Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9322 del 20/04/2010

Cassazione civile sez. III, 20/04/2010, (ud. 09/03/2010, dep. 20/04/2010), n.9322

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIFONE Francesco – Presidente –

Dott. UCCELLA Fulvio – rel. Consigliere –

Dott. URBAN Giancarlo – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. LANZILLO Raffaella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 1978/2006 proposto da:

I.R., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CORVISIERI 4, presso lo studio dell’avvocato INGENITO

Andrea, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

D’AMBROSIO ARNALDO giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

ASSITALIA SPA, (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

SABOTINO 4 6, presso lo studio dell’avvocato PROPERZI Patrizia, che

la rappresenta e difende giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

D.P.V.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 569/2005 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

Sezione Seconda Civile, emessa il 22/02/2005, depositata il

20/05/2005; R.G.N. 1132/2002;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

09/03/2010 dal Consigliere Dott. FULVIO UCCELLA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARESTIA Antonietta, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 20 maggio 2005 la Corte di appello di Bologna confermava la sentenza del Tribunale di Parma – 18 novembre 2001 – che aveva respinto la domanda proposta da I.R. contro D. P.V. e Assitalia-Assicurazioni s.p.a., volta ad ottenere il risarcimento dei danni a cose e persona, a seguito di un incidente verificatosi il (OMISSIS) sull’autostrada della Cisa, quantificati in L. 570.323.304.

Avverso siffatta decisione propone ricorso per cassazione l’ I., affidandosi a cinque motivi.

Resiste con controricorso l’Assitalia.

L’intimato D.P. non ha svolto difese in questa sede.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo (violazione e falsa applicazione di norme di diritto) il ricorrente lamenta che entrambe le sentenze, sia di primo che di secondo grado, non offrano motivazione sufficiente in ordine alla interpretazione e alla conseguente applicazione dell’art. 232 c.p.c..

In sintesi, il giudice dell’appello, attesa la mancata comparizione della parte a rendere l’interrogatorio formale contro di lei deferito, avrebbe dovuto ritenere come ammessi i fatti oggetto dell’interrogatorio stesso, il quale costituisce fatto processuale (p. 4 ricorso, con richiamo di decisione di questa Corte: n. 17249/03).

Osserva il Collegio che il motivo va disatteso, se non dichiarato inammissibile, perchè non è stato riportato il capitolato del dedotto interrogatorio.

Infatti, come, peraltro, riconosce lo stesso ricorrente, riportando il precedente su indicato, il valore della mancata comparizione va correlato con “altri elementi” probatori acquisiti al processo.

L’art. 232 c.p.c., non ricollega automaticamente alla mancata risposta, per quanto ingiustificata,, l’effetto della confessione, ma offre solo al giudice la facoltà di ritenere come ammessi i fatti dedotti, imponendogli, però, al contempo di valutare ogni altro elemento di prova (giurisprudenza costante: da ultimo Cass. n. 3258/07).

Nella specie, a ben leggere le argomentazioni e le conseguenti deduzioni del giudice dell’appello, è dirimente la valutazione del teste N., la cui dichiarazione è stata approfonditamente esaminata per concludere che si tratta del classico “teste dell’ultim’ora” (p. 10 sentenza impugnata) e, quindi, assolutamente inattendibile.

Ne consegue che, non essendo stata corredata dal concorso di altri elementi probatoria il giudice dell’appello correttamente ha disconosciuto ogni rilevanza alla mancata comparizione.

In altri termini, la sentenza impugnata non prende in considerazione l’effetto “indiziario” della mancata comparizione, per il semplice fatto che, andando alla radice probatoria della vicenda, e, quindi, a tutti gli elementi acquisiti al processo, si convince, con argomentazione logica, che resiste al vizio denunciato, della esclusione di ogni responsabilità a carico del D.P., così come, invece, richiesta e ritenuta dall’ I..

2. – Il secondo (violazione dell’art. 233 c.p.c. e art. 345 c.p.c., u.c.) e il terzo motivo (mancata ammissione del deferito giuramento decisorio) vanno esaminati congiuntamente per la loro interconnessione.

Al riguardo, va, anzitutto, precisato che il secondo motivo, con cui la parte si duole della mancata riaudizione del teste N., trova l’ostacolo della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 11436/02;

Cass. n. 11701/03; Cass. n. 8217/04), secondo cui l’esercizio del potere di disporre la rinnovazione dell’esame dei testimoni ex art. 257 c.p.c., ammissibile nel corso del giudizio d’appello, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 359 c.p.c., involge un giudizio di mera opportunità, che non può formare oggetto di censura in sede di legittimità neppure sotto il profilo del difetto di motivazione.

Passando, alla censura relativa alla mancata ammissione del giuramento decisorio, va posto in rilievo che il giudice rigettava la relativa richiesta sulla base di due rationes decidendi:

la prima” perchè il capitolo formulato non ha il requisito della decisorietà” (v. p. 11 sentenza impugnata); la seconda perchè “il giuramento deferito ex art. 2739 c.c.” incentrata su “un fatto illecito”.

Precisa il giudice a quo che non è ammissibile il giuramento deferito su di un fatto concretante l’imprudente condotta di guida del giurante, contraria a precise disposizioni del Codice della strada (nella specie art. 154 vigente C.d.S., comma 1 vigente) (e richiama puntuali decisioni di questa Corte – p. 12 sentenza impugnata).

Orbene, la doglianza sulla prima ratio è inammissibile, perchè attiene ad un problema di delibazione del richiesto deferimento, che spetta esclusivamente al giudice del merito.

La doglianza sulla seconda è infondata.

Infatti, il giudice dell’appello non ha fatto altro che applicare i criteri interpretativi formulati da questa Corte, da cui non è il caso di discostarsi, secondo i quali l’art. 2739 c.c., ha la finalità di non obbligare il giurante a confessarsi autore di un fatto o atto per lui potenzialmente produttivo di responsabilità non solo in sede penale, ma anche civile o amministrativa (Cass. n. 8423/98) e, nel caso in esame, il D.P. avrebbe dovuto giurare di aver commesso una infrazione stradale, ovvero un illecito.

Nè corrisponde al vero che il giudice dell’appello, come già quello di primo grado, abbia dato una interpretazione critica dei fatti deferiti con l’esame-risultato all’esito della istruttoria in negativo – della ricostruzione fatta dall’unico teste, per cui il deferimento del giuramento “era l’ultima possibilità di fornire all’attore ed alla Giustizia la verità dei fatti e delle circostanze di cui al sinistro, senza lasciarli alla interpretazione sospettosa del primo giudice” (p. 7 ricorso).

Infatti, il giudice dell’appello, oltre alla ritenuta inattendibilità assoluta del teste N., come si rinviene nella sentenza, ha anche escluso la responsabilità del D.P. e, quindi, ha disatteso del tutto la ricostruzione dei fatti così come adombrata nell’appello, sulla base anche della condotta dell’attuale ricorrente e dei rilievi effettuati sul luogo del sinistro dalla Polizia stradale, ovvero ha esaminato elementi indiretti ( come il pagamento da parte dell’ I. di “tutte le contravvenzioni al Codice della strada, a lui elevate dalla Polizia stradale”).

Questa circostanza era stata dedotta con il secondo motivo d’appello, ( ritenuto non condivisibile dal giudice del gravame), con la motivazione di “evitare, mediante la relativa opposizione, un giudizio lungo e costoso; infatti egli sapeva che talune di esse evidenziavano, a suo carico, una condotta di guida imprudente che avrebbe finito per incidere profondamente su di una futura causa per risarcimento danni” (p 11 sentenza impugnata).

Aggiungasi a questo elemento, di cui sembra il ricorso non presenti traccia, la prova fornita dai rilievi fotografici della Polizia stradale “che indicano come la causa unica dell’incidente sia riconducibile all’imprudente condotta di guida dell’attore” (p. 11 sentenza impugnata).

Di questi elementi acquisiti al giudizio e posti in una logica connessione a fondamento della decisione il ricorso sembra tacere, ma ritiene il Collegio che essi siano significativi della corretta deduzione del giudice dell’appello e, quindi, immuni dai vizi denunciati.

3. – Di qui l’assorbimento del quinto motivo (vizio di insufficiente e inesatta motivazione denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5), che, peraltro, è inammissibile, proponendo un riesame di materiale probatorio non specificatamente e dettagliatamente esposto, tale da consentirne la rilevanza ai fini di controllare il percorso logico intrapreso dal giudice a quo per addivenire alla conclusioni assunte.

4. – Con il quarto motivo il ricorrente si duole che, a fronte dell’inattendibilità del teste N., acclarata in sede civile, sussiste la sentenza assolutoria dal reato di cui all’art. 372 c.p.p., “perchè il fatto non costituisce reato” e, quindi, sostiene che, nel caso in esame, avrebbe dovuto applicarsi l’art. 654 c.p.p (non c.p.c., come per errore indicato), trattandosi di sentenza di assoluzione, pronunciata in seguito a dibattimento, che avrebbe dovuto avere efficacia nel processo civile (p. 7-9 ricorso).

Il motivo va disatteso, in quanto il giudice civile, come questa Corte ripete in costante indirizzo (di recente Cass. n. 22484/04), non è affatto vincolato al giudicato assolutorio, allorchè i fatti, pur rivelatisi non decisivi per la configurazione del reato contestato, assumono rilievo ai fini del rapporto dedotto avanti al giudice civile e, nella specie, la inattendibilità del N. costituisce valutazione di merito sorretta da adeguata e condivisibile motivazione.

Conclusivamente, il ricorso va respinto e le spese, che seguono la soccombenza, vanno liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 1.700,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2010

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