo, in relazione ai parametri fissati dall’art. 6 c.e.d.u., e che la successiva fase giurisdizionale determini una sorta di sanatoria di tale originaria illegittimità; al contrario, il procedimento amministrativo, pur non offrendo esso stesso le garanzie di cui all’art. 6, risulta ab origine conforme alle prescrizioni di detto articolo, proprio perchè è destinato a concludersi con un provvedimento suscettibile di un sindacato giurisdizionale pieno, nell’ambito di un giudizio che assicura le garanzie del giusto processo. Tanto premesso (e ribadito che i predetti principi sono stati formulati per le sanzioni previste dal t.u.f. riconducibili alla “materia penale” secondo i parametri della c.e.d.u.), risulta preliminare e assorbente il rilievo che le delibere sanzionatorie adottate dalla Banca d’Italia (come detto da questa corte non ricondotte alla materia penale) sono impugnabili davanti alla corte d’appello di Roma, giudice indipendente e imparziale, dotato di giurisdizione piena e davanti al quale, nonostante il rito camerale, è garantito ampio contraddittorio. A quest’ultimo proposito va ribadito, per un verso, che il diritto al contraddittorio è garantito dal disposto dell’art. 145, comma 6 t.u.b. (nel testo introdotto dal D.Lgs. n. 342 del 1999, art. 34), il quale, nel disciplinare il procedimento di opposizione alle sanzioni irrogate, prevede la fissazione di termini “per presentazione di memorie e documenti”, nonchè “per consentire l’audizione anche personale delle parti”; per altro verso, che la stessa c.e.d.u. ha chiarito che anche la prescrizione di pubblicità dell’udienza di cui all’art. 6 della convenzione non è assoluta (cfr. sentenza Grande Stevens, cit., p. 119). Alla stregua delle esposte considerazioni deve dunque escludersi che la lamentata mancanza di comunicazione agli interessati della proposta conclusiva formulata al direttorio dalla commissione per l’esame delle irregolarità possa anche astrattamente costituire violazione dei principi di cui all’art. 6 della c.e.d.u. (Cass. n. 24723 del dell’8/10/2018).

5. Con il quinto motivo si deduce omesso esame di fatto decisivo. Si rappresenta che solo nel provvedimento sanzionatorio, senza che il relativo rilievo fosse presente nella contestazione, si assume che il beneficio al direttore generale era stato riconosciuto nonostante la Monte dei Paschi avesse fatto “ricorso a strumenti straordinari di provvista… ” nonchè “a una forma di sostegno pubblico…”. Nulla sul punto ha pronunciato la corte d’appello nonostante che con l’opposizione i ricorrenti avessero fatto presente di non aver potuto controdedurre.

Il motivo è inammissibile.

Giova richiamare, sul punto, quanto considerato nella trattazione del secondo motivo in ordine all’ambito applicativo della censura di “omesso esame” di fatto storico di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nuovo n. 5.

Nel caso di specie, i ricorrenti indicano come “fatto storico” uno dei profili concreti inseriti nell’ambito delle proprie doglianze in sede di opposizione, ribadite con il quarto motivo di ricorso per cassazione. Non trattandosi di omessa considerazione di un fatto storico, avendo la corte d’appello – con argomentazione come sopra condivisa da questa corte – trattato ampiamente il tema del contraddittorio, la doglianza non ha ragion d’essere.

Solo per completezza può notarsi come in alcun modo i ricorrenti abbiano tentato di spiegare in qual modo il rilievo predetto (che pare essere aggiunto ad abundantiam o per miglior comprensione della fattispecie) configuri nuovo addebito, rispetto al quale soltanto il motivo – pure inammissibile – potrebbe assumere significato.

6. Con il sesto motivo si deduce violazione delle disposizioni in materia di politiche e prassi di remunerazione e incentivazione nelle banche e nei gruppi bancari adottate dalla Banca d’Italia in data 30/3/2011 in base agli artt. 53 e 67 t.u.b. Si denuncia che i benefici riconosciuti al direttore generale sarebbero stati determinati in base alla previsioni del contratto individuale e ai minimi garantiti del contratto collettivo nazionale. Il contratto individuale, del resto, era stato trasmesso alla Banca d’Italia che non aveva formulato rilievi; non sarebbe illegittima neppure la clausola volta a tenere indenne il direttore generale da azioni, anche di terzi.

Il motivo è infondato.

Può anzitutto richiamarsi quanto sopra esposto nell’ambito della trattazione del primo motivo, laddove si è notato come l’accordo di risoluzione consensuale del rapporto avesse comportato ben altre erogazioni rispetto a quelle contrattualmente previste (veniva erogata con la Delib. 12 gennaio 2012, oltre ai benefici contrattuali, l’ulteriore somma lorda di Euro 4 milioni “a titolo di incentivo per agevolare la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro e quale integrazione del trattamento di fine rapporto, oltre alle competenze di fine rapporto, al t.f.r. maturato e ad ogni altra spettanza prevista dalla legge e dal contratto nazionale di lavoro per i dirigenti di aziende di credito”, nonchè veniva rilasciata garanzia idonea a tenerlo “immune da azioni, anche di terzi, in relazione al suo operato di direttore generale”). La corte d’appello ha dunque ben rilevato che le erogazioni si sono aggiunte, non già conformate, a quelle spettanti contrattualmente, ciò da cui conseguiva l’applicabilità delle norme in tema di compensi aggiuntivi, posto anche che la natura aggiuntiva dei benefici priva di ogni fondamento la tesi dei ricorrenti circa la previsione degli stessi in base al c.c.n.l. (in tesi, prevalente sulle disposizioni di vigilanza). Parimenti del tutto legittime sono le statuizioni della corte d’appello circa il contrasto tra l’accordo di risoluzione predetto e le disposizioni del 2011 – applicabili anche ai rapporti esistenti nel termine fissato volte a introdurre meccanismi incentivanti correlati alla performance della banca e con correzioni ex post (o claw back), nonchè a prevedere che una quota non fosse in contanti e altra quota fosse a pagamento differito. Palese è anche il contrasto con tali norme della clausola volta a tenere indenne il direttore generale da responsabilità.

7. Con il settimo motivo si deduce violazione della L. n. 689 del 1981, art. 3, avendo la corte d’appello illegittimamente negato che in base all’affidamento creato dall’organo di vigilanza (che non aveva formulato rilievi sulla nota del 2/11/2011) dovesse escludersi l’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo. L’errore sulla liceità del fatto sarebbe stato indotto dall’organo istituzionalmente preposto a vigilare.

Il motivo è infondato.

Si è già detto come i benefici accordati siano stati aggiuntivi rispetto a quelli contrattuali, onde nessun nesso sussiste tra il silenzio serbato dalla Banca d’Italia sulla nota del 2/11/2011 e la successiva commissione dell’illecito, costituita dalla stipula dell’accordo di risoluzione.

Tanto esime da ulteriori considerazioni circa il significato, non certo di approvazione, da attribuirsi all’inerzia dell’organo di vigilanza; con tutto quanto ne consegue in termini anche di solo astratta configurabilità di un affidamento incolpevole.

8. Con l’ottavo motivo si deduce violazione dell’art. 53, comma 1 t.u.b., per avere erroneamente la corte d’appello ritenuto che detta norma fosse il fondamento che abilitasse la Banca d’Italia a emanare le cennate disposizioni del 2011 in materia di incentivi e remunerazioni, la cui violazione ha formato oggetto delle sanzioni impugnate. Secondo i ricorrenti, le disposizioni in parola sono state emanate in assenza di una base legislativa, come si evince dal fatto che la facoltà di emanare disposizionei in tema di “sistemi di remunerazione e di incentivazione” è stata inserita nell’art. 53, comma 1, lett. d) del t.u.b. solo con L. n. 217 del 2011, successivamente rispetto alle disposizioni di cui trattasi.

Il motivo è infondato.

Il fatto che solo con la L. n. 217 del 2011, per adempiere a direttiva comunitaria, sia stato introdotto il “nuovo obbligo” di creare politiche e prassi in tema di remunerazione non significa che precedentemente la Banca d’Italia non potesse emanare, in base al previgente testo dell’art. 53 t.u.b., disposizioni in materia, comunque afferenti la sana e prudente gestione delle banche.

9. Con il nono motivo si deduce violazione della L. n. 689 del 1981, art. 11, avendo la Banca d’Italia irrogato la sanzione nella misura del massimo edittale in assenza di prova del dolo; si era chiesta quindi riduzione della sanzione alla corte d’appello, che erroneamente l’aveva negata. Con il decimo motivo, posto esplicitamente in relazione al nono, si deduce “assenza di motivazione in merito a fatti decisivi per il giudizio”, correlati sempre all’entità della sanzione.

I due motivi, dagli stessi ricorrenti posti in collegamento l’uno con l’altro, sono parzialmente infondati e in altra parte inammissibili.

Richiamato, quanto alle ragioni delle inammissibilità del decimo motivo, quanto sopra più volte ribadito circa l’ambito del sindacato sulla motivazione in base al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, lo stesso pone temi comuni rispetto al nono, il quale è destituito di fondamento posto che la gravità del comportamento cui va ancorata l’entità della sanzione non deve desumersi necessariamente solo dall’elemento soggettivo dolo/colpa, ma anche da altri fattori quali, nel caso di specie, l’essere stata la violazione perpetrata quando la banca attraversava una grave crisi. Ogni altro profilo, in quanto tendente a sottoporre a questa corte di legittimità istanze di revisione delle valutazioni di merito di spettanza della sola corte territoriale, è inammissibile.

10. In definitiva il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, và dato atto del sussistere dei presupposti per il versamento dell’ulteriore importo pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13 cit., comma 1-bis.

PQM

la corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido alla rifusione a favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 200 per esborsi ed Euro 7.000 per compensi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto del sussistere dei presupposti per il versamento a carico dei ricorrenti dell’ulteriore importo pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13 cit., comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 21 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2020

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