Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9327 del 21/05/2020

Cassazione civile sez. trib., 21/05/2020, (ud. 28/11/2019, dep. 21/05/2020), n.9327

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. R.G. 1819/2012 proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Italiana Lavorazione Tacchini e Anatre – ILTA srl in persona del

legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.

Francesco Moschetti e Francesco d’Ayala Valva, con domicilio eletto

presso quest’ultimo in Roma, viale Parioli n. 43;

– controricorrente/ricorrente incidentale-

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto

n. 106/4/10 del 28 settembre 2010, depositata il 16 novembre 2010.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 novembre

2019 dal Consigliere Enrico Manzon.

Fatto

RILEVATO

che:

Con sentenza n. 106/4/10 del 28 settembre 2010, depositata il 16 novembre 2010 la Commissione tributaria regionale del Veneto accoglieva parzialmente l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, ufficio locale, avverso la sentenza n. 210/09/2007 della Commissione tributaria provinciale di Vicenza che aveva parzialmente accolto il ricorso della ILTA srl contro l’avviso di accertamento per II.DD. ed IVA 2004.

La CTR, nella parte che qui rileva, osservava in particolare:

– che non poteva essere accolto il gravame agenziale relativamente ai costi considerati dalla società contribuente come componenti negativi nella determinazione delle basi imponibili IRES/IRAP di periodo per fatture emesse dalla PAI srl e contestati come “non inerenti”, perchè alla PAI stessa doveva essere riconosciuta la qualità di “società consortile” per l’esercizio di attività agricole, con finalità mutualistiche, come identificate nello statuto e peraltro incontestate in tre precedenti verifiche fiscali, così ingenerandosene un “legittimo affidamento” nella società contribuente medesima;

– che doveva invece considerarsi fondato il motivo del gravame agenziale riguardante la indeducibilità parziale degli ammortamenti, sempre ai fini IRES/IRAP, affermando la correttezza della ripresa fiscale correlativa con specifico riguardo alla esatta categorizzazione dei beni ammortizzabili e del relativo coefficiente di ammortamento (fabbricati industriali e impianti generici, in luogo di quella contabilizzata dalla contribuente, macchinari ed impianti specifici).

Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate deducendo tre motivi.

Resiste con controricorso la società contribuente che propone altresì ricorso incidentale basato su un motivo unico.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Con il terzo motivo, che va esaminato prioritariamente per la sua potenzialità dirimente, – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – l’agenzia fiscale ricorrente lamenta la violazione/falsa applicazione degli artt. 2602,2615-ter, c.c., del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, nonchè dell’art. 53 Cost. e dei principi generali che vietano l’abuso del diritto nella materia tributaria, poichè la CTR ha affermato la sussistenza della “causa consortile” nell’attività della PAI srl e quindi, in ultima analisi, ha affermato l’inerenza ai fini IRES/IRAP dei costi registrati dalla ILTA srl, quale acquirente delle carni macellate (pollame) prodotte dalla prima.

La censura, anche in disparte dei profili di inammissibilità della stessa eccepiti dalla controricorrente, è infondata.

Risulta pacifico in fatto che la PAI srl è società consortile costituita dalla Agricola Berica Mangimi (85%) e dalla ILTA srl (15%) e che lo schema operativo delle tre società era nel senso che la prima acquistava pulcini che allevava utilizzando i mangini fornitile dalla seconda e che, previa macellazione, poi cedeva alla terza, la quale poi vendeva la carne sul mercato.

Va poi rilevato che la ripresa fiscale de qua riguardava fatture emesse dalla PAI nei confronti della ILTA nel 2005 per “conguaglio” sui prezzi delle forniture di carni del 2004, in considerazione della natura consortile del rapporto, essendo peraltro, come detto, tale natura contestata dall’Agenzia delle entrate, ufficio locale.

Ciò, in generale per la tipologia di attività economica della PAI, ritenuta come parte di una “filiera” produttiva, in particolare per l’assenza di un contratto tra le parti e di “valide ragioni economiche” giustificatrici dei “ristorni”.

La CTR veneta ha puntualmente riscontrato in fatto consimili argomenti, osservando che:

– unico cliente della PAI è la ILTA;

– che lo statuto della PAI prevede espressamente ed univocamente la “causa consortile” della sua costituzione, essendo il suo scopo quello di esercitare attività agricole (allevamento di bestiame) nell’esclusivo interesse delle società partecipanti consorziate (Agricola Berica Mangimi ed ILTA);

– che conseguentemente la PAI, fin dalla sua costituzione, ha trasferito i suoi risultati di gestione, sia positivi che negativi, alle consorziate, secondo le rispettive quote partecipative.

Tali accertamenti di fatto non possono essere revisionati in questa sede, secondo i consolidati principi di diritto che “Con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poichè la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità” (Cass., n. 29404 del 07/12/2017, Rv. 646976 – 01); “Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (Cass., n. 9097 del 07/04/2017, Rv. 643792 – 01).

Ciò posto, va altresì, in diritto, rilevato che la sentenza impugnata è del tutto conforme all’ulteriore consolidato principio di diritto che “Il consorzio costituito per gli scopi previsti dall’art. 2602 c.c., non potendo avere per sè alcun vantaggio, in quanto lo stesso, al pari dell’eventuale svantaggio, appartiene unicamente e solo alle imprese consorziate, ha l’obbligo di ribaltare sulle stesse, secondo i criteri di legge o quelli legittimamente fissati dallo statuto, se non elusivi della causa consortile e delle relative norme fiscali, tutte le operazioni economiche realizzate da una o più imprese consorziate, oppure dallo stesso consorzio con strutture proprie o con impiego di imprese terze, sicchè le singole consorziate sono tenute ad emettere fattura – ai fini IVA – nei confronti del consorzio in proporzione della quota consortile, per il ribaltamento dei proventi delle commesse ad essa attribuiti, nonchè autofattura, in proporzione della quota consortile, per il ribaltamento dei relativi costi” (Cass., n. 13360 del 17/05/2019, Rv. 653867 – 01).

Tali accertamenti in fatto e le conseguenze giuridiche tratte inducono poi a ritenere che il giudice tributario di appello, almeno per implicito, abbia comunque escluso l’applicabilità ex officio del principio generale antiabuso.

Il rigetto del terzo motivo implica l’inammissibilità del primo e del secondo motivo del ricorso agenziale, secondo il principio che “Qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle “rationes decidendi” rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa” (Cass., n. 2108 del 14/02/2012, Rv. 621882 01; conforme, da ultimo, Cass., n. 11493 del 11/05/2018, Rv. 648023 – 01).

Venendo al ricorso incidentale, con l’unico motivo dedotto – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – la controricorrente lamenta il vizio motivazionale in relazione all’accoglimento del gravame agenziale in punto correttezza dei coefficienti di ammortamento applicati in relazione ad alcuni beni ammortizzabili. La censura è infondata.

Sul punto decisionale de quo, pur succintamente, il giudice tributario di appello ha rinvenuto motivi giuridico fattuali di suffragio della pretesa creditoria erariale riguardante il coefficiente di ammortamento da applicare a determinate immobilizzazioni materiali, accertando la correttezza della relativa ripresa, in particolare sotto il profilo della genericità (affermata)/specificità (negata) delle immobilizzazioni stesse.

Tale accertamento di fatto non può essere “revisionato” in questa sede secondo il principio di diritto che “La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità, non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione” (Cass., n. 19547 del 04/08/2017, Rv. 645292 01)

In conclusione, vanno rigettati sia il ricorso principale che quello incidentale.

Stante la parziale reciproca soccombenza le spese di questo giudizio devono compensarsi nella misura di un quinto, ponendosi il residuo, liquidato come in dispositivo, a carico dell’agenzia fiscale per la sua maggior soccombenza.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale; previa compensazione nella misura di 1/5, condanna l’Agenzia delle entrate a pagare le spese del giudizio di legittimità residualmente liquidate in Euro 8.000 oltre 15% per contributo spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 28 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2020

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