Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9365 del 08/04/2021

Cassazione civile sez. II, 08/04/2021, (ud. 01/12/2020, dep. 08/04/2021), n.9365

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25803/2019 proposto da:

M.M.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

GOLAMETTO 2, presso lo studio dell’avvocato SABRINA ROSSI, che lo

rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, COMMISSIONE TERRITORIALE RICONOSCIMENTO

PROTEZIONE INTERNAZIONALE NOVARA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 597/2019 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 03/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

01/12/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che la vicenda qui al vaglio può sintetizzarsi nei termini seguenti:

– la Corte d’appello di Torino rigettò l’impugnazione proposta da M.M.F. avverso la decisione di primo grado, che aveva confermato quella della competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, con la quale era stata disattesa la domanda di protezione dal medesimo avanzata;

– il richiedente aveva narrato di essere stato costretto a fuggire dal Pakistan per timore di azioni violente da parte dei suoi creditori rimasti insoddisfatti, dai quali aveva avuto in prestito il denaro occorso per ricostruire la propria casa, distrutta da un alluvione; la Corte di merito aveva giudicato il racconto inattendibile, per una pluralità di ragioni (proveniva da una Regione avanzata economicamente, il Punjab, e non era verosimile che le autorità statuali non si fossero attivate per risolvere il conflitto, la famiglia, rimasta in Patria, non aveva subito minacce di sorta, la casa costituiva, con tutta probabilità, la garanzia per il credito e, quindi, non si comprendeva, una volta ottenuta la stessa, perchè mai i creditori avrebbero dovuto continuare a minacciarlo);

– la situazione in Pakistan, risultava dalle COI aggiornate consultate, pur contraddistinta dal ripetersi di attentati terroristici, non tale da potersi qualificare dominata da violenza diffusa e incontrollata;

ritenuto che l’appellato ricorre avverso la decisione della Corte territoriale sulla base di un solo motivo e che il Ministero dell’Interno è rimasto intimato;

ritenuto che il ricorrente prospettata violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5,D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, in quanto la decisione impugnata aveva sconfessato il diritto alla protezione umanitaria negando il processo d’integrazione in Italia dell’immigrato, senza tenere nel debito conto dell'”elevato grado di competenze linguistiche e culturali e del radicamento sul territorio italiano in ragione dell’ottenimento di un regolare posto di lavoro”, oltre a non avere ingiustamente reputato non credibile la situazione di “grave e crudele sfruttamento” caratterizzante il Paese d’origine;

considerato che il motivo deve essere rigettato e, tuttavia, la motivazione della sentenza della Corte di Torino deve essere corretta per come appresso:

a) piuttosto palesemente le critiche concernenti l’apprezzamento della credibilità del racconto e la valutazione in ordine alla situazione interna in Pakistan, nella sostanza, risultano inammissibilmente dirette al controllo motivazionale, in spregio al contenuto dell’art. 360, c.p.c., vigente n. 5, in quanto, la deduzione del vizio di violazione di legge non determina, per ciò stesso, lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, occorrendo che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente (da ultimo, S.U. n. 25573, 12/11/2020, Rv. 659459);

b) la narrazione, anche a cagione della sua inverosimiglianza e irrisolvibile contraddittorietà, non avrebbe comunque permesso approfondimenti istruttori di sorta e il ricorrente, piuttosto che contrapporre evidenze processuali tali da smentire le conclusioni del Tribunale, si limita a riportare i principi della materia e a insistere nella propria versione;

c) la decisione, afferma che le “attività svolte dall’appellante nel periodo di accoglienza (non sono) idonee a fondare il riconoscimento della protezione umanitaria”, stante che le misure previste dal D.Lgs. n. 142/2005 “hanno lo scopo di assicurare ai richiedenti asilo che ne facciano richiesta e che soddisfino i requisiti per accedervi, una sistemazione dignitosa nel periodo compreso tra il momento in cui manifestano la volontà di presentare domanda di protezione e il momento in cui la procedura si conclude”;

d) il D.Lgs. n. 142 del 2015, art. 22, intitolato “Lavoro e formazione professionale”, dispone: “1. Il permesso di soggiorno per richiesta asilo di cui all’art. 4, consente di svolgere attività lavorativa, trascorsi sessanta giorni dalla presentazione della domanda, se il procedimento di esame della domanda non è concluso ed il ritardo non può essere attribuito al richiedente. 2. Il permesso di soggiorno di cui al comma 1, non può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. 3. I richiedenti, che usufruiscono delle misure di accoglienza erogate ai sensi dell’art. 14, possono frequentare corsi di formazione professionale, eventualmente previsti dal programma dell’ente locale dedicato all’accoglienza del richiedente”; è evidente che trattasi di disposizione, ai fini che qui interessano, dalla valenza del tutto neutra, avendo lo scopo di favorire l’accoglienza del richiedente la protezione internazionale, nel caso in cui la procedura si protragga nel tempo, non per colpa dell’immigrato;

e) non può, di conseguenza, predicarsi, come erroneamente fa la Corte di Torino, la non valutabilità per “tabulas”, in ordine al giudizio d’integrazione, del lavoro e delle attività formative e d’istruzione svolte dall’interessato, approfittando di una tale possibilità, anche se, per contro, non può affermarsi, in senso contrario, che tali attività, sempre e comunque siano significative allo scopo in discorso;

e) pertanto, nel senso sopra detto la motivazione della sentenza d’appello merita di essere emendata;

f) il motivo, tuttavia, come si è anticipato, è infondato, poichè invoca una revisione del giudizio di merito, in questa sede non consentita, avuto riguardo alla non attendibilità della narrazione e alla situazione interna nella Regione di provenienza;

considerato che non vi è luogo a regolamento delle spese poichè il Ministero non ha svolto in questa sede difese;

considerato che sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto;

che di recente questa Corte a sezioni unite, dopo avere affermato la natura tributaria del debito gravante sulla parte in ordine al pagamento del cd. doppio contributo, ha, altresì chiarito che la competenza a provvedere sulla revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato in relazione al giudizio di cassazione spetta al giudice del rinvio ovvero – per le ipotesi di definizione del giudizio diverse dalla cassazione con rinvio (come in questo caso) – al giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato; quest’ultimo, ricevuta copia della sentenza della Corte di cassazione ai sensi dell’art. 388 c.p.c., è tenuto a valutare la sussistenza delle condizioni previste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, per la revoca dell’ammissione (S.U. n. 4315, 20/2/2020).

PQM

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2021

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