Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9339 del 17/04/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 9339 Anno 2013
Presidente: VIDIRI GUIDO
Relatore: MAROTTA CATERINA

SENTENZA

Sul ricorso 14530-2010 proposto da:
IL MESSAGGERO S.P.A. 05629251009, in persona del
legale rappresentante pro tempore elettivamente
domiciliato in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 99, presso lo
studio dell’avvocato PUNZI CARMINE, che lo rappresenta
e difende unitamente all’avvocato LAZZARA GIOVANNI,
2013

giusta delega in atti;
– ricorrente –

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contro

MASTROMATTEI DANIELA MSTDNL54S72H501S;
– intimata –

Data pubblicazione: 17/04/2013

’Nonché da:
MASTROMATTEI DANIELA MSTDNL54S72H501S, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIALE ANGELICO 35, presso lo
studio degli avvocati D’AMATI DOMENICO,
NICOLETTA,

D’AMATI

GIOVANNI

NICOLA,

D’AMATI
che

la

-controricorrente e ricorrente incidentale contro

IL MESSAGGERO S.P.A. 05629251009, in persona del
legale rappresentante pro tempore elettivamente
domiciliato in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 99, presso lo
studio dell’avvocato PUNZI CARMINE, che lo rappresenta
e difende unitamente all’avvocato LAZZARA GIOVANNI,
giusta delega in atti;
– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 641/2009 della CORTE D’APPELLO
di ROMA, depositata il 09/11/2009 r.g.n. 766/06;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 08/01/2013 dal Consigliere Dott. CATERINA
MAROTTA;
udito l’Avvocato LAZZARA GIOVANNI;
udito l’Avvocato D’AMATI DOMENICO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIUSEPPE CORASANITI, che ha concluso
per il rigetto del ricorso principale e accoglimento
del ricorso incidentale.

rappresentano e difendono giusta delega in atti;

R. Gen. N. 14530/2010
Udienza 8/1/2013
Il Messaggero S.p.A. c/
Mastromattei Daniela

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Su ricorso di Daniela Mastromattei, il Tribunale, giudice del lavoro, di Roma,
riconosceva il diritto della ricorrente nei confronti de Il Messaggero S.p.A. al
trattamento economico e normativo di redattore per il periodo 1/10/1985-10/4/1998 e

accessori nonché al risarcimento del danno per l’omesso versamento dei contributi
previdenziali, rigettava la domanda intesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità,
inefficacia o nullità del licenziamento verbale intimato in data 10/4/1998. Avverso
tale sentenza proponeva appello principale la società ed appello incidentale la
Mastromattei. La Corte di appello di Roma confermava la decisione di primo grado.
Riteneva, in particolare, che le risultanze della prova orale e documentale
confermassero la natura subordinata del dedotto rapporto di lavoro sussistendo gli
indici della continuità e della eterodirezione della prestazione in uno con la
mancanza di alcun significativo spazio di autonomia. Riteneva, poi, in concreto che
l’attività della Mastromattei, per le caratteristiche della quotidianità e della
elaborazione, analisi e valutazione delle notizie, fosse assimilabile a quella del
redattore. Quanto, poi, alla mancanza di iscrizione della Mastromattei all’albo dei
giornalisti, considerava la stessa ostativa solo al riconoscimento della corrispondente
qualifica professionale non anche al relativo trattamento economico. Sulla base della
medesima argomentazione rigettava, altresì, l’appello incidentale proposto dalla
Mastromattei, escludendo la possibilità di ordinare l’assunzione del lavoratore
iscritto solo all’albo dei pubblicisti. Confermava, quindi, la statuizione relativa al
rigetto della eccezione di prescrizione ed evidenziava che, nello specifico, nessuna
contestazione fosse stata mossa con riguardo al quantum liquidato dal primo giudice.

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condannava la società resistente al pagamento della somma di € 288.842,78 oltre

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Udienza 8/1/2013
Il Messaggero S.p.A. c/
Mastromattei Daniela

Infine, riteneva infondata la censura relativa al riconosciuto risarcimento del danno
da omissione contributiva.
Per la cassazione di tale sentenza la H Messaggero S.p.A. propone ricorso

Resiste con controricorso l’intimata Daniela Mastromattei e formula, altresì,
ricorso incidentale cui resiste con controricorso la n Messaggero S.p.A..
La Mastromattei ha anche depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc.
civ..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. I ricorsi hinc et inde proposti avverso la stessa sentenza sono stati riuniti ex
art. 335 cod. proc. civ..
2. Con il primo motivo la società ricorrente principale denuncia: “Insufficiente e
contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio:
insussistenza di un vincolo di subordinazione tra D Messaggero e la Mastromattei
(rilevante ex art. 360, primo comma n. 5, cod. proc. civ.)”. Si duole dell’avvenuto
riconoscimento di un rapporto di lavoro giornalistico subordinato tra le parti senza
una adeguata motivazione che tenesse in debita considerazione quanto previsto, in
materia, dalla normativa di diritto e dai principi enunciati da questa Corte. Sostiene
che l’indice ritenuto dal giudice di merito significativo (e cioè la continuità della
prestazione) tale non potesse essere in considerazione del fatto che nulla era emerso
con riguardo all’obbligo costante e quotidiano della Mastromattei di essere
disponibile per le esigenze del giornale, irrilevante essendo, a tal fine, il dato
quantitativo degli articoli redatti dalla stessa ovvero la sua presenza in redazione.
Evidenzia che, in sede di appello, era stato puntualmente rilevato come l’istruttoria

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affidato a quattro motivi.

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Messaggero S.p.A. cl
Mastromattei Daniela

svolta avesse dimostrato che la Mastromattei non partecipava alla “confezione” degli
articoli da lei redatti, che non le era consentito sostare in redazione e non le era stata
assegnata alcuna postazione di lavoro ma che sul punto la Corte territoriale si era

operato dal giudice di primo grado senza, tuttavia, spiegare il perché di tale
conclusione. Deduce, inoltre, che le “direttive” cui il giudice del merito ha fatto
riferimento, non sono da intendersi quali vere e proprie disposizioni passibili di
sanzione in caso di inadempimento ma si inseriscono nell’ambito dell’organizzazione
tecnica nell’ambito della quale vengono date delle “indicazioni” al fine, innanzitutto,
di rendere possibile la pubblicazione dell’articolo, ferma in ogni caso la possibilità
per il collaboratore di rifiutare l’esecuzione della prestazione concordata. Evidenzia
che dall’istruttoria non era emerso che tali indicazioni si fossero trasformate in un
“comando” cui la Mastromattei non potesse sottrarsi se non esponendosi
all’applicazione di sanzioni disciplinari o di altro genere. Rileva, poi, una
contraddizione della motivazioni laddove la Corte territoriale ha ritenuto che, nello
svolgimento dell’attività, non vi fossero spazi di autonomia e tuttavia ha riconosciuto
che l’attività svolta fosse quella del redattore poiché caratterizzata dall’autonomia.
3. Il motivo non è fondato.
Deve preliminarmente osservarsi che le svolte censure, pur diffusamente e
puntualmente argomentate, consistono in critiche ed obiezioni avverso la valutazione
delle risultanze istruttorie quale operata dal giudice del merito nell’esercizio del
potere di libero e prudente apprezzamento delle prove a lui demandato dall’art. 116
cod. proc. civ. e si risolvono nella prospettazione di un diverso risultato interpretativo
degli elementi probatori acquisiti, con involgimento, così, di un sindacato nel merito

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limitata a considerare tali circostanze non idonee ad inficiare il quadro ricostruttivo

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della causa non consentito in questa sede (cfr. al riguardo, tra le molte, Cass. Sez.
Un. 11 giugno 1998 n. 5802). 11 controllo di legittimità da parte della Corte di
cassazione non può, infatti, riguardare il convincimento che tale giudice abbia

congruenza dal punto di vista dei principi di diritto che regolano la prova e la
coerenza logico-formale delle argomentazioni svolte (cfr. ex plurimis Cass. 18 marzo
2011, n. 6288, id. 23 dicembre 2009, n. 27162; 9 agosto 2007, n. 174777). In
conseguenza, tale controllo non può spingersi fino alla rielaborazione del giudizio di
fatto alla ricerca di una soluzione alternativa rispetto a quella ragionevolmente
raggiunta, da sovrapporre, quasi a formare un terzo grado di giudizio di merito, alla
valutazione operata nei due gradi precedenti, magari perché ritenuta la migliore
possibile, dovendosi viceversa lo stesso muovere esclusivamente (attraverso il filtro
delle censure proposte dalla parte ricorrente) nei limiti segnati dall’art. 360 cod. proc.
civ. e potendo riguardare solo (per il tramite del suddetto filtro) gli indicati profili
della coerenza logico-formale e della correttezza giuridica delle argomentazioni
svolte, in base all’individuazione, che come detto compete esclusivamente al giudice
di merito, delle fonti del proprio convincimento, raggiunto attraverso la valutazione
delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, la scelta tra di esse di
quelle ritenute idonee a sostenerlo all’interno di un quadro valutativo complessivo
privo di errori, di contraddizioni e di evidenti fratture sul piano logico, nel suo intero
tessuto ricostruttivo della vicenda (cfr., anche, più recentemente, ex ceteris, Cass. 23
dicembre 2009, n. 27162; Cass. S.U. 21 dicembre 2009, n. 26825).
Occorre, dunque, che i “punti” della controversia dedotti per invalidare la
motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione, siano

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espresso in ordine alla rilevanza probatoria degli elementi considerati, ma solo la sua

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autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro
rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante o determini
al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente

2006, n. 5473; id. 21 novembre 2006, n. 24744).
Giova pure ricordare, sul punto dell’accertamento della controversa natura
subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti, che ai fini della
qualificazione di tale rapporto come autonomo ovvero subordinato, è sindacabile, nel
giudizio di cassazione, essenzialmente la determinazione dei criteri generali ed
astratti da applicare al caso concreto: mentre la valutazione delle risultanze
processuali in base alle quali il giudice di merito ha ricondotto il rapporto
controverso all’uno od all’altro istituto contrattuale implica un accertamento ed un
apprezzamento di fatto che, come tali, non possono essere censurati in sede di
legittimità se sostenuti da motivazioni ed argomenti esaurienti ed immuni da vizi
logici e giuridici (tra le molte, Cass. 7 aprile 1992, n. 4220; id. 27 settembre 1991, n.
10086).
In relazione alla presente fattispecie e con riguardo al rapporto di lavoro
giornalistico di natura subordinata ed alla qualifica di redattore, cui ha fatto
esclusivamente riferimento la Mastromattei nella prospettazione delle sue richieste
nel corso del giudizio, deve affermarsi in via generale, tenuto conto dell’ampia
elaborazione giurisprudenziale in materia, che nell’ambito di tale tipo di attività il
carattere della subordinazione risulta attenuato per la creatività e la particolare
autonomia qualificanti la prestazione lavorativa e per la natura prettamente
intellettuale dell’attività stessa: con la conseguenza che ai fini dell’individuazione del

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incongrua o contraddittoria la motivazione (in proposito, cfr., ad es. Cass. 14 marzo

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vincolo di subordinazione rileva particolarmente l’inserimento continuativo ed
organico di tali prestazioni nell’organizzazione dell’impresa (cfr. tra le altre, Cass. 28
luglio 1995, n. 8260; id. 9 agosto 1996, n. 7372; 12 agosto 1997, n. 7494 cui adde,

2006, n. 4770).
Nel lavoro giornalistico subordinato va pure posto in rilievo il carattere
collettivo dell’opera redazionale, stante la peculiarità dell’orario di lavoro e dei
vincoli posti dalla legge per la pubblicazione del giornale e la diffusione delle notizie
(Cass. 9 giugno 1998, n. 5693). La figura professionale del redattore, poi, come
delineata dall’art. 5 del contratto di lavoro giornalistico, implica pur essa il
particolare inserimento della prestazione lavorativa nell’organizzazione necessaria
per la compilazione del giornale, vale a dire in quella apposita e necessaria struttura
costituita dalla redazione, caratterizzata dalla funzione di programmazione e
formazione del prodotto finale e delle attività organizzate a tal fine, quali la scelta e
la revisione degli articoli, la collaborazione all’impaginazione, la stesura dei testi
redazionali ed altre attività connesse e similari (Cass. 27 marzo 1998, n. 3272).
In aderenza alla suddetta regola di diritto, rileva questa Corte che il giudice
del merito ha fatto corretta applicazione della legge e della logica ed ha
compiutamente esposto le ragioni per cui, sulla base delle emergenze di causa, ha
ritenuto l’esistenza della subordinazione. Ha, a tal fine, specificamente valorizzato
non solo il dato della continuità della prestazione lavorativa, ma anche quelli: – della
presenza quotidiana della Mastromattei in redazione da oltre dieci anni (requisito,
quello della quotidianità, imprescindibile per l’integrazione della qualifica di
redattore); – della cura di rubriche fisse, stabilmente assegnatele (significativo del

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più di recente, Cass. 29 novembre 2002, n. 16997; 9 aprile 2004, n. 6983; 6 marzo

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pieno affidamento sulla Mastromattei da parte della società datrice nell’organizzare
la propria attività); – dell’assoggettamento della stessa al potere di decisione ed al
controllo del responsabile di servizio (che aveva l’ultima parola sul da farsi e sugli

specifico argomento e chiedere di modificare e correggere gli articoli scritti) in
ordine agli avvenimenti da seguire, ai pezzi da scrivere, alle modalità di redazione
degli stessi, alle modifiche e correzioni da apportare; – della utilizzazione della
Mastromattei in plurimi settori di informazione; – del cospicuo numero di pezzi
scritti. Il complesso degli elementi considerati ha, così, portato la Corte capitolina a
ritenere che la prestazione della Mastromattei, ancorché connotata dalle
caratteristiche della creatività ed autonomia (nel senso di apporto soggettivo ed
inventivo nella manifestazione del pensiero finalizzata all’informazione) tipiche di
una prestazione avente natura intellettuale, fosse condizionata nei contenuti, negli
argomenti, nel taglio degli articoli dai poteri di eterodirezione che la società si
riservava e che in tale contesto non fosse ravvisabile alcuno spazio di
autodeterminazione (con riferimento al potere organizzativo e direttivo finalizzato
all’attuazione della linea editoriale) tale da configurare una situazione di
collaborazione coordinata e continuativa.
Del resto, come da questa Corte più volte affermato, nell’ambito del rapporto di
lavoro giornalistico, il vincolo della subordinazione assume una particolare
configurazione oltre che per la natura squisitamente intellettuale delle prestazioni
anche il carattere collettivo dell’opera redazionale, la particolarità dell’orario di
lavoro ed i vincoli posti dalla legge per la pubblicazione del giornale e la diffusione
delle notizie. In conseguenza, lo stesso va ravvisato essenzialmente nella stabile

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eventi da coprire e poteva anche decidere di commissionare un pezzo su uno

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disponibilità del lavoratore – pur nella discontinuità delle richieste di prestazione – ad
eseguire le istruzioni dell’editore, ad apportare modifiche ed aggiustamenti ai propri
elaborati in funzione delle esigenze redazionali e sulla base delle indicazioni del

voluta dal responsabile stesso; deve, per contro, ravvisarsi un rapporto di lavoro
autonomo (per il quale non è prevista alcuna ingerenza del committente
nell’esecuzione della prestazione) quando venga prestabilita una unica fornitura,
anche se scaglionata nel tempo, con unica retribuzione, magari subordinata ad una
valutazione di gradimento e commisurata alla singola prestazione (cfr. in argomento,
Cass. 10 aprile 2000, n. 4533; id. 20 agosto 2003, n. 12252; 9 aprile 2004, n. 6983; 7
settembre 2006, n. 19231; 12 febbraio 2008, n. 3320; 29 agosto 2011, n. 17723).
In sostanza, l’elemento creativo, proprio dell’attività intellettuale, attenua ma
non è sufficiente ad eliminare la posizione di subordinazione, che sussiste purché non
difetti la detta continuità delle prestazioni, intesa come disponibilità del lavoratore ad
eseguire le istruzioni del datore di lavoro, persistenti anche negli intervalli tra una
prestazione e l’altra (così Cass. 27 settembre 1991, n. 10086; id. 18 febbraio 1993, n.
1989; 10 marzo 1994, n. 2352; 28 luglio 1995, n. 8260). Tale continuità è stata, nel
caso di specie, incensurabilmente accertata dal giudice di merito il quale non si è
discostato dagli indicati principi con l’affermazione che nell’attività svolta dalla
Mastromattei fossero rinvenibili tutti i tratti caratteristici di una attività giornalistica
svolta nella stabile e quotidiana disponibilità della lavoratrice all’interno della
redazione e consistente nella raccolta, valutazione ed elaborazione delle notizie, nella
scelta di quelle ritenute a suo giudizio più importanti, nella possibilità di apportarvi
alcune modifiche su indicazione del responsabile del servizio e, dunque, nella piena

lo

responsabile del servizio a destinare gli elaborati stessi ad una rubrica specificamente

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partecipazione all’attività di programmazione e formazione del prodotto finale, nella
interazione con il corpo redazionale nei tempi e nei modi imposti dalle esigenze della
produzione ( v. anche Cass. 20 agosto 2003, n. 12252; id. 27 marzo 1998, n. 3272).

ma la sussistenza di un obbligo per il giornalista di mantenersi a disposizione tra una
prestazione e l’altra. Tale vincolo è, però, ricavabile da vari indici quali, oltre
all’inserimento nella compagine aziendale ed alla impossibilità di rifiutare un
incarico ovvero di sottrarsi ad una specifica indicazione datoriale, anche il numero
degli articoli prodotti (che esclude ragionevolmente la disponibilità verso altri
incarichi, deponendo per l’esclusività della prestazione).
Nel caso in esame, il giudice di appello ha esaminato l’oggetto della attività
della Mastromattei, comprendente un’ampia gamma di prestazioni di natura
giornalistica, e dall’ampiezza di tale attività, dall’intensità della collaborazione,
dall’affidamento che l’editore poteva fare sul ruolo della stessa, senza la necessità di
doverlo concordare volta per volta, ha dedotto l’inserimento stabile della lavoratrice
nell’organizzazione aziendale ed identificato in esso il vincolo della subordinazione.
Rispetto alla ricostruzione della Corte territoriale, dunque, le doglianze della
società ricorrente (sostanzialmente incentrate sulla eccessiva valorizzazione della
documentazione prodotta dalla Mastromattei ovvero, al contrario, sulla omessa e/o
inadeguata considerazione di alcune circostanze, quali ad es. il divieto alla
Mastromattei di trattenersi a lavorare presso la redazione oltre il tempo necessario,
la circostanza che la stessa scrivesse gli articoli da casa, fosse sprovvista di password
per l’accesso ai computer redazionali e non fosse dotata di una postazione di lavoro
fissa all’interno della redazione ecc.) non vanno ad incidere sulle caratteristiche

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In tale contesto, non è, in sé, rilevante il dato quantitativo degli articoli prodotti,

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intrinseche delle modalità di esecuzione della prestazione della lavoratrice tenuta a
conformarsi, nei termini sopra illustrati, alle disposizioni datoriali e, dunque, non
hanno quella forza esplicativa o dimostrativa di cui in premessa si è detto né

inficiare la complessiva attendibilità del quadro ricostruttivo, sostanzialmente
univoco nel delineare una situazione di assoggettamento della Mastromattei al
potere organizzativo e direttivo della società convenuta.
4. Con secondo motivo la società ricorrente principale denuncia: “Omessa
motivazione circa un fatto controverso anch’esso decisivo ai fini della definizione del
giudizio: l’indagine sulla reale volontà espressa dalle parti al momento della
costituzione del rapporto (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.)”. Rileva che nonostante la li
Messaggero S.p.A. avesse evidenziato, in sede di impugnazione, l’importanza
decisiva dell’indagine della volontà espressa dalle parti al momento della
costituzione del rapporto, perché rivelatrice della reale intenzione delle parti stesse di
dare vita ad una mera collaborazione autonoma con caratteristiche rimaste immutate
nel corso dello svolgimento del rapporto, ha omesso ogni considerazione su tale
circostanza.
5. Anche tale motivo è infondato.
La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei ricordati criteri generali ed
astratti volti alla individuazione, in relazione al concreto svolgimento del rapporto
dedotto in giudizio e tenuto conto della peculiarità dell’attività esercitata, della
effettiva natura del rapporto stesso, pervenendo alla conclusione, qui infondatamente
censurata, della sussistenza della subordinazione attraverso un iter argomentativo
lineare, coerente con le risultanze processuali esaminate e immune da vizi logici. Né

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risultano idonee a disarticolare il ragionamento svolto dalla Corte di appello e ad

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ciò può ritenersi efficacemente confutato dalla doglianza relativa alla pretesa omessa
indagine sulla volontà inizialmente manifestata fra le parti, non essendo stato
neppure indicato in ordine a quali specifiche emergenze istruttorie (in tesi non

ricorrente limitata a dedurre che non deve prescindersi dalla volontà delle parti come
manifestata al momento della costituzione del rapporto e dal nomen iuris dalle stesse
parti attribuito. Peraltro, sul rilievo del nomen iuris attribuito dalle parti al rapporto è
principio risalente e indiscusso che la volontà negoziale non ha il potere di
qualificare giuridicamente i rapporti posti in essere, trattandosi di compito riservato
al giudice; nondimeno, con specifico riguardo al contratto di lavoro, poiché ogni
attività umana economicamente valutabile può costituire oggetto sia di un rapporto di
lavoro subordinato che di un rapporto di lavoro autonomo, le parti possono esprimere
la volontà di stipulare un contratto di lavoro autonomo, mediante pattuizioni che
precisino le modalità di attuazione del rapporto in modo che siano giuridicamente
compatibili con l’autonomia e, in questo caso, la qualificazione del rapporto in
termini di subordinazione sarà consentito solo ove le pattuizioni iniziali non siano
state rispettate in sede di esecuzione, esprimendo, quindi, le parti la volontà di
modificarle (cfr. Cass. 10 agosto 1999, n. 8574; id. 19 febbraio 2000, n. 1924; 5
marzo 2001, n. 3200; 1 marzo 2002, n. 3001; 19 novembre 2003, n. 17549).
Orbene, nel caso di specie, la parte ricorrente si limita ad affermare che il
rapporto di lavoro era stato qualificato come autonomo, ma non che il contenuto
fosse caratterizzato da pattuizioni tali da esprimere, conformemente a legge, l’intento
di costituire un rapporto di lavoro autonomo. Ne discende che non può essere
imputato al giudice del merito di aver trascurato un elemento del tutto privo di

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considerate) tale indagine avrebbe dovuto essere approfondita, essendosi la società

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rilievo: il fatto, cioè, che al rapporto fosse stato attribuito, puramente e
semplicemente, un determinato nomen iuris.
Inoltre, se è vero che, ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato,

occorre tenere presente il nomen iuris dalle stesse adottato, è stato da questa Corte
più volte sottolineato che tale indicazione non può avere carattere assorbente giacché
la volontà effettiva delle parti e la qualificazione propria del rapporto devono essere
desunte, oltre che dal dato formale, anche dalle concrete modalità della prestazione e,
in generale, di attuazione del rapporto: esse, in presenza di dati fattuali significativi e
concorrenti, devono prevalere sul dato formale, in ragione del rilievo pubblicistico e
costituzionale del rapporto di lavoro, che non può essere eluso dal riferimento
formale delle parti ad un rapporto di lavoro autonomo (v. sulla necessità del
riferimento al concreto atteggiarsi del rapporto stesso e alle sue specifiche modalità
di svolgimento: Cass. 9 giugno 2000, n. 7931). Se è innegabile che il nomen iuris
dato dalle parti al contratto conferisca, in via molto generale, un contributo alla
qualificazione del contratto, tuttavia, ai tini di questa qualificazione, il contenuto
dell’iniziale contratto prevale ampiamente su tale mera sintetica indicazione della
volontà delle parti.
D’altro canto, poiché il rapporto di lavoro ha origine da un contratto di durata, il
comportamento delle parti (che, quale “comune intenzione”, deve essere di entrambe
le parti: Cass. 13 agosto 2001, n. 11089), posteriore alla conclusione del contratto,
essendo criterio di interpretazione dell’iniziale volontà negoziale (art. 1362, comma
2, cod. civ.: per l’immanente necessità di questo concorrente criterio interpretativo,
cfr. Cass. 27 giugno 1998, n. 6389) e potendo esprimere anche una diversa volontà

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non deve prescindersi dalla volontà delle parti contraenti e che, sotto questo profilo,

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che modifichi quella iniziale, ai fini dell’accertamento della natura e del contenuto
conferiti dalla volontà ed oggettivamente assunti dal rapporto, ha nei confronti della
volontà iniziale, un peso prevalente.

contraddittoria motivazione circa un fatto controverso anch’esso decisivo ai fini della
definizione del giudizio: il riconoscimento della qualifica di redattore ordinario;
l’attribuzione del trattamento economico e normativo previsto dal C.C.N.L. di
categoria per i redattori ordinari (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.). Deduce che, oltre alla
contraddizione già evidenziata con riguardo al secondo motivo di ricorso, la Corte di
merito è incorsa in un vizio motivazionale laddove ha ritenuto che la mera redazione
degli articoli da parte della Mastromattei fosse sufficiente ai fini della qualificazione
dell’attività dalla stessa svolta quale redattore. Rileva che, secondo le previsioni del
C.C.N.L. di categoria, le connotazioni distintive del redattore consistono non solo
nella redazione degli articoli ma anche nella facoltà del redattore di partecipare alle
scelte programmatiche ed organizzative necessarie alla realizzazione del prodotto
finale. Evidenzia, dunque, che nella specie non sussistevano le ragioni, sia sotto il
profilo soggettivo (la Mastromattei era una giornalista pubblicista e non era iscritta
nell’albo dei giornalisti), sia sotto quello oggettivo (non vi era alcun inserimento
nell’organizzazione necessaria per la compilazione del giornale) per ritenere lo
svolgimento in fatto delle mansioni di redattore. Rileva, altresì, che lungi dal
parametrare una retribuzione all’altra, la Corte ha, di fatto, applicato
pedissequamente il trattamento economico previsto per il redattore ordinario.
7. Il motivo è infondato sia per quanto già evidenziato con riguardo al primo
motivo di ricorso (il giudice di merito ha, con motivazione ineccepibile, tratto

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6. Con il terzo motivo la società ricorrente principale denuncia: “Insufficiente e

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Mastromattei Daniela

argomenti a sostegno della ritenuta sussistenza della figura del redattore non solo
dallo svolgimento di compiti propri di ogni attività giornalistica, quali il controllo
della notizia e la sua elaborazione, la stesura di pezzi o di articoli, ma anche dalla

per quanto ripetutamente affermato da questa Corte: “In caso di esercizio di fatto di
attività giornalistica da parte di soggetti non iscritti all’albo professionale, la nullità
del rapporto, non derivando dall’illiceità dell’oggetto o della causa, bensì dalla
violazione della norma imperativa di cui all’art. 45 della legge 3 febbraio 1963 n. 69,
non produce effetto – secondo l’espresso disposto dell’art. 2126 cod. civ., primo
comma, cod. civ. – per il periodo in cui il rapporto stesso ha avuto esecuzione; e ciò
comporta, limitatamente a tale periodo, l’applicazione della disciplina collettiva nella
sua interezza, e cioè del trattamento sia economico che normativo previsto per le
corrispondenti prestazioni del giornalista professionista” (cfr. Cass. 9 febbraio 1996,
n. 1024; id. 20 maggio 1997, n. 4502; 23 aprile 2002, n. 5934; 16 febbraio 2006, n.
3399; 7 settembre 2006, n. 19231; 13 agosto 2008, n. 21591).
Nella fattispecie in esame la Corte territoriale ha ritenuto congruo, in relazione
alle mansioni effettivamente svolte dalla Mastromattei, il trattamento economico
previsto per la qualifica di redattore, osservando come detto che, nel concreto
atteggiarsi del rapporto, così come risultava dagli elementi acquisiti al processo,
l’attività della lavoratrice si fosse dispiegata in modo esattamente corrispondente a
quella che caratterizzava tale figura professionale e rinvenendo nel trattamento
economico a quest’ultima riservato un criterio parametrico rispettoso del canone di
proporzionalità e sufficienza della retribuzione sancito dall’art. 36 Cost. (cfr. ex

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quotidianità della prestazione, in contrapposizione alla semplice sua continuità) sia

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plurimis, Cass. 22 novembre 2010, n. 23638; id. 13 agosto 2008, n. 21591 cit.; 10
marzo 2004, n. 4941).
8. Con il quarto motivo la società ricorrente principale denuncia: “Violazione e

in costanza di rapporto,di lavoro (art. 360 cod. proc. civ.). Deduce che la sentenza ha
errato nell’assumere come dato presupposto la sussistenza del metus che avrebbe
indotto il lavoratore a non avanzare le proprie pretese nel corso del rapporto
lavorativo, giudicando irrilevante la sua situazione lavorativa. Rileva che il metus va
provato in concreto e nella specie non solo non era stata dimostrata ma neppure
minimamente addotta la sussistenza di alcun timore psicologico che potesse
giustificare la rinuncia all’esercizio di un diritto costituzionalmente tutelato quale è la
retribuzione, stante peraltro la stipula formale di un rapporto di collaborazione
autonoma.
9. Anche tale motivo è infondato.
Effettivamente questa Corte ha più volte affermato che la decorrenza o meno
della prescrizione in corso di rapporto va verificata con riguardo al concreto
atteggiarsi del medesimo in relazione alla effettiva esistenza di una situazione
psicologica di metus del lavoratore e non già alla stregua della diversa normativa
garantistica che avrebbe dovuto astrattamente regolare il rapporto (ex multis, Cass.
13 dicembre 2004, n. 23227; id. 23 agosto 2007, n. 17935; Cass. 19 gennaio 2011, n.
1147). Proprio con riferimento all’attività giornalistica da parte di soggetto iscritto
nell’elenco dei pubblicisti, comportante la nullità del contratto e il riconoscimento
della prestazione di fatto, questa Corte ha, però, precisato che, ai sensi dell’art. 2948
cod. civ., n. 4 (nel testo risultante dalle sentenze della Corte costituzionale), la

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falsa applicazione dell’art. 2948, n. 4, cod. civ. sulla prescrizione dei crediti maturati

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prescrizione quinquennale resta sospesa durante l’esecuzione del rapporto di lavoro.
Ciò per la ragione che nelle ipotesi di prestazioni di fatto con violazione di legge incompatibili con il licenziamento, ma comportanti la più assoluta libertà del datore

(così Cass. 12 novembre 2007, n. 23472).
Di tale principio la Corte di merito ha fatto corretta applicazione; ha ritenuto che
la Mastromattei versasse in una situazione irregolare che la poneva di fronte al datore
di lavoro in una posizione di piena soggezione che non le consentiva di tutelare i suoi
diritti, attesa la configurazione apparentemente autonoma del rapporto e la
conseguente incertezza circa il permanere dello stesso. Peraltro, con riguardo al caso
di specie, assoggettato alla normativa di cui all’art. 2126 civ. civ., la situazione di
stabilità è radicalmente esclusa dalla possibilità di determinare, in qualsiasi momento
e senza manifestazioni negoziali, la cessazione dell’esecuzione. Questa sostanziale
accertata precarietà, giustamente valutata dal giudice di merito, non consentiva il
decorso del termine di prescrizione dei crediti retributivi nel corso del rapporto.
10. Con l’unico motivo di ricorso incidentale Daniela Mastromattei denuncia:
“Violazione e falsa applicazione di norme di legge: art. 26 e 45 legge n. 69/63, art.
2126 cod. civ. (art. 360, n. 3 cod. civ.)”. Censura la decisione impugnata nella parte
in cui ha ritenuto che l’iscrizione nell’elenco dei pubblicisti non fosse idonea alla
costituzione di un regolare rapporto di lavoro giornalistico. Chiede una rimeditazione
dell’orientamento della Cass. n. 27608/2006 e ss. e ciò innanzitutto sulla base
dell’alt 35, comma 1°, della legge n. 416/81 (integrazione salariale per i pubblicisti
dipendenti) – poi modificata dalla Legge 7 marzo 2001, n. 62 -. Ad avviso della
Mastromattei tale normativa, stabilendo all’art. 35 che: “Il trattamento straordinario

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di lavoro di rifiutare la prestazione – è radicalmente esclusa la situazione di stabilità

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di integrazione salariale di cui all’art. 2, quinto comma, della legge 12 agosto 1977,
n. 675, e successive modificazioni, è esteso, con le modalità previste per gli
impiegati, ai giornalisti professionisti dipendenti da imprese editrici di giornali

cause indicate nelle norme citate” e, dunque, prevedendo espressamente la figura del
giornalista pubblicista lavoratore subordinato, legittimerebbe lo svolgimento di
attività giornalistica in regime di subordinazione. Nella stessa direzione andrebbe a
suo avviso anche la legge n. 388/2000 che, ai fini previdenziali, ha pienamente
equiparato la posizione dei giornalisti professionisti a quella dei “pubblicisti titolari
di un rapporto di lavoro subordinato di natura giornalistica”, introducendo, con l’art.
76, la possibilità anche per i pubblicisti svolgenti attività giornalistica in regime di
subordinazione di iscriversi all’I.N.P.G.I., iscrizione che diventa automatica nel caso
in cui il pubblicista, entro il termine di sei mesi dall’entrata in vigore della legge, non
opti per il mantenimento dell’iscrizione presso l’I.N.P.S..
Richiama, inoltre, la ricorrente incidentale, a sostegno della prospettata
equiparazione, la sentenza della Corte Costituzionale n. 98 del 10 luglio 1968 che ha
dichiarato la illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 46 della legge 3
febbraio 1963, n. 69, sull’ordinamento della professione di giornalista, limitatamente
alla parte in cui esclude che il direttore ed il vicedirettore responsabile di un giornale
quotidiano o di un periodico o agenzia di stampa di cui al primo comma dell’art. 34
possa essere iscritto nell’elenco dei pubblicisti.
11. Il motivo è infondato.
Invero le argomentazioni della ricorrente incidentale non possono condurre a
modificare il consolidato orientamento di questa Corte che ha ritenuto per l’esercizio

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quotidiani e dalle agenzie di stampa a diffusione nazionale sospesi dal lavoro per le

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del lavoro giornalistico di redattore ordinario, cioè del giornalista professionista
stabilmente inserito nell’ambito di una organizzazione editoriale o radiotelevisiva,
con attività caratterizzata da autonomia della prestazione, non limitata alla mera

necessaria l’iscrizione all’albo dei giornalisti professionisti.
Ciò non solo per la specifica previsione del contratto collettivo di lavoro di
categoria, ma anche in quanto, ai sensi della legge 3 febbraio 1963, n. 69, art. 45
(norma reiteratamente applicata da questa Corte) : “Nessuno può assumere il titolo
né esercitare la professione di giornalista, se non è iscritto nell’albo professionale. La
violazione di tale disposizione è punita a norma degli artt. 348 e 498 del cod. pen.,
ove il fatto non costituisca un reato più grave”.
E, come affermato da Cass. 29 dicembre 2006 n. 27608 (nonché
successivamente da Cass. 12 novembre 2007, n. 23472 e da Cass. 25 giugno 2009 n.
14944), per la strutturale particolarità dell’iscrizione nell’elenco dei pubblicisti (che
non richiede – come quella nell’elenco dei giornalisti – l’iscrizione nel registro dei
praticanti, l’esercizio continuativo della pratica giornalistica per almeno 18 mesi ed il
superamento della prova di idoneità professionale), l’iscrizione prevista dall’art. 45 è
da riferire all’elenco dei giornalisti professionisti. A nulla rileva, quindi, il diverso
inserimento nell’albo dei pubblicisti, i quali svolgono l’attività giornalistica non
come professione, cioè senza essere caratterizzati nel mercato del lavoro da un
determinato status.
Discende che, come ripetutamente affermato da questa Corte, l’iscrizione
dell’albo dei pubblicisti non è idonea alla costituzione di un regolare rapporto di
praticantato giornalistico – finalizzato all’iscrizione nell’elenco dei professionisti -, e

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trasmissione di notizie, ma estesa alla elaborazione, analisi e valutazione delle stesse,

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non può sopperire alla mancanza di una regolare iscrizione nel registro dei praticanti
di cui all’art. 33 della legge n. 39 del 1963; per cui l’attività di praticantato
giornalistico o di giornalista professionista espletata da soggetto non iscritto al

causa.
In tal modo, per l’art. 2126 c.c., questa attività è produttiva di effetti per il tempo
in cui il rapporto ha avuto esecuzione; fra gli effetti fatti salvi dalla citata norma,
nell’ipotesi di dedotta illegittimità della risoluzione del rapporto di lavoro nullo, non
rientra il diritto di continuare a svolgere la prestazione, né il diritto alla
reintegrazione nel posto di lavoro (Cass. 21 maggio 2002, n. 7461; id. 5 aprile 2005,
n. 7016; 6 marzo 2006, n. 4770; 7 settembre 2006, n. 19231; 29 dicembre 2006, n.
27608; 17 giugno 2008, n. 16383).
Del resto lo status di giornalista professionista è, e resta, profondamente diverso
da quello del giornalista pubblicista ed è tale diversità che giustifica la differenza ai
fini della regolare costituzione del rapporto. Ai sensi, infatti, della legge n. 69 del
1963, art. 35, l’iscrizione nell’elenco dei pubblicisti dipende, non dal livello
qualitativo degli articoli scritti, ma dal concorso di requisiti e condizioni previsti
dalla norma indicata, mentre all’organo professionale non spetta alcuna valutazione
discrezionale, neppure tecnica, sull’istanza dell’aspirante, ma il mero riscontro della
sussistenza dei richiesti presupposti, essendo da escludere che detta iscrizione abbia
la funzione di garantire il buon livello qualitativo della stampa sul piano
professionale, anche alla stregua delle sentenze della Corte costituzionale n. 11 e 98
del 1968 e n. 424 del 1989 (si veda Cass. 14 gennaio 2002, n. 360).

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relativo albo resta invalida, ancorché come detto non illecita nell’oggetto o nella

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Sulla questione, del resto, la giurisprudenza della Corte si è espressa in modo
univoco, nel ritenere che l’iscrizione nell’elenco dei pubblicisti non è idonea alla
costituzione di un regolare rapporto di praticantato giornalistico, finalizzato alla

mancanza di una regolare iscrizione nel registro dei praticanti di cui all’art. 33 della
citata legge. Ne consegue che l’attività di praticantato giornalistico o di giornalista
professionista espletata di fatto da soggetto non iscritto nell’elenco dei professionisti
è sanzionata con la nullità del contratto (cfr. ex ceteris Cass. 16 ottobre 1986, n.
6070; id. 21 maggio 2002 n. 7461; 6 marzo 2006 n. 4770; 29 dicembre 2006, n.
27608).
Nessun rilievo può essere accordato alle previsioni della contrattazione
collettiva secondo cui anche i pubblicisti possono prestare attività di lavoro
subordinato in via esclusiva, con equiparazione ai redattori e ciò sol che si consideri
che quando si è, come nella specie, in presenza di leggi contenenti disposizioni
imperative, dotate anche di sanzioni pubblicistiche, le stesse non sono derogabili
dall’autonomia privata e in particolare da clausole della contrattazione collettiva.
Inoltre, la disciplina legislativa richiamata dalla ricorrente incidentale non è in
realtà incompatibile con il dato normativo sopra indicato.
Infatti l’iscrizione nell’albo professionale di cui al citato art. 45 condiziona la
validità del contratto senza contraddire le esigenze di regolamentazione del periodo
di esecuzione dello stesso sotto il profilo della contribuzione previdenziale e di
quello della tutela della disoccupazione involontaria, a salvaguardia dei diritti del
lavoratore.

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iscrizione nell’elenco dei giornalisti professionisti, e, pertanto, non può sopperire alla

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Egualmente deve ritenersi che l’equiparazione, ad opera del giudice delle leggi,
del giornalista professionista e del pubblicista ai fini della direzione di un giornale
quotidiano o di un periodico o agenzia di stampa di cui al primo comma dell’art. 34

relativa allo svolgimento dell’attività giornalistica e quella di dar vita ad un giornale
ma non possa essere utilizzata per una interpretazione nel senso auspicato dalla
ricorrente incidentale di una norma imperativa che è volta a conciliare due differenti
esigenze e cioè la libertà di svolgere attività giornalistica ed il diritto dei cittadini di
ottenere una informazione qualificata. A ben vedere alla suddetta equiparazione con
riferimento alla direzione di una testata giornalistica (o ad una agenzia di stampa) tra
l’iscrizione all’albo dei pubblicisti e l’iscrizione all’albo dei professionisti non è di
certo estranea la finalità di estendere l’attività giornalistica e di agevolare ed
incrementare la platea di quanti – avendone la capacità e le doti richieste – intendano
dirigere un organo di informazione, di diffusione di notizie e di libera manifestazione
del pensiero. Dalla stessa sentenza della Corte Costituzionale n. 98 del 1968 si rileva,
del resto, che nel caso dell’art. 46 della legge n. 69/1963, non ci si trova in presenza
di un pubblico interesse né, a maggior ragione, di un interesse generale di grado tale
da giustificare l’intervento della legge, la quale, quando si tratti di disciplinare
l’esercizio di una libertà fondamentale, non può porre limitazioni che, come quella in
esame, non siano in funzione della tutela di interessi direttamente rilevanti sul piano
costituzionale.
A differenza dell’art. 46, la norma di cui all’art. 45 disciplina l’esercizio
professionale giornalistico e non l’uso del giornale come mezzo della libera
manifestazione del pensiero. Inoltre, come detto, si tratta di norma diretta a tutelare,

sia esclusivamente il risultato di un contemperamento di due libertà e cioè quella

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in uno con la libertà di svolgere attività giornalistica, il diritto dei cittadini di ottenere
una informazione qualificata. La stessa, del resto, ha superato il vaglio della Corte
Costituzionale che con sentenza 21-23 marzo 1968, n. 11 ha escluso che

sfera di libertà di chi al giornalismo voglia professionalmente dedicarsi e ne ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale solo limitatamente alla sua applicabilità allo
straniero al quale sia impedito nel paese di appartenenza l’effettivo esercizio delle
libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana.
12. Dalle considerazioni che precedono deriva che entrambi i ricorsi devono
essere rigettati.
13. Il suddetto esito costituisce giusto motivo per compensare tra le parti le
spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa le spese.
Così deciso in Roma, 1’8 gennaio 2013.

l’obbligatorietà della iscrizione nell’albo costituisca di per sé una violazione della

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