Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9351 del 28/04/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 9351 Anno 2014
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: BRONZINI GIUSEPPE

SENTENZA

sul ricorso 24229-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio
dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente –

2014
201

contro

BARONCELLI SIMONA C.F. BRNSMN73C63D612S, domiciliata
in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa

Data pubblicazione: 28/04/2014

dall’avvocato SCARTABELLI CARLO, giusta delega in
atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 1032/2007 della CORTE
D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 08/10/2007 R.G.N.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 16/01/2014 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE
BRONZINI;
udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega PESSI
ROBERTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ALBERTO CELESTE che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

556/2005;

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza dell’8.10.2007, la Corte di Appello di Firenze rigettava l’appello proposto
dalle Poste italiane avverso la sentenza del Tribunale di Pistoia che aveva dichiarato
Gou,
l’illegittimità dell’apposizione del termine al contratto a tempo determinato stipulatorSimona
Baroncelli dal 8.2.2001 al 31.5.2001 per ” esigenze eccezionali di acarattere straordinario
conseguenti alla fase di ristrutturazione, ivi ricomprendendo un più funzionale

ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie , prodotti e
servizi” ex art. 25 CCNL., accertando che tra lapartk,ricorrentte la società Poste Italiane
era intercorso, sin dal 8.2.2001 un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, e
condannando la società al risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate dalla data
di messa in mora del 16.7.20004. La Corte territoriale osservava che la società non aveva
dimostrato di aver rispettato la clausola contrattuale che stabiliva un tetto quantitativo alle
assunzioni a termine. Le Poste avevano prodotto una missiva interna ilEtt~, ma non
era stato dimostrato che poi questa missiva avesse avuto attuazione e che fosse stato
rispettato il limite fissato in particolare per la Regione Toscana. Stante il carattere
essenziale della clausola contrattuale in quanto rientrante tra gli elementi autorizzeori le
parti sociali all’apposizione del termine, lo stesso doveva ritenersi nullo.
Per la cassazione di tale decisione ricorre la società Poste Italiane, con due motivi,
illustrati con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. Resiste la par b intimata con controricorso
La Corte ha autorizzato la motivazione semplificata della presente sentenza.
MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo si allega la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e.dsei
1.A.0
degli
artt.
421
e
437
c.p.c.romessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione circa
sensi
un fatto decisivo per il giudizio. Era onere del lavoratore dimostrare il superamento del
tetto previsto dal CCNL per i contratti a termine, se del caso chiedendo una consulenza di
ufficio.
Il motivo è infondato in quanto l’art. 23 della legge n. 56/1987 autorizza le parti sociali,
concretizzando quella che la giurisprudenza di legittimità ha chiamato ” una delega” in

riposizionamento di risorse sul territorio anche derivanti da innovazioni tecnologiche

bianco, a stabilire ipotesi di assunzione a termine, demandando però alle stesse parti
sociali di stabilire la percentuale massima di lavoratori a tempo parziale. Pertanto, prima
della novella del 2001 ( il contratto di cui è causa è antecedente alla riforma del 2001)
l’esistenza di una ipotesi contrattualmente prevista di assunzione a termine ed il rispetto
della ” clausola di contingentamento ” erano presupposti legittimanti il contratto a tempo
parziale (oltre le ipotesi previste dalla legge del 1962) e quindi non può esservi alcun
dubbio che la prova incomba sul datore di lavoro ( anche in virtù del consolidato principio

legge e che, di norma, possiede- soprattutto se copre un intero settore come le Poste spala documentazione necessaria per dimostrare la sussistenza del presupposto in parola.
Nel caso in esame la Corte di appello ha accertato che la documentazione offerta non ha
dimostrato il mancato superamento del limite fissato dalla contrattazione collettiva.
Con il secondo motivo si allega la violazione e falsa applicazione delle norme di diritto:
nonché l’omessa insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata.
L’onere della dimostrazione del danno era a carico del lavoratore e il risarcimento del
danno da retribuzioni perdute a causa della mancata esecuzione della prestazione
presuppone che le dette prestazioni siano state offerte dal lavoratore.
Il secondo motivo di ricorso è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza,
risultando dalla sentenza della Corte di Appello che la messa in mora è riconnessa alla
richiesta di esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, laddove la società
contesta l’efficacia di costituzione in mora di tale documento senza trascriverne il
contenuto . Il quesito di diritto di cui a pag. 13 del ricorso peraltro appare inammissibile in
quanto privo di qualsiasi riferimento alla fattispecie in esame ( non prende neppure in
considerazione l’accertamento sulla messa in mora condotto dalla corte territoriale) . I
riferimenti ad un aliunde perceptum sono assolutamente generici.
Infine, osserva il Collegio che, con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. la società
ricorrente, invoca, in via subordinata, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato
dall’art. 32, commi 5 0 , 6° e 7° della legge 4 novembre 2010 n. 183, in vigore dal 24
novembre 2010.
Orbene, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter
applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia
retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in

della ” vicinanza alla prova”), che deve dimostrare di rientrare nella deroga prevista per

qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione
della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di
ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070). Tale condizione
non sussiste nella fattispecie, benché, con sentenza della Corte Costituzionale n.
303/2011 siano state dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183 sollevate, con riferimento
agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 e 117, primo comma, della Costituzione. Ed invero, il

inammissibile, il che preclude ogni esame della questione.
Il ricorso va, in conclusione, complessivamente respinto. Le spese di lite- liquidate come al
dispositivo della sentenza- seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio
di legittimità che si liquidano in euro 100,00 per spese, nonché in euro 3.500,00 per
compensi oltre accessori.
Così deciso in ROMA, il 16.1.2014

motivo dedotto in relazione alla quantificazione del risarcimento è stato dichiarato

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