Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 930 del 20/01/2021

Cassazione civile sez. I, 20/01/2021, (ud. 09/12/2020, dep. 20/01/2021), n.930

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 14957/2019 R.G. proposto da:

E.C., rappresentato e difeso giusta delega in atti dall’avv.

Laura Barberio, (PEC laurabarberio.ordineavvocatiroma.org) con

domicilio eletto presso il ridetto difensore in Roma via del Casale

Strozzi n. 31;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato con

domicilio in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato (PEC ags.rm.imailcert.avvocaturastato.it);

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di appello di Perugia n. 111/2019

depositata il 20/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del

09/12/2019 dal Consigliere Dott. Roberto Succio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

– con il provvedimento di cui sopra la Corte Territoriale ha respinto l’appello del ricorrente;

– avverso tal sentenza si propone ricorso per cassazione con atto affidato a tre motivi e illustrato da memoria; il Ministero dell’Interno resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– il primo motivo di ricorso dedotto censura la gravata sentenza per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 5 e 14, nonchè del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3 e 5 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, tutti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere la CTR preso in esame, nell’ambito dei poteri officiosi del giudice, le minacce subite in Nigeria nel villaggio di (OMISSIS) dal ricorrente perchè si sottoponesse a riti locali per prendere il posto del padre scomparso;

– il secondo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g, artt. 3, 4, 5, art. 6, comma 2 e art. 14, lett. c), relativamente alla situazione di grave violenza indiscriminata in Nigeria e violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, per avere la Corte perugina omesso di prender in considerazione la situazione in Nigeria in quanto ha ritenuto che il ricorrente abbia posto a fondamento della sua fuga la vicenda esclusivamente privatistica del timore di ritorsioni, senza peraltro esercitare i poteri di approfondimento istruttorio di natura officiosa relativamente al conflitto ivi in corso;

– i motivi, strettamente connessi tra di loro, possono esaminarsi congiuntamente; gli stessi sono infondati;

invero, le minacce anche di morte da parte di una setta religiosa integrano gli estremi del danno grave del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14 e non possono essere considerate un fatto di natura meramente privata anche se provenienti da soggetti non statuali, atteso che la minaccia di danno grave può provenire, ai sensi dell’art. 5, lett. c), del D.Lgs., anche da “soggetti non statuali, ma solo se i responsabili di cui alle lett. a) e b)”, ossia lo Stato e i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o il territorio o parte di esso, le quali “comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione”, ai sensi dell’art. 6, comma 2, contro persecuzioni o danni gravi. (Cass. Sez. 6-1, n. 3758/2018, conf. Cass. Sez. 1, n. 23604/2017; Cass. Sez. 6-1 n. 16356/2017; Cass. Sez. 6-1, n. 15192/2015);

– poichè però, detti soggetti sono considerati responsabili solo “se (“può essere dimostrato che”: art. 6 direttiva n. 2004/83/CE) lo Stato e le organizzazioni internazionali) non possono o non vogliono fornire protezione”, a fronte di atti persecutori e danno grave non imputabili direttamente ai medesimi “soggetti non statuali”, ma pur sempre allo Stato o alle menzionate organizzazioni collettive. (Cass. Sez. 1, n. 16940/2020; Id., n. 24361/2020; Sez. 2, n. 19258/2020; Sez. 6-1, n. 9043/2019), era onere del ricorrente dedurre e dimostrare che gli organi a ciò preposti non fossero in grado di fornire tutela;

– il che non è stato; anzi vi è in sentenza indicazione del contrario avendo la Corte d’appello accertato in fatto, con statuizione qui in sede di Legittimità non più rivedibile, che “non sussiste alcuna prova che lo Stato non sia in grado di approntare una tutela all’appellante”;

– quanto all’omesso esercizio del potere officioso di cui sopra, questa Corte va osservato che, in materia di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva o condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (Cass., n. 15794/19; n. 17069/18);

– nel caso concreto, il ricorrente non ha allegato i fatti costitutivi del diritto al riconoscimento dello status richiesto, emergendo piuttosto dalle stesse dichiarazioni rese dal ricorrente – come valutate in fatto dal giudice del merito – che le vicende che l’hanno indotto a lasciare il Paese di origine costituiscono vicende di natura privata;

– il terzo motivo si incentra sulla violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 6 TUI e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 2, relativo ai presupposti per la concessione della protezione umanitaria per avere la Corte d’appello omesso l’esame del trattamento subito dal richiedente in Libia, ai fini del riconoscimento della protezione c.d. “umanitaria” per la sua particolare vulnerabilità;

– il motivo è sia inammissibile sia infondato;

– la deduzione di una omessa considerazione nella sentenza impugnata del periodo di transito in Libia e quindi della mancata attivazione del dovere di collaborazione istruttoria da parte del giudice è profilo del motivo inammissibile perchè, meglio qualificata la censura come omessa pronuncia, e quindi come violazione del principio di corrispondenza ex art. 112 c.p.c., essa soffre di non autosufficienza non avendo il ricorrente provveduto a dedurre di aver allegato siffatta situazione a fondamento della domanda dinanzi al tribunale;

– inoltre, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nel prevedere che “ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati” è stato condivisibilmente inteso da questa Corte nel senso che l’obbligo di acquisizione delle informazioni da parte delle Commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti nella richiesta di protezione internazionale, non potendo per contro il cittadino straniero lamentarsi della mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi riferita a circostanze non dedotte, ai fini del riconoscimento della protezione (cfr. Cass. n. 30105 del 2018, in motivazione, Cass. n. 9842 del 2019; più recentemente: Cass. n. 9188 del 2020);

comunque, il motivo è anche infondato, in quanto il ricorrente non deduce, se non facendo riferimento a un mero “viaggio” attraverso detto Stato (pag. 10 del ricorso per cassazione) e non risultando tal elemento dalla sentenza impugnata, la sussistenza in fatto di un significativo suo periodo di permanenza in Libia;

– questa Corte infatti ritiene (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13758 del 03/07/2020) che in tema di protezione umanitaria, il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, impone al giudice del merito di valutare la domanda alla luce di informazioni precise ed aggiornate circa la situazione esistente nel Paese di origine del richiedente e “ove occorra” nel Paese in cui è transitato, allorchè l’esperienza vissuta in quest’ultimo presenti un certo grado di significatività in relazione ad indici specifici quali la durata in concreto del soggiorno, in comparazione con il tempo trascorso nel paese di origine;

conclusivamente, quindi, il ricorso è rigettato;

– le spese sono regolate dalla soccombenza;

si dà atto della sussistenza, nei confronti del ricorrente principale, dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, ove il versamento ivi previsto risulti dovuto.

PQM

rigetta il ricorso; liquida le spese in Euro 2.100 oltre a spese prenotate a debito che pone a carico di parte soccombente.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 9 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2021

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