Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9359 del 12/04/2017


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Cassazione civile, sez. III, 12/04/2017, (ud. 23/01/2017, dep.12/04/2017),  n. 9359

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco – rel. Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7434-2014 proposto da:

GENERALI ITALIA SPA, (OMISSIS), in persona del Dott. F.G.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 82, presso lo

studio dell’avvocato GREGORIO IANNOTTA, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato ALESSANDRA IANNOTTA giusta procura in calce

al ricorso;

– ricorrente –

contro

F.F., rappresentato e difeso da se medesimo, F.M.,

elettivamente domiciliati in ROMA, CIRCONVALLAZIONE NOMENTANA 162,

presso lo studio dell’avvocato FABIO FOCI, rappresentato e difeso

dall’avvocato FABIO FOCI giusta procura in calce all’atto di

comparsa di costituzione;

– controricorrenti –

e contro

C.S.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 3884/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 05/07/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/01/2017 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MARIELLA DE MASELLIS che ha concluso per l’inammissibilità in

subordine rigetto;

udito l’Avvocato GREGORIO IANNOTTA;

udito l’Avvocato ALESSANDRA IANNOTTA;

udito l’Avvocato FABIO FOCI;

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Maria Margherita Di Vito convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, la Toro Assicurazioni s.p.a. e C.S. affinchè fossero condannati in solido alla restituzione della somma di Euro 250.000 nonchè al risarcimento dei danni. A sostegno della domanda espose che il C., nella qualità di titolare di un’agenzia romana della Toro Assicurazioni, le aveva proposto un investimento asseritamente molto vantaggioso, tramite versamento della somma in un apposito fondo della società di assicurazione. Consegnata la somma tramite un assegno poi incassato dal C., non avendo ricevuto per mesi alcuna documentazione attestante l’effettiva destinazione della stessa, l’attrice dichiarò di essere venuta a conoscenza che l’agenzia era stata chiusa e che il C. era stato rimosso dall’incarico.

Si costituirono in giudizio entrambi i convenuti, chiedendo il rigetto della domanda.

Il Tribunale accolse la domanda e condannò i convenuti in solido al pagamento della somma di Euro 265.779,12, oltre interessi e con il carico delle spese di lite.

2. La pronuncia è stata impugnata dalla Toro Assicurazioni s.p.a. e nel giudizio si sono costituiti gli eredi della D.V. nel frattempo deceduta, cioè i figli F.F. e M..

La Corte d’appello di Roma, con sentenza del 5 luglio 2013, ha rigettato l’appello, confermando la decisione del Tribunale e condannando la società appellante al pagamento delle ulteriori spese del grado.

Ha osservato la Corte territoriale, per quanto di interesse in questa sede, che doveva ritenersi pacificamente dimostrato che la D.V. aveva versato alla Toro Assicurazioni, nelle mani dell’agente C.S., un assegno di Euro 250.000, somma che questi aveva incassato in quanto agente della società suddetta. Richiamati i principi giurisprudenziali relativi all’art. 2049 cod. civ., la Corte romana ha ricordato che, affinchè sorga la responsabilità ai sensi di tale norma, non occorre che esista un nesso di causalità tra le mansioni affidate e l’evento, essendo invece sufficiente che vi sia il c.d. rapporto di occasionalità necessaria; per cui l’illecito sussiste anche se il lavoratore abbia operato oltre i limiti dell’incarico e contro la volontà del committente o abbia agito con dolo, purchè nell’ambito delle sue mansioni. Quanto alle vicende, emergenti dal rapporto della Guardia di finanza nel processo penale a carico del C., tra quest’ultimo e F.F., si trattava di questioni relative alle modalità di restituzione della somma indebitamente trattenuta dal C., che nulla toglieva alla responsabilità della società di assicurazione, colpevole di aver consentito, o comunque non impedito, che il proprio agente protraesse per molti anni una simile illecita attività. Era da ritenere pacifico, poi, che il C. fosse, all’epoca dei fatti, agente con poteri di rappresentanza della società Toro e che avesse in quella veste ricevuto la somma dalla D.V., poi illecitamente trattenuta ed utilizzata in altre attività finanziarie di suo esclusivo interesse.

3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Roma propone ricorso la s.p.a. Generali Italia, nella qualità di incorporante la Toro Assicurazioni s.p.a., con atto affidato a tre motivi.

Resistono F.F. e M. con un unico controricorso.

Le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo ed il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione dell’art. 2049 cod. civ. e dei principi che regolano la responsabilità della società preponente per l’illecito operato del proprio agente assicurativo, nonchè dei principi secondo cui detta responsabilità non sussiste in caso di affidamento colposo da parte del terzo; con il terzo motivo si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti.

La società ricorrente svolge in modo unitario la trattazione dei tre motivi, ponendo in luce, soprattutto, le seguenti circostanze: 1) che la D.V. ed il figlio F.F. avevano intrattenuto una serie di relazioni con il C., dalle quali si doveva trarre la prova sicura del fatto che essi si erano colpevolmente affidati a lui; 2) che, anzi, tra l’avv. F. ed il C. vi era un doloso accordo volto al compimento di azioni illecite in danno della società di assicurazione; 3) che dalla relazione della Guardia di finanza svolta in sede penale tali circostanze emergevano pacificamente; 4) che l’atto di citazione era stato notificato quando la D.V. già sapeva che il C. aveva indebitamente trattenuto la somma versata; 5) che l’art. 2049 cod. civ. era stato applicato in modo non corretto, posto che la D.V. non era in buona fede; 6) che la Corte d’appello, pertanto, aveva omesso l’esame di fatti decisivi risultanti dagli atti di causa, con conseguente violazione di legge.

1.1. I tre motivi di ricorso, che vanno trattati congiuntamente in considerazione dell’evidente connessione tra loro esistente, sono tutti inammissibili.

Osserva la Corte che le censure ivi contenute riportano una serie di circostanze in fatto e richiamano numerosi documenti senza dire se e quando siano stati messi a disposizione di questa Corte (nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6). In particolare, vi sono frequenti richiami ad una vicenda penale riguardante l’agente C. dai cui atti emergerebbe, nell’assunto della società ricorrente, l’assoluta estraneità della compagnia assicuratrice e, al contrario, la prova di un accordo tra l’investitrice D.V. ed i suoi figli, oggi controricorrenti, allo scopo di raggirare la società assicuratrice. Il tutto con l’evidente obiettivo di dimostrare l’estraneità della società ricorrente rispetto all’operato del proprio agente, al fine di escludere l’applicazione dell’art. 2049 cod. civ. e di sottrarsi alla condanna che entrambi i Giudici di merito hanno pronunciato nei suoi confronti.

E’ appena il caso di rilevare che tali doglianze, in sostanza riproduttive di quelle già poste all’esame della Corte d’appello e da questa attentamente vagliate, costituiscono un palese tentativo di sollecitare la Corte di legittimità ad un vero e proprio riesame dell’intera vicenda, il che è evidentemente precluso in questa sede. Anche le censure di violazione dell’art. 2049 cod. civ. di cui ai primi due motivi di ricorso non sono altro, in realtà, che un tentativo di ottenere un ribaltamento del giudizio conseguente ad una diversa valutazione delle prove.

La Corte d’appello, d’altra parte, ha vagliato il materiale probatorio esistente e, ritenuta sussistente la prova del c.d. nesso di occasionalità necessaria, ha inquadrato la fattispecie facendo corretta applicazione di principi giurisprudenziali ormai pacifici, sicchè nessuna omissione è imputabile alla decisione qui impugnata.

2. Il ricorso, pertanto, è dichiarato inammissibile.

A tale esito segue la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, sopravvenuto a determinare i compensi professionali.

Sussistono inoltre le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 13.200, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 23 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2017

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