Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9301 del 24/04/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 9301 Anno 2014
Presidente: VIDIRI GUIDO
Relatore: VENUTI PIETRO

SENTENZA
sul ricorso 19385-2011 proposto da:
A.N.M. – AZIENDA NAPOLETANA MOBILITA’ S.P.A., P.I.
06937950639, in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
GERMANICO 96, presso lo studio dell’avvocato DI PAOLO
LUCA, rappresentata e difesa dall’avvocato CASTIGLIONE
2014

FRANCESCO, giusta delega in atti;
– ricorrente –

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contro

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DE CARO GABRIELE, PEZZELLA RAFFAELE, DE BIASIO
SERAFINO, DI NEO MATTEO;

Data pubblicazione: 24/04/2014

- intimati –

avverso la sentenza n. 4512/2010 della CORTE D’APPELLO
di NAPOLI, depositata il 10/08/2010 R.G.N. 47/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 04/02/2014 dal Consigliere Dott. PIETRO

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA che ha concluso per il
rigetto.

VENUTI;

R.G. n. 19385/11
Ud. 4 febbr. 2014

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Pezzella Raffaele, De Biasio Serafino e Di Meo Matteo, tutti
dipendenti, quali conducenti di linea, dell’Azienda Napoletana
Mobilità S.p.A., premesso che il luogo in cui iniziavano la
prestazione lavorativa non coincideva con quello in cui essa
aveva termine e che il tempo di viaggio impiegato per
raggiungere, alla fme di ogni turno, il luogo di partenza non era
stato mai retribuito dall’Azienda, chiesero che tale tempo di
viaggio venisse considerato come lavoro effettivo, con il
riconoscimento del diritto a percepire la metà della retribuzione
ai sensi dell’art. 17, lett. c), R.D.L. 19 ottobre 1923 n. 2328,
secondo cui “si computa come lavoro effettivo… .la metà del
tempo impiegato per recarsi, senza prestare servizio, con un
mezzo gratuito di servizio in viaggi comandati da una località ad
un’altra per prendere servizio o fare ritorno a servizio compiuto”.
Il Tribunale adito respinse i ricorsi, ma la Corte d’Appello di
Napoli, su impugnazione dei lavoratori, con sentenza del 3
giugno – 10 agosto 2010, in riforma della decisione di primo
grado, accolse le domande, condannando l’Azienda a
corrispondere ai lavoratori le differenze retributive, da
quantificarsi in separato giudizio.
Ha osservato la Corte di merito che la circostanza dedotta
dai lavoratori, secondo cui la mancata coincidenza del luogo di
inizio con quello di cessazione del lavoro giornaliero non era
determinata da disposizioni aziendali, ma costituiva una loro
libera scelta, non valeva ad escludere l’applicabilità della norma
sopra richiamata.

Con ricorso al Tribunale di Napoli, De Caro Gabriele,

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Il presupposto di tale norma è infatti la separazione
spaziale tra il luogo di inizio e quello di cessazione del lavoro, con
la conseguente necessità dello spostamento del lavoratore
dall’uno all’altro luogo, senza che occorra alcuna dimostrazione
della connessione causale di questa separazione con le necessità
aziendali.
secondo la quale la norma andrebbe applicata solo nell’ipotesi in
cui sia imposto obbligatoriamente al dipendente di raggiungere
due diverse località per iniziare il proprio servizio ovvero per farvi
ritorno a servizio compiuto. Ed infatti ciò che la norma
presuppone per qualificare come comandato lo spostamento è
unicamente la separazione dei luoghi di inizio e termine della
prestazione lavorativa giornaliera.
Nella specie, essendo pacifica la circostanza che le modalità
di svolgimento del lavoro prevedessero località differenti di inizio
e termine della prestazione, non era necessaria ai fini
dell’applicabilità della norma alcuna prova in ordine alla durata
degli spostamenti effettuati dai dipendenti, essendo la stessa
connessa alla distanza tra la località di inizio dell’attività
lavorativa (c.d. deposito) e il posto di cambio ed al tempo
mediamente necessario di percorrenza, dovendo ulteriormente
ritenersi che il compenso reclamato competa unicamente in
relazione a spostamenti compiuti oltre l’orario di lavoro
giornaliero ed in relazione a turni in cui vi sia separazione fra
luogo di inizio e termine della prestazione.
Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la
A.N.M. – Azienda Napoletana Mobilità S.p.A. sulla base di un
solo, articolato motivo, illustrato da successiva memoria. I
lavoratori sono rimasti intimati.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo l’Azienda ricorrente denunzia
violazione e/o falsa applicazione dell’art. 17, lettera c), R.D.L. n.

Era dunque da considerarsi riduttiva l’interpretazione

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2328 del 1923 e dell’art. 12 delle disposizioni sulla legge in
generale.
Deduce che la norma in questione mira a ricompensare il
tempo impiegato dal lavoratore per gli spostamenti, da una
località ad un’altra, per prendere servizio, e il tempo impiegato
per fare ritorno a servizio compiuto, spostamenti eseguiti

lavoro impartite dal datore di lavoro, e perciò del tutto
equivalenti a quelli “comandati”.
Nella specie l’Azienda non ha mai imposto ai lavoratori un
obbligo in tal senso, come dagli stessi ribadito nel ricorso in
appello. Non erano infatti tenuti, una volta iniziata la prestazione
lavorativa presso il c.d. deposito (luogo dove facevano capo per
prendere visione degli ordini di servizio, per ottenere la dotazione
necessaria per l’espletamento dello stesso e per quant’altro fosse
necessario ai fini della prestazione), di far ritorno al luogo iniziale
né, quando iniziavano la prestazione nel c.d. posto di cambio,
dovevano far ritorno in tale ultimo posto.
I lavoratori erano liberi di organizzare i loro spostamenti in
base a scelte discrezionali, dettate esclusivamente da proprie
comodità personali.
Non derivando la non coincidenza del luogo di inizio della
prestazione lavorativa con quello di cessazione della stessa da
disposizioni aziendali, doveva escludersi che gli spostamenti dei
lavoratori fossero “comandati” e quindi che potesse trovare
applicazione la disposizione in esame, non potendosi tutelare un
diritto soggettivo che non soddisfa un interesse giuridicamente
apprezzabile in capo al lavoratore, quanto piuttosto eventuali
scelte personali di comodo.
Rileva infine l’Azienda che la richiesta risarcitoria dei
lavoratori, oltre ad essere stata avanzata solo con le conclusioni
del ricorso in appello, è del tutto infondata, non avendo i
medesimi mai dedotto alcun elemento a fondamento della

nell’osservanza di disposizioni aziendali circa luoghi ed orari di

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domanda né, tanto meno, provato la sussistenza dei danni e del
nesso di causalità con la prestazione lavorativa.
2. Il ricorso è fondato.
L’art. 17, lett. c), R.D.L. 19 ottobre 1923, n. 2328, dispone
che “si computa come lavoro effettivo la metà del tempo
impiegato per recarsi, senza prestare servizio, con un mezzo

un’altra per prendere servizio o fare ritorno a servizio compiuto”.
La norma considera che, in base alle comuni più diffuse
esigenze, il dipendente, al termine del lavoro, ripercorra la stessa
strada che l’ha inizialmente condotto al lavoro ed abbia in tal
modo interesse a concludere la prestazione nel luogo in cui l’ha
iniziata. Quando ciò non avvenga a causa della programmazione
aziendale, il tempo necessario allo spostamento dall’uno all’altro
luogo assume la natura di tempo di lavoro, ed in tale forma è
normativamente qualificato.
Presupposti per l’applicabilità della norma in esame non
sono l’uso del mezzo gratuito di servizio, nè il fatto che il
lavoratore si rechi al lavoro con un proprio mezzo ovvero con
mezzi pubblici ovvero a piedi, bensì, da un lato, la non
coincidenza del luogo di inizio con il luogo di cessazione del
lavoro giornaliero, dall’altro che questa non coincidenza sia
determinata non da una scelta del lavoratore, bensì, ed
esclusivamente, da una necessità logistica aziendale: la
necessità che il lavoro inizi in un determinato luogo e cessi in
altro luogo.
Sulla base di questi presupposti, la norma è diretta a
compensare il tempo che il dipendente impiega per recarsi
dall’uno all’altro luogo; spostamento che assume tuttavia rilievo
solo all’inizio od alla cessazione del lavoro da prestare in azienda,
posto che lo spostamento che avviene nel corso della giornata
lavorativa ha il suo compenso nella retribuzione.
In altri termini il fondamento del diritto è la separazione
spaziale fra luogo di inizio e luogo di cessazione del lavoro e che

gratuito di servizio in viaggi comandati da una località ad

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tale separazione non sia il prodotto di una scelta del lavoratore,
ma sia oggettivamente predeterminata dalla programmazione del
lavoro aziendale, che inizia in un luogo e si conclude in altro
luogo. Assunto questo che trova conforto nella chiara lettera
(“viaggi comandati”) e nella ratio del citato art. 17 R.D.L. n. 2328
del 1923, che attestano la necessità che le esigenze aziendali – a

rivendicato – vengano valutati da coloro che per le mansioni
svolte hanno il compito, con l’assunzione di una propria
personale responsabilità, di predeterminare la programmazione
dei viaggi con modalità che ne consentano poi – in ragione della
funzione di pubblico interesse dell’Azienda Napoletana – il
doveroso controllo.
Va al riguardo osservato che questa Corte ha
costantemente affermato il principio di diritto, secondo cui al fme
di poter considerare – ai sensi dell’art. 17 del r.d.l. 19 ottobre
1923, n. 2328 – come lavoro effettivo la metà del tempo
impiegato dal lavoratore dipendente di una società di pubblici
servizi di trasporto in concessione per recarsi, “senza prestare
servizio, con un mezzo gratuito di servizio in viaggi comandati da
una località all’altra per prendere servizio o fare ritorno a servizio
compiuto”, è necessario che non via sia coincidenza del luogo di
inizio con quello di cessazione del lavoro giornaliero e che tale
circostanza sia determinata non da una scelta del lavoratore,
bensì, in via esclusiva, da una necessità logistica aziendale,
rimanendo irrilevante l’uso del mezzo gratuito di servizio da
parte del lavoratore o che quest’ultimo si rechi al lavoro con un
proprio mezzo ovvero con mezzi pubblici od anche a piedi.
Concorrendo tali condizioni, il lavoratore può ottenere il
riconoscimento del diritto previsto dalla suddetta norma (alla
lett. c), il cui fondamento è insito nell’esigenza di compensare il
tempo necessario al menzionato spostamento indotto
dall’organizzazione del lavoro riconducibile all’azienda (Cass. 20
febbraio 2006 n. 3575; Cass. 21 febbraio 2008 n. 4496; Cass. 25

fronte delle quali si giustifica la richiesta del compenso

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marzo 2010 n. 7197; Cass. 8 aprile 2010 n. 8355; Cass. 6
maggio 2011 n. 10020; Cass. 12 dicembre 2011 n. 26581).
Nella fattispecie in esame la Corte di merito, pur dando atto
che gli stessi lavoratori hanno ammesso che la mancata
coincidenza del luogo di inizio con quello di cessazione del lavoro
giornaliero non era determinata da disposizioni aziendali, ma

scelta non vale ad escludere l’applicabilità della norma in
questione.
Ma così facendo, la Corte territoriale non si pone in linea
con i principi di diritto sopra affermati, richiamati dalla stessa
Corte, secondo cui il computo del tempo di viaggio ai fini indicati
presuppone non solo che non vi sia coincidenza del luogo di
inizio con quello di cessazione del lavoro giornaliero, ma che tale
circostanza sia determinata non da una libera scelta del
lavoratore, ma, esclusivamente, da specifiche disposizioni
aziendali.
In altri termini, una volta accertato che gli spostamenti dei
lavoratori, all’inizio o alla cessazione del lavoro da prestare in
azienda, non erano imposti da esigenze organizzative aziendali e
che i dipendenti non avevano interesse a concludere la
prestazione nel luogo in cui questa era stata iniziata, viene meno
il presupposto del “viaggio comandato”, e cioè del trasferimento
inevitabile per l’organizzazione dei turni, derivante da
disposizione aziendale.
Diversamente ragionando, ogni separazione dei luoghi di
inizio e termine della giornata lavorativa, non dipendente da
“viaggi comandati” e non predeterminata dalla programmazione
del lavoro aziendale, ma dettata da scelte dei prestatori di lavoro
riconducibili ad interessi personali degli stessi, dovrebbe
rientrare nella previsione di cui all’art. 17, lettera c), R.D.L.
citato, in contrasto con la funzione di tale disposizione che è
quella di compensare il tempo che il lavoratore impiega per lo

costituiva una loro libera scelta, ha tuttavia ritenuto che tale

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3. In conclusione il ricorso deve essere accolto, con la
conseguente cassazione della impugnata sentenza.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la
causa va decisa nel merito a norma dell’art. 384, secondo
comma, cod. proc. civ., con il rigetto sul punto della domanda
proposta dai lavoratori.

risarcimento dei danni asseritamente subiti dai lavoratori è
inammissibile. Da un lato essa non risulta affrontata dalla Corte
di merito, dall’altra è priva di interesse per l’Azienda non essendo
oggetto del presente giudizio, in cui i lavoratori sono rimasti
intimati.
5. Vanno confermate le statuizioni sulle spese adottate dai
giudici di merito, avuto riguardo al diverso esito dei relativi
giudizi. Per la stessa ragione i lavoratori non vanno condannati
al pagamento delle spese di questo giudizio, in cui sono rimasti
intimati.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e,
decidendo nel merito, rigetta la domanda dei lavoratori.
Conferma la statuizione sulle spese adottate dai giudici di
merito. Nulla per le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma in data 4 febbraio 2014.

4. La questione, dedotta dall’Azienda ricorrente, relativa al

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