Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9366 del 12/04/2017

Cassazione civile, sez. III, 12/04/2017, (ud. 10/02/2017, dep.12/04/2017),  n. 9366

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5319-2014 proposto da:

T.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA UGO OJETTI 114,

presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO ANTONIO CAPUTO,

rappresentata e difesa dall’avvocato GREGORIO BARBA giusta procura

speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.F.T., elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE

BRUNO BUOZZI 99, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO CRISCUOLO,

rappresentata e difesa dagli avvocati GIOVANNI SPATARO, VALERIO

DONATO giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ILDEBRANDO

GOIRAN 4, presso lo studio dell’avvocato MARCO STEFANO MARZANO, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANFRANCO SPINELLI

giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1734/2012 del TRIBUNALE di CATANZARO,

depositata il 21/5/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/02/2017 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MISTRI Corrado, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato GREGORIO BARBA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Con sentenza depositata in data 21 maggio 2012, il Tribunale di Catanzaro – per quanto ancora rileva in questa sede – rigettò le domande di risarcimento danni proposte da T. contro C.F.T. e M., tutti dipendenti della Regione Calabria, in ragione della asserita portata offensiva dell’onore e della reputazione di essa attrice delle affermazioni contenute nelle note del 4 gennaio 2010 e 7 gennaio 2010, provenienti, la prima, dalla C. (dirigente del servizio al quale apparteneva la T., con 7^ qualifica funzionale) e, la seconda, dal M. (dirigente del settore nel quale era inserito il servizio diretto dalla C.).

2. – Avverso tale sentenza interponeva gravame T.F., che la Corte di appello di Catanzaro, nel contraddittorio con gli originari convenuti, dichiarava inammissibile ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c. per non aver lo stesso ragionevoli probabilità di accoglimento.

3. – Per la cassazione della sentenza del Tribunale di Catanzaro ricorre T.F., affidando le sorti dell’impugnazione ad otto motivi, illustrati da memoria.

Resistono con separati controricorsi C.F.T. e M.G..

Il Collegio ha deliberato di adottare una motivazione in forma semplificata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Preliminare ed assorbente dell’esame del fondo dei motivi (ciò esimendo il Collegio dal darne specifica contezza) è il rilievo officioso (sebbene sia stato anche fatto oggetto di eccezione ad opera del controricorrente M.) di inammissibilità del ricorso alla stregua di indirizzo oramai consolidato (tra le tante, Cass., 17 aprile 2014, n. 8940; Cass., 15 maggio 2014, n. 10722; Cass., 12 febbraio 2015, n. 2784; Cass., 23 dicembre 2016, n. 26936) e fatto proprio anche dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., sez. un., 27 maggio 2015, n. 10876).

1.1. – Occorre, infatti, ribadire che nel ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado, proponibile ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., comma 3, l’atto d’appello, dichiarato inammissibile, e la relativa ordinanza, pronunciata ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c., costituiscono requisiti processuali speciali di ammissibilità, con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, è necessario che nel suddetto ricorso per cassazione sia fatta espressa analitica menzione almeno dei motivi di appello, se non pure della motivazione dell’ordinanza ex art. 348-bis c.p.c., al fine di evidenziare l’insussistenza di un giudicato interno sulle questioni sottoposte al vaglio del giudice di legittimità e già prospettate al giudice del gravame.

In sostanza, la necessità di compiuta identificazione dell’ambito del giudicato interno derivante dai limiti dell’impugnativa mediante l’appello continua ad esigere la puntuale indicazione dei motivi di appello, se non pure della motivazione dell’ordinanza di secondo grado, quale contenuto essenziale del ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado.

1.2. – Nella specie, il ricorso della T. (e tantomeno la successiva memoria, la quale, in ogni caso, per la sua funzione solo illustrativa, non avrebbe potuto emendare le carenze dell’atto di impugnazione: tra le tante, Cass., 25 febbraio 2015, n. 3780) non contiene affatto – salvo per quanto riportato a p. 26 (e su cui si ritornerà appresso) – la analitica menzione dei motivi di appello, dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c., limitandosi la ricorrente ad assumere (pp. 10/11 del ricorso; ma anche la breve sintesi alle successive pp. 33/34) di aver impugnato talune “parti” della sentenza di primo grado (che sono indicate nei punti e nelle pagine di riferimento), ma senza in alcun modo dare contezza di quale fosse il tenore contenutistico delle censure svolte con l’atto di impugnazione, nè, tantomeno, provvedendo a localizzare in modo specifico (ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) i singoli motivi di impugnazione nel contesto dell’atto di appello. Ciò che, invece, era necessario per assolvere all’onere di rendere intelligibile quale fosse l’effettivo devolutum in appello, tale da non implicare l’esistenza di un giudicato interno sulle questioni oggetto del presente giudizio di legittimità.

1.3. – Unico riferimento al contenuto dell’atto di appello, come detto, emerge a p. 26 del ricorso, là dove, in relazione al sesto motivo di ricorso (veicolato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame su fatto decisivo “riflettente la verità oggettiva delle accuse formulate con le note per cui è causa”), si assume che la “veridicità delle accuse” è stata oggetto di discussione, come risulterebbe anche “nell’atto di appello…, tra le altre, alle pagg. 26 punto 5 b (che si trascrive: “La non veridicità delle contestazioni, inoltre, esclude anche la c.d. continenza della critica erroneamente ritenuta dal Tribunale”) e 27 punto 6 (che si trascrive “Connessa alla non veridicità dei comportamenti illeciti attribuiti all’appellante è l’impugnazione della sentenza dovuta alla circostanza…”)”.

Orbene, non solo un tale riferimento non opera funzionalmente rispetto all’onere dianzi precisato, ponendosi in relazione al ben diverso onere di dimostrare, ai fini della censura di cui al citato n. 5 dell’art. 360 c.p.c., che la circostanza di cui si assume l’omesso esame è stata oggetto di discussione tra le parti (ossia, un profilo diverso da quello che attiene all’individuazione di uno specifico motivo di appello ex art. 342 c.p.c.), ma, in ogni caso e in via assorbente, lo stralcio riportato in ricorso non è, all’evidenza, tale da soddisfare il requisito della analitica menzione della doglianza, trattandosi di minimali estrapolazioni decontestualizzate dal complesso dell’atto e, di per sè, inidonee a fornire contezza della portata di una eventuale censura specifica ai sensi del citato art. 342 c.p.c..

1.4. – Peraltro, va altresì evidenziato che anche dell’ordinanza di inammissibilità della Corte di appello di Catanzaro la ricorrente riporta solo stralci decontestualizzati dal complessivo testo e ciò nonostante che sostenga che il giudice di secondo grado non abbia pronunciato “su parte delle censure proposte”, così da rendere ancor più significativa la carenza (comunque assorbente) dell’assolvimento dell’onere della analitica specifica menzione dei motivi di appello.

2. – Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile e la ricorrente condannata al pagamento, in favore di ciascun controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, da liquidarsi come in dispositivo in base ai parametri introdotti dal D.M. n. 55 del 2014.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso;

condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, in favore di ciascuna parte controricorrente, in Euro 3.000,00, per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1 bis.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza civile della Corte suprema di Cassazione, il 10 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2017

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