Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9364 del 08/04/2021

Cassazione civile sez. II, 08/04/2021, (ud. 01/12/2020, dep. 08/04/2021), n.9364

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25289/2019 proposto da:

I.S.R., rappresentato e difeso dall’avvocato SIMONA

ALESSIO, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

e contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;

– intimato –

avverso il decreto di rigetto n. cronol. 4935/2019 del TRIBUNALE di

TORINO, depositato il 30/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

01/12/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che la vicenda qui al vaglio può sintetizzarsi nei termini seguenti:

– il Tribunale di Torino rigettò l’opposizione avanzata da I.S.R. contro la decisione della competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, con la quale era stata disattesa la domanda di protezione dal medesimo avanzata;

ritenuto che quest’ultimo ricorre sulla base di un solo motivo avverso la decisione del Tribunale e che il Ministero dell’Interno resiste con controricorso;

ritenuto che il ricorrente lamenta violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per non essere stato riconosciuto il diritto alla protezione umanitaria, evidenziando che il Tribunale, pur avendo esattamente spiegato la natura residuale e di chiusura della protezione in parola, era venuto meno al dovere di cooperazione istruttoria, avendo, con valutazione superficiale, escluso rilievo all’integrazione in Italia del richiedente e avendo erroneamente giudicato la raggiunta integrazione in parola, ove non posta in relazione a una situazione di rischio per la vita e la salute, ovvero a catastrofi naturali, in spregio all’orientamento di legittimità di cui alla sentenza n. 4455/2018;

considerato che la censura è inammissibile, valendo quanto segue:

a) la Corte locale, in primo luogo giudica non credibile la narrazione del richiedente (costui aveva affermato di aver lasciato il Benin per sottrarre il fratellino di cinque anni alla pratica delle cicatrici e della circoncisione, fratellino che, tuttavia, aveva affidato a una donna residente in Ghana, di cui altro non ha saputo dire e, inoltre, di essere fuggito rocambolescamente, dopo essere stato arrestato con l’accusa di aver ucciso il fratello);

b) aveva, indi, accertato, sulla base delle COI aggiornate consultate, che il Benin, veniva reputato il Paese forse più democratico dell’area subsahariana;

c) aveva negato sussistere i presupposti per il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria mancando i seri motivi contemplati dalla legge, non constando l’allegazione di “situazioni afferenti a beni primari della persona, certamente non individuabili nella già ritenuta non credibile e lacunosa motivazione che il richiedente adduce alla supposta impossibilità di fare rientro nel proprio Paese di origine”, nel mentre la dimostrata frequentazione di corsi di studio, formativi e professionali e la partecipazione a tirocini e stage, da soli non giustificavano l’invocata diritto al soggiorno per motivi umanitari, mancando “una stabilità anche economica”;

considerato che l’esposto motivo non supera il vaglio d’ammissibilità, tenuto conto di quanto segue:

a) quanto alla situazione generale in Benin il ricorrente non contesta precipuamente le conclusioni della sentenza impugnata, sorrette da adeguato supporto informativo, limitandosi a evidenziare la sproporzione tra il contesto di vita italiano e quello fruibile in Benin;

b) quanto alla mancata valorizzazione del processo d’integrazione, va osservato che questa Corte, a partire dalla sentenza n. 4455/2018, ha affermato il principio secondo il quale il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Rv. 647298);

c) a tale principio la Corte locale si è attenuta, avendo effettuato il giudizio di comparazione, all’esito del quale ha escluso la sussistenza del presupposto della vulnerabilità, poichè la prospettata integrazione in Italia presuppone che il richiedente possa godere di un reddito stabile, che assicurandogli un’esistenza libera e dignitosa nel nostro Paese, lo sottragga al rischio, in caso di rimpatrio, di veder insoddisfatti i diritti umani essenziali; tuttavia, non si tratta, all’evidenza, di garantire all’immigrato una qualità di vita del tutto equivalente a quella fruibile in Italia, ma, ben diversamente, d’impedire che al rientro possa ritrovarsi in una condizione d’intollerabile – cioè al di sotto del minimo comune imposto dagli strumenti internazionali – deprivazione di tali diritti; qui, mancano entrambe le condizioni: il ricorrente in Italia non è riuscito a conquistarsi una condizione di stabile autosufficienza e in Benin non consta che sia lesa la soglia minima dei diritti umani; nè, l’inverosimiglianza della narrazione permette di attingere al vissuto personale;

e) in conclusione, piuttosto palesemente le critiche, nella sostanza, risultano inammissibilmente dirette al controllo motivazionale, in spregio al contenuto dell’art. 360, c.p.c., vigente n. 5, in quanto, la deduzione del vizio di violazione di legge non determina, per ciò stesso, lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, occorrendo che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente (da ultimo, S.U. n. 25573, 12/11/2020, Rv. 659459);

considerato che, di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”;

considerato che la giurisprudenza della Corte è ormai costante nel ritenere che l’art. 366 c.p.c., n. 4, si applichi, specularmente, anche al controricorso (Cass. n. 12171/09 ed ivi richiamo a Cass. n. 5400/06; cfr. anche Cass. nn. 6222/12 e 3421/97); ciò, tuttavia non significa affatto pretendere, al fine di valutarne l’ammissibilità, che il controricorso debba contenere dei propri “motivi” specifici e speculari rispetto a quelli del ricorso, nè tanto meno che contrattacchi la decisione con altre autonome argomentazioni, ma semplicemente esigere che esso contenga una sia pur minima confutazione del ricorso, in qualunque modo articolata, purchè la sua giustapposizione alla vicenda oggetto di ricorso non sia affidata alla sola deduzione logica della Corte sulla sola base dell’indicazione dei dati di riferimento della causa (numero d’iscrizione a ruolo, nomi delle parti, decisione impugnata);

che, pertanto, specificato in punto di diritto che: “ove il controricorso (…), a dispetto della indicazione della causa alla quale si riferisce, risulti privo di forza individualizzante, constando di uno schema avversativo “di genere”, sprovvisto cioè di concreta attitudine di contrasto, attraverso l’esposizione di argomenti specificamente indirizzati a quella vicenda e a quella decisione e posti a confronto di quel ricorso, non assolve al suo scopo”, deve reputarsi che il controricorso qui al vaglio sia estraneo al genus, e per esso non può essere riconosciuto il diritto al rimborso delle spese;

considerato che sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto;

che di recente questa Corte a sezioni unite, dopo avere affermato la natura tributaria del debito gravante sulla parte in ordine al pagamento del cd. doppio contributo, ha, altresì chiarito che la competenza a provvedere sulla revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato in relazione al giudizio di cassazione spetta al giudice del rinvio ovvero – per le ipotesi di definizione del giudizio diverse dalla cassazione con rinvio (come in questo caso) – al giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato; quest’ultimo, ricevuta copia della sentenza della Corte di cassazione ai sensi dell’art. 388 c.p.c., è tenuto a valutare la sussistenza delle condizioni previste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, per la revoca dell’ammissione (S.U. n. 4315, 20/2/2020).

PQM

dichiara il ricorso inammissibile.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2021

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