Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9367 del 08/04/2021

Cassazione civile sez. II, 08/04/2021, (ud. 15/12/2020, dep. 08/04/2021), n.9367

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio Consiglie – –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27475/2019 proposto da:

B.N., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE G. MAZZINI, 6,

presso lo studio dell’avvocato MANUELA AGNITELLI, che lo rappresenta

e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– resistente –

avverso il decreto di rigetto n. cronol. 3589/2019 del TRIBUNALE di

BOLOGNA, depositalo il 08/08/2079;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

75/72/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che la vicenda qui al vaglio può sintetizzarsi nei termini seguenti:

– il Tribunale di Bologna confermò la decisione della competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, con la quale era stata disattesa la domanda di protezione avanzata da B.N.;

– il richiedente aveva narrato di essere scappato dalla Nigeria per sfuggire alla setta degli (OMISSIS), i quali volevano investirlo di potere, dopo che il padre era morto e che il fratello, dopo aver rifiutato, era morto in un incidente, di avere cercato di mettersi in salvo nel Nord del Paese e poi in Niger, ma li era stato trovato, poichè i componenti della setta avevano “poteri magici”; spostatosi in Libia, ove aveva trovato lavoro, portato in riva al mare, era stato costretto a imbarcarsi e, indi, era giunto in Italia;

ritenuto che l’istante ricorre sulla base di quattro motivi avverso la statuizione di cui sopra e che il Ministero dell’Interno resiste con controricorso;

considerato che il primo motivo, con il quale il ricorrente denunzia violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2 e art. 11, lett. e) e f), nonchè “illogica, contraddittoria e apparente motivazione”, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per essere stata disattesa la domanda di riconoscimento del diritto al rifugio, per essere stato giudicato non credibile il racconto e non sussistente la dedotta persecuzione, non avendo il Giudice contestualizzato la narrazione, non avendo rispettato i criteri di valutazione della prova nella materia della protezione internazionale (il richiedente aveva compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda e il Giudicante era venuto meno al dovere d’integrazione istruttoria), è inammissibile, valendo quanto segue:

a) il Tribunale ha, con compiuta motivazione e utilizzando opportunamente fonti di conoscenza esterne, dettagliatamente spiegato le ragioni che univocamente militavano per la non credibilità dell’esposta vicenda (le dichiarazioni risultavano generiche, non dettagliate e incoerenti, non corroborate da alcun documento, far parte della confraternita degli (OMISSIS), sorta di associazione segreta finalizzata al conseguimento di potere economico e controllo sociale, costituiva una meta ambiziosa e desiata, non constando che l’adesione fosse, invece, coattivamente richiesta a persone prive di ruolo economico-sociale di rilievo);

b) piuttosto palesemente le critiche sono rivolte al controllo motivazionale, in spregio al contenuto dell’art. 360 c.p.c., vigente n. 5, difatti, invece che porre in rilievo l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo o l’assenza di giustificazione argomentativa della decisione, con le stesse il ricorrente, contrappone al ragionato esame della Corte il proprio avverso convincimento; ciò solo fa escludere la ricorrenza di un dovere d’ulteriore approfondimento istruttorio sulla vicenda (senza contare che la narrazione, proprio a cagione della sua flagrante inverosimiglianza e irrisolvibile contraddittorietà, non avrebbe comunque permesso attingimento di conferme di sorta) e il ricorrente, piuttosto che contrapporre evidenze processuali tali da smentire le conclusioni del Tribunale, si limita a riportare i principi della materia e a insistere nella propria versione;

considerato che il secondo e il terzo motivo, fra loro correlati, con i quali il ricorrente deduce violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 1, lett. c), art. 3, comma 3, lett. a) e b), artt. 2,3,5,7,8 e 9 Carta edu, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, comma 21 bis, nonchè l’omesso esame di fatti controversi e decisivi, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, assumendo che il Tribunale aveva ingiustamente negato, al fine di riconoscere il diritto alla protezione sussidiaria, l’esistenza di un danno grave, senza tener conto dei principi regolanti la materia, alla luce della giurisprudenza della Corte edu, e della situazione di pericolo diffuso e incontrollato sussistente in Nigeria, non supera, del pari, il vaglio d’ammissibilità, dovendosi osservare che:

a) la decisione ha preso in esame le COI aggiornate, dalle quali è dato escludere la sussistenza di quella situazione di violenza diffusa e incontrollata evocata dal ricorrente in Edo State; in definitiva risulta evidenziata una condizione di sottosviluppo e d’instabilità del Paese, diffusa, peraltro, purtroppo in molte regioni del mondo, ma non la situazione di particolare criticità dalla quale può conseguire il diritto alla protezione sussidiaria;

b) il Giudice del merito, quindi, ha deciso applicando il principio enunciato da questa Corte, la quale ha avuto modo di chiarire che ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria; il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Sez. 6, n. 18306, 08/07/2019, Rv. 654719);

c) anche a tal riguardo il complesso censuratorio è diretto a una impropria revisione del giudizio di merito, nè il richiamo delle informazioni tratte dal sito “(OMISSIS)” è ai fini che qui rilevano d’utile apprezzabilità (cfr. Cass. n. 8819/2020);

considerato che anche il quarto e ultimo motivo, con il quale il ricorrente lamenta il mancato riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria, in violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. c) e comma 4, nonchè “illogica, contraddittoria e apparente motivazione”, assumendo che il Tribunale non aveva effettuato la comparazione dell’integrazione raggiunta in Italia con il rischio, in caso di rimpatrio, di vedersi negare i diritti umani fondamentali, è inammissibile, valendo quanto segue:

a) questa Corte, a partire dalla sentenza n. 4455/2018, ha affermato il principio secondo il quale il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Rv. 647298);

b) a tale principio il Tribunale si è attenuto, avendo effettuato il giudizio di comparazione, all’esito del quale ha escluso la sussistenza del presupposto della vulnerabilità, poichè, a fronte della prospettata integrazione in Italia, l’appellante si era limitato a addurre, da una parte, lo svolgimento di attività lavorativa e, dall’altra, la violazione dei diritti umani nel Paese d’origine, situazione questa che trovava smentita nei report consultati, di talchè non risultava “un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa”; con l’avvertenza che non si tratta, all’evidenza, di garantire all’immigrato una qualità di vita del tutto equivalente a quella fruibile in Italia, ma, ben diversamente, d’impedire che al rientro possa ritrovarsi in una condizione d’intollerabile – cioè al di sotto del minimo comune imposto dagli strumenti internazionali – deprivazione di tali diritti; nè, l’inverosimiglianza della narrazione permette di attingere al vissuto personale;

e) in conclusione, anche in quest’ultimo caso trattasi di critiche inammissibilmente dirette al riesame di merito;

considerato che, di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”;

considerato che la giurisprudenza della Corte è ormai costante nel ritenere che l’art. 366 c.p.c., n. 4, si applichi, specularmente, anche al controricorso (Cass. n. 12171/09 ed ivi richiamo a Cass. n. 5400/06; cfr. anche Cass. nn. 6222/12 e 3421/97); ciò, tuttavia non significa affatto pretendere, al fine di valutarne l’ammissibilità, che il controricorso debba contenere dei propri “motivi” specifici e speculari rispetto a quelli del ricorso, nè tanto meno che contrattacchi la decisione con altre autonome argomentazioni, ma semplicemente esigere che esso contenga una sia pur minima confutazione del ricorso, in qualunque modo articolata, purchè la sua giustapposizione alla vicenda oggetto di ricorso non sia affidata alla sola deduzione logica della Corte sulla sola base dell’indicazione dei dati di riferimento della causa (numero d’iscrizione a ruolo, nomi delle parti, decisione impugnata);

che, pertanto, specificato in punto di diritto che: “ove il controricorso (…), a dispetto della indicazione della causa alla quale si riferisce, risulti privo di forza individualizzante, constando di uno schema avversativo “di genere, sprovvisto cioè di concreta attitudine di contrasto, attraverso l’esposizione di argomenti specificamente indirizzati a quella vicenda e a quella decisione e posti a confronto di quel ricorso, non assolve al suo scopo”, deve reputarsi che il controricorso qui al vaglio sia estraneo al genus, e per esso non può essere riconosciuto il diritto al rimborso delle spese;

considerato che sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto;

che di recente questa Corte a sezioni unite, dopo avere affermato la natura tributaria del debito gravante sulla parte in ordine al pagamento del cd. doppio contributo, ha, altresì chiarito che la competenza a provvedere sulla revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato in relazione al giudizio di cassazione spetta al giudice del rinvio ovvero – per le ipotesi di definizione del giudizio diverse dalla cassazione con rinvio (come in questo caso) – al giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato; quest’ultimo, ricevuta copia della sentenza della Corte di cassazione ai sensi dell’art. 388 c.p.c., è tenuto a valutare la sussistenza delle condizioni previste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, per la revoca dell’ammissione (S.U. n. 4315, 20/2/2020).

PQM

dichiara il ricorso inammissibile.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2021

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